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Home » Cronaca

Mercalli a TPI: “Marche? Era impossibile prevedere”

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ANSA/ALESSANDRO DI MEO

L'intervista al meteorologo sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 23 settembre

Per quanto sofisticate le previsioni di oggi non sono in grado di prevedere l’intensità di un temporale e la sua esatta collocazione. Come è accaduto per le Marche. «Ma in futuro», spiega il meteorologo Luca Mercalli, «saremo in grado di fare previsioni a un mese, forse con il tempo a sei mesi o un anno».

Il temporale che ha devastato le Marche ci ricorda gli effetti dei cambiamenti climatici e la difficoltà di prevedere eventi estremi. Questo evento era prevedibile da voi meteorologi, almeno in tendenza?

«Era previsto, tanto è vero che sull’Umbria e sulle Marche c’erano rispettivamente un’allerta arancione, che è già una classe molto elevata, e una gialla, che richiede pur sempre forte attenzione e vigilanza. L’allerta si dà sia in previsione di fenomeni intensi ma anche per la loro estensione spaziale. In un’allerta arancione ci può stare anche un evento come quello delle Marche, intenso ma concentrato su pochi comuni, mentre per dare un’allerta rossa ci sarebbe dovuta essere per esempio una gigantesca alluvione su tutto il Nord Italia, o in tutto il bacino del Po. Il problema in questo caso è stato di confine. La previsione dava i temporali più forti sul crinale appenninico verso il Tirreno, interessando il Tevere e l’Arno, e invece è debordato di una cinquantina di chilometri verso l’Adriatico. “Dettagli” che la previsione attuale, soprattutto con i  temporali, non riesce ancora a risolvere in modo preciso. Un conto è una grossa perturbazione invernale, larga 500 chilometri, un altro è un temporale che è sempre un fenomeno su piccola scala. Detto questo va sottolineata l’eccezionalità e l’anomalia di questo evento: con più di 400 millimetri caduti in nove ore, è probabilmente il temporale più forte nella storia della regione. Lo verificheremo quando avremo i dati. Resta un tema cruciale: la capacità della società italiana di prestare attenzione a questi fenomeni».

Cioè?

«La previsione c’era, ma come sempre succede per questi fenomeni non è possibile stabilire un come, un dove e un quando preciso. Si può solo dare un’allerta generalizzata, nella speranza che susciti la giusta attenzione di autorità e cittadini. Ci vorrebbero delle capacità personali e di auto-protezione che purtroppo non sono coltivate dall’informazione italiana. Dalla fine di luglio in poi abbiamo avuto sette eventi alluvionali: Val Camonica, la Valle di Fassa, Scilla, l’Irpinia, l’episodio del 18 di agosto in Toscana e Liguria, e Como. Una volta ogni quindici giorni se va bene, incorriamo in situazioni del genere. Quando non c’è il morto non fa notizia, quando ci sono vittime se ne parla per due o tre giorni e poi ci si dimentica di tutto».

Legambiente ha censito a partire dal 2010, 1.391 casi climatici estremi, 205 dei quali da inizio anno. Cosa sta succedendo al nostro clima?

«Lo sappiamo benissimo cosa succede. La temperatura mondiale si è alzata di 1,2 gradi nell’ultimo secolo, media globale. L’Italia è salita di due gradi, cioè il Mediterraneo si sta riscaldando di più della media globale. L’Italia è stata classificata da tempo hot spot climatico, cioè un punto particolarmente esposto e vulnerabile ai fenomeni estremi, e questo non è che l’esito assolutamente atteso da decenni, in tutti gli studi sul cambiamento climatico».

Dobbiamo abituarci a eventi di questo tipo?

«La parola “abituarci” non mi piace, presume il fatto che si possa convivere con relativa tranquillità con queste emergenze. Piuttosto dovremo adattarci, nel senso che avremo un prezzo da pagare: gli eventi estremi diventeranno più frequenti, più intensi, in parte affrontabili con nuove infrastrutture, ma non completamente. Ci sarà sempre un danno, un rischio aggravato, vittime, dobbiamo tenere presente questo aspetto. Possiamo mitigarlo, ma non sarà una passeggiata».

Quanto il cambiamento climatico complica il lavoro di un meteorologo?

«Pochissimo. L’idea comune è che le previsioni meteorologiche siano basate sulla statistica, guardando a tutto quello che è successo nel passato. Non è così: la maggior parte di una previsione meteorologica è una simulazione matematica dei processi fisici e termodinamici dell’atmosfera e dell’oceano (i modelli cominciano ad analizzare oceano e atmosfera in accoppiata), che ha come stato iniziale quello che è l’atmosfera in questo momento. Ma il cambiamento climatico non cambia il funzionamento dell’atmosfera: le equazioni sono le stesse, l’importante è mettere i dati di oggi, non quelli di cento anni fa».

E allora qual è il problema? Perché non riusciamo a prevedere con sufficiente anticipo eventi di questo tipo?

«Con o senza cambiamento climatico, è un limite delle previsioni che c’è sempre stato. Anzi, via via che passano gli anni, la precisione delle previsioni aumenta. Può sembrare un paradosso ma non lo è. Oggi abbiamo le previsioni migliori della storia ma non siamo ancora in grado di quantificare l’intensità e la localizzazione di un temporale di questa forza, a causa della piccola dimensione locale del nubifragio. L’allerta c’era, un fenomeno intenso era atteso, ma non potevamo prevedere una sequenza di temporali stazionari da 400 millimetri in nove ore».

Uno studio della Stanford University, pubblicato a gennaio, mostra che l’aumento delle temperature può intensificare l’imprevedibilità del tempo alle medie latitudini della Terra, Italia compresa.

«Quel paper non dice però che sia più difficile fare previsioni. Piuttosto afferma che il cambiamento climatico rende meno affidabile e rende più corta la finestra di giorni prevedibili: in altre parole, rende più incerti i modelli verso il decimo giorno di previsione. In un mondo più caldo aumentano i fenomeni convettivi, come i temporali dell’altro giorno, e i vortici nel fluido atmosferico, che sono per definizione caotici e portano a una maggiore propagazione di errori di lungo periodo nei modelli che usiamo. Ma già oggi quello è il limite intrinseco di una previsione. Sul breve periodo – due-tre giorni – non ci sono invece grandi cambiamenti di affidabilità dovuti al riscaldamento globale».

Gran parte delle persone si informa del meteo dai dispositivi mobili, dove credo a tutti sia capitato almeno una volta nella vita di vedere errori marchiani nelle previsioni. Come spiegare questi errori?

«Chi ha fatto quella previsione? Qual è la fonte? Accuweather, per citare uno dei servizi meteorologici più popolari, è una multinazionale americana che dirama previsioni in tutto il mondo, senza avere la minima conoscenza del territorio: un punto in Italia o nel Pacifico sono la stessa cosa per le loro griglie automatiche. Mentre i dati interpretati dal meteorologo, che conosce il territorio, conosce l’orografia, li trova sui siti ufficiali della zona dove vive. Arpa, protezione civile, anche se in Italia abbiamo una situazione molto confusa, con servizi meteorologici regionali più quello nazionale dell’Aeronautica militare che non ha finalità specifiche per turismo, agricoltura, rischio idrogeologico».

Dove sta la confusione?

«In Italia si sono sovrapposti negli ultimi trent’anni i servizi regionali a quello dell’aeronautica, un’anomalia unica in Europa. Mentre sarebbe bene che i servizi non fossero divisi. La recente agenzia pubblica Italia Meteo dovrebbe ora unificare l’offerta verso i cittadini».

Verso cosa va oggi la meteorologia?

«L’anello mancante su cui si sta lavorando è la previsione sulla scala di un mese e di un anno. Oggi siamo fermi ai dieci-quindici giorni. Pensiamo ad esempio, a cosa vorrebbe dire conoscere in anticipo se questo sarà un inverno più caldo o più freddo, per la pianificazione europea delle scorte di gas. Tra addetti ai lavori, stiamo usando modelli sperimentali a scala stagionale ma perché diventino operativi ci vorrà ancora del tempo».

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