“Trovatemi un colpevole”: così le forze dell’ordine hanno mandato due giovani turchi in carcere senza prove
Ecco la controversa storia di Sakik e Kercec. Due giovani turchi condannati a 12 anni in primo grado come trafficanti di uomini unicamente sulla base delle accuse delle forze dell’ordine
A Crotone, sulla costa ionica calabrese, il 6 giugno sono stati condannati a 12 anni di carcere e una multa di quasi due milioni di euro due giovani cittadini turchi per l’approdo fuori legge di 69 migranti su una piccola imbarcazione a vela. Il tutto è avvenuto meno di un mese prima della sentenza, la tarda sera del 13 maggio, quando i due giovani venivano subito individuati come i presunti scafisti del mezzo e perciò messi agli arresti in carcere. Kercek Abdulkadir e Sakik Mehmet hanno, rispettivamente, 23 e 24 anni, appena il doppio di quelli che dovranno trascorrere in carcere.
Ciò che emerge dal processo è innanzitutto la disumanità dell’esperienza. Con l’aiuto dell’interprete incaricato dal tribunale, uno dei migranti sentito come testimone ha raccontato che molti dell’equipaggio sono partiti dall’Afghanistan per raggiungere l’Iran e poi la Turchia, dove sono rimasti per circa nove mesi prima di imbarcarsi per le coste italiane. I contatti per l’organizzazione del viaggio li hanno trovati da altri migranti già entrati in Europa: un numero di telefono da chiamare per avere tutte le informazioni utili per raggiungere l’Europa. Il viaggio è costato 10mila euro, pagati tramite bonifico da un account iraniano a un altro account iraniano. Uno dei testimoni, a domanda del pubblico ministero spiegava che in Turchia, nell’attesa di imbarcarsi, aveva alloggiato in una stanza insieme ad altri sette migranti ma che soltanto lui però veniva trasferito alle 4 e mezzo della notte della partenza a bordo di un taxi che lo portava sulla spiaggia dove era ormeggiata una piccola imbarcazione che a gruppi di quattro portava i migranti a bordo di un veliero di 15 metri.
L’imbarcazione, per com’è tarata potrebbe ospitare al massimo sette persone, ma è stata riempita fino a dieci volte la sua capienza massima. Secondo il suo racconto, le persone che l’hanno portato a bordo del veliero sono sparite subito: «Ci hanno chiuso, se ne sono andati e, poi, noi siamo partiti dopo quattro ore». Prima della partenza una persona corpulenta, identificata come “Big man”, è entrata dentro la stiva, ha preso i telefonini e li ha messi in una busta in un’altra stanza, minacciandoli che se avessero toccato i cellulari sarebbero stati arrestati dalle autorità italiane.
Durante la traversata i migranti erano divisi in tre diverse stanze: ce n’era una più grande, una piccolina, e una media, la terza. Nei primi tre giorni di traversata i migranti non potevano assolutamente spostarsi o uscire dalle stanze. Solo l’ultimo giorno era stato concesso ad alcuni di loro di andare in bagno o di uscire per fumare una sigaretta. Le tre stanze sottocoperta erano comunicanti, ma i migranti non potevano spostarsi perché si correva il rischio che la barca si ribaltasse. Per paura di morire, quindi, sono rimasti sdraiati e fermi per tre giorni. Soltanto l’ultimo giorno di traversata gli era stato concesso di uscire da sottocoperta in due occasioni perché si stava sentendo male.
Una volta uscito, il testimone ha riferito di aver visto due altri rifugiati sopra coperta, ma nessuno a timonare perché era stato disposto il pilota automatico. Ha poi dichiarato che i due imputati avevano dimorato nella prima stanza sottocoperta e che l’ultimo giorno della traversata aveva trovato gli imputati fuori a fumare. Infine, ha riferito di non aver mai visto gli odierni imputati condurre l’imbarcazione e che se questo era sembrato dalle prime dichiarazioni rilasciate alle forze dell’ordine la sera dello sbarco, sarà stato per un errore di traduzione.
Da qui il dubbio: 12 anni di carcere per qualche sigaretta? Gli inquirenti nel processo hanno spiegato invece di essere sicuri del ruolo di scafisti dei due giovani imputati per una serie di altri elementi probatori, fra cui l’osservazione del veliero da parte della Guardia Costiera con obiettivi optometrici che permettono di vedere chiaramente anche di notte e fino a tre chilometri di distanza. Al momento dell’abbordaggio, ha spiegato in aula il maresciallo della Sezione navale della Guardia di Finanzia di Crotone in servizio quella notte, avrebbero monitorato a vista le persone che durante questo avvicinamento hanno visto portare il timone e nel momento in cui si sono avvicinati e hanno illuminato l’imbarcazione, sono riusciti a distinguere queste persone che hanno tentato di mischiarsi con gli altri migranti e hanno dichiarato in maniera mendace di essere iraniani quando in realtà parlavano solo la lingua turca.
A tal proposito, i due imputati hanno fornito la stessa versione dei fatti: hanno mentito sulla loro nazionalità, perché «c’è stato raccomandato da un certo signore: quando arrivate in Italia non dichiaratevi turchi, perché i turchi li rimandano indietro». Il comandante della sezione navale della Guardia di Finanza crotonese, invece, ha spiegato in che modo, al momento degli sbarchi, interrogano i migranti a bordo, già turbati dal viaggio, per comprendere chi avesse una maggiore libertà di movimento durante la navigazione: è questo dettaglio che consente di individuare i presunti scafisti di ogni viaggio. Unitamente alla nazionalità delle persone a bordo: un turco in mezzo a trenta iraniani, per esempio, è di certo lo scafista. E tanto è bastato a mettere dietro le sbarre due ventenni.
L’immigrazione e in particolare gli sbarchi di migranti sulle nostre coste stanno tornando prepotentemente argomento di campagna elettorale. Con tutto il carico di approssimazione, strumentalizzazione e falsificazione che abbiamo già visto e che non ha mai aiutato a risolvere nessuna delle complesse problematiche che il fenomeno si porta dietro da decenni. Solo sulla costa ionica crotonese, negli ultimi 15 giorni, sono arrivati oltre 1.400 migranti. Uno dei temi più in voga in passato, che sembra poter presto imporsi al fianco di quello relativo ai “porti chiusi”, è quello della lotta ai trafficanti di uomini, e quindi il pugno duro contro gli scafisti. Da inizio anno, in base alle notizie di cronaca riportate sul sito della questura di Crotone, sono stati arrestati almeno quaranta presunti tali.
In base a quanto previsto dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione (Tui), chi viene identificato come colui che ha guidato un’imbarcazione diretta in Italia con a bordo dei migranti è subito accusato del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsto dall’ordinamento italiano al fine di scoraggiare, punire, reprimere gli ingressi in violazione delle norme che regolano l’ingresso regolare in Italia e, in tal modo, proteggere i confini dello Stato. La pena prevista per il cosiddetto “favoreggiamento semplice” è quella della reclusione da 1 a 5 anni e del pagamento di multa di 15mila euro per ciascuna persona agevolata all’ingresso irregolare. Si tratta di una legge angusta, inasprita inoltre dalle numerose aggravanti contenute nei commi 1 e 3. Infatti, qualora le persone trasportate siano superiori a cinque, abbiano corso dei rischi o siano state sottoposte a trattamenti inumani, se il reato viene commesso insieme ad almeno tre persone o utilizzando documenti falsi, se gli autori del reato sono in possesso di armi, la pena aumenta da 5 a 15 anni.
La legge prevede un aumento ulteriore degli anni di reclusione in carcere nel caso in cui vengano accertate più aggravanti contemporaneamente. La norma punisce non solo chi promuove, dirige, organizza, finanzia il traffico di esseri umani, ma anche chi materialmente trasporta migranti sprovvisti di visto di ingresso e, in generale, chiunque con il proprio comportamento faciliti l’ingresso illegale di stranieri in Italia o in altro Stato europeo. In questo modo, trafficanti e migranti che si mettono al timone delle imbarcazioni, anche se costretti da terzi, vengono posti sullo stesso piano e perseguiti senza distinzione alcuna.
Un’altra questione che riguarda la criminalizzazione degli “scafisti” è quella della protezione internazionale, disciplinata dalla convenzione di Ginevra del 1951, che stabilisce le cause di esclusione al suo riconoscimento. L’Ue ha recepito quanto stabilito nella Convenzione attraverso la direttiva del 2004/83/CE, attuata in Italia nel 2007 con il decreto legislativo n. 251. In base a quanto stabilito dalla normativa italiana, la condanna per alcuni reati considerati particolarmente gravi dall’ordinamento italiano, comporta l’esclusione dallo status di rifugiato e dalla protezione sussidiaria, perché il cittadino straniero rappresenta «un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica». Nel 2009 il pacchetto Sicurezza promosso dal leghista Roberto Maroni ha inserito in questa lista di reati l’articolo 12 del Tui nella forma aggravata.
Nel 2018, il leader della Lega Matteo Salvini ha deciso di includere tutte le ipotesi di reato contemplate dall’articolo 12, con l’approvazione del decreto sicurezza. In tal modo, un richiedente asilo che viene condannato con l’accusa del reato di favoreggiamento dell’immigrazione per aver guidato l’imbarcazione sulla quale ha viaggiato viene profondamente ostacolato nella successiva richiesta di protezione internazionale. A marzo 2022, la corte di Cassazione ha dichiarato incostituzionale la lettera “d” del terzo comma dell’articolo 12, che prevedeva un aggravamento della pena nel caso in cui la persona straniera avesse utilizzato documenti contraffatti o ottenuti illegalmente.
La tragicità delle condanne subite da chi viene accusato di essere uno “scafista” viene ben spiegata nel report “Dal mare al carcere”, un’indagine condotta da Arci Porco Rosso e Alarm Phone con la collaborazione di Borderline Sicilia e borderline-europe e pubblicato il 15 ottobre 2021. Il report raccoglie i dati sul numero di condanne comminate in Italia negli ultimi anni, il peso delle stesse e mette in luce l’azione criminalizzante nei confronti di queste persone. Infine, lascia emergere cosa queste sentenze comportino all’interno delle carceri. Su mille casi esaminati le condanne variano dai due anni ai vent’anni. In particolare, venti persone con pene detentive di oltre dieci anni e sette persone che hanno ricevuto l’ergastolo. Nel 2018 e 2019, si legge fin dalle prime pagine dell’indagine, la polizia ha arrestato circa una persona ogni cento migranti arrivati. Il numero complessivo dei fermati dal 2013 al 2021 è di 2.559.
«Da un esame di quasi mille casi, stimiamo che oltre un terzo degli arrestati provenga dal Nord Africa, il 20 per cento dall’Est Europa e il 20 per cento dall’Africa occidentale. Molti dei cittadini del Nord Africa e dell’Africa occidentale arrestati e imprigionati in Italia sono stati costretti a guidare i barconi dalla Libia, paese da cui fuggivano. Nel caso degli scafisti dell’Est Europa, molti raccontano di essere stati indotti con l’inganno al traffico di persone». La popolazione carceraria di origine straniera in Italia costituisce il 32,5 per cento del totale: il nostro Paese è al primo posto tra i maggiori europei per numero di detenuti stranieri in cella.
«Andate a trovarmi un colpevole! Così il comandante ci ha detto di fare», il report “Dal carcere al mare” si apre così. Con una dichiarazione di un mediatore linguistico che lavorava con la Guardia costiera. Ma sono gli stessi membri delle Forze dell’ordine ad ammetterlo più volte. Stando a quanto emerge dal report, arresti, indagini e condanne nei confronti di chi viene individuato come “scafista” si svolgono in fretta, molto in fretta. Ai passeggeri non viene chiesto nulla sugli organizzatori del viaggio, cioè sui vertici delle organizzazioni criminali che organizzano il traffico nei Paesi di partenza. Non viene chiesto se la persona che ha guidato, o chi lo ha assistito, è stata costretta a farlo: interessa individuare chi si è messo alla guida dell’imbarcazione, senza indagare oltre. E così, qualche sigaretta e la vicinanza al timone condannano a vita Sakik e Kercek a Crotone, ma ce ne sono migliaia come loro.
Nel caso dei due giovani turchi, la Corte di Appello di Catanzaro sarà chiamata a rivalutare questa prima sentenza emessa dal tribunale di Crotone. Per il secondo grado di giudizio, a difesa di Sakik Mehmet è stato chiamato l’avvocato Arturo Salerni, già legale di Open Arms durante il processo contro Matteo Salvini. «Sono stato nominato adesso, e insieme al difensore del primo grado (l’avvocato Gianluca Marino, ndr) proporremo appello, in correlazione al fatto che manca un elemento probatorio tale da poter condurre a una condanna così pesante nei confronti di un ragazzo giovanissimo, rispetto al quale non è stato rinvenuto alcun elemento sull’effettiva partecipazione all’organizzazione del traffico clandestino di migranti. Abbiamo solo la testimonianza della guardia di finanza che vede lui accanto al timone, non ci sono le mappe, non c’è altro», ha spiegato Salerni, il quale ha poi evidenziato che «i tempi assolutamente ristretti nello svolgimento del processo e la condizione di reclusione del ragazzo, la lontananza dello stesso dal luogo da cui la barca è partita ha reso più problematico il reperimento di elementi a discarico, ma questo fatto comunque non colma la carenza di elementi probanti a carico di Sakik».
Secondo l’avvocato Salerni, ormai esperto di questo genere di processi, «procedere sommariamente nei confronti di alcune delle persone che giungono in Italia attraverso viaggi che spesso si rivelano disperati con esiti tragici, individuando superficialmente alcune delle persone in relazione a condotte che di per sé non possono costituire un elemento di prova, sta diventando una drammatica prassi nelle nostre aule di Giustizia, rispetto alla quale occorre un supplemento di mobilitazione e di attenzione difensiva.
Spesso ci troviamo di fronte a persone che non hanno la possibilità di nominare difensori di fiducia, di avvalersi di poter svolgere investigazioni difensive a discarico e quindi di poter utilizzare tutti gli strumenti difensivi che il nostro codice permetterebbe. Restiamo sempre nella logica del dover trovare una rilevanza penale a ogni costo rispetto alla condotta di chi scappa da condizioni di miseria, guerra o persecuzioni e cerca rifugio nel nostro Paese». Poi, conclude: «Mi auguro che Sakik venga assolto e il verdetto del primo grado ribaltato in Appello. La sua famiglia è disperata: da Istanbul, mi chiamano quasi ogni giorno per confidarmi ansie, preoccupazioni e la paura di non poter riabbracciare il figlio».