“Non siamo supereroi, anche noi abbiamo paura”: parla l’infettivologa di Msf impegnata nella lotta al Covid in Italia
Dal 12 marzo scorso Medici Senza Frontiere è attiva in Lombardia e nelle Marche per supportare la task force del governo nella risposta all'emergenza Coronavirus. Stella Egidi, referente medico della Ong, ha raccontato a TPI cosa significa per un'operatrice umanitaria da sempre impegnata nella cura di epidemie a sud del mondo, svolgere una missione nel proprio Paese
Coronavirus, intervista all’infettivologa di Msf
Stella Egidi è un’infettivologa di Medici Senza Frontiere (Msf), e a partire dal 12 marzo è referente medico del team che supporta la taskforce del governo nella risposta all’emergenza Coronavirus in Lombardia e nelle Marche. Ha lavorato per oltre 10 anni in Africa combattendo altre epidemie, come l’Hiv, la tubercolosi, il morbillo, la malaria o il colera. Se cinque anni fa, mentre era alle prese con una di queste emergenze, le avessero detto che si sarebbe occupata di un’epidemia nel suo Paese, probabilmente non ci avrebbe creduto, ma “l’aiuto non fa distinzione tra nazionalità, continente, fede politica o religione”, e al momento opportuno si è rimboccata le maniche senza pensarci troppo.
“Siamo qui senza tirarci indietro, senza interrogarci sul come e perché, c’è bisogno e si interviene qui come si farebbe altrove”, racconta. Nell’intervento messo in campo in Lombardia e nelle Marche, i circa 30 operatori di Msf attivi nella risposta all’emergenza Covid hanno cercato di adattare le competenze e il know how che deriva dalle esperienze fatte in tantissimi ambiti di gestione di epidemie in tutto il mondo alla risposta in Italia. “Nel momento in cui l’epidemia è scoppiata in Italia abbiamo sentito il dovere di offrire la nostra esperienza al ministero della Salute”, racconta Egidi a TPI.
Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie abbiamo concentrato gli sforzi sul lodigiano, nei 4 ospedali dell’azienda ospedaliera, su questi ospedali abbiamo portato un piccolo supporto all’assistenza diretta e ai pazienti, in modo limitato perché la qualità della risposta dei colleghi del sistema pubblico è eccellente, e un supporto più consistente rispetto all’organizzazione, la prevenzione e il controllo delle infezioni: formazione, corretta gestione dei DPI, ridefinizione dei circuiti ospedalieri.
In virtù dell’esperienza maturata in contesti diversi, dove le risorse sono molto più limitate e dove quindi c’è anche maggiore creatività e maggiore flessibilità rispetto alle misure e agli strumenti da mettere in atto, siamo capaci di adoperarci sul territorio. Le nostre esperienze possono aiutare sistemi sanitari come quelli occidentali, non solo quello italiano, spesso concentrati sulla struttura ospedaliera, meno abituati a lavorare a livello di comunità. Credo che l’incontro di queste due diversi metodi, quello occidentale e quello di chi lavora in contesti a basse risorse può produrre dei risultati interessanti a vantaggio di tutti. In Italia si è concentrato tutto dove sembrava esserci maggior bisogno, ovvero negli ospedali e nelle terapie intensive, ma in questa fase in cui cominciamo a controllare l’epidemia è prioritario rafforzare la rete di assistenza territoriale, per esempio quella fornita da medici di base per tutti i casi gestiti a domicilio perché scarsamente sintomatici. Ci occupiamo della gestione degli isolamenti per rompere le catene di contagio, del supporto alle cosiddetta Rsa, tra le grosse vittime di questa epidemia, su cui stiamo agendo con attività di rafforzamento sia attraverso la formazione sia attraverso la gestione di tutte le procedure di controllo dell’infezione. Perché o ci salviamo tutti, o non si salva nessuno.
Stiamo parlando di problematiche assolutamente diverse. L’hiv per esempio è assolutamente non paragonabile, nel senso che è stata ed è tutt’ora una emergenza globale, ma lo è in maniera diversa: una malattia sostanzialmente cronica che oggi può essere gestita con farmaci efficaci e facilmente gestibili. Qui parliamo di un’epidemia che si è sviluppata con estrema acuzie in un tempo limitato, che ci ha trovati impreparati. Rispetto ad altre ha avuta la caratteristica di non avere una letalità elevata, ma di mettere sotto sforzo il sistema sanitario, perché richiede un’assistenza specialistica e prolungata nel tempo. Le persone che richiedono un’assistenza in terapia intensiva la richiedono per settimane, quindi parliamo di ricoveri prolungati e spese che anche in termini di economia sanitaria sono pesanti. Una gestione completamente diversa da quella che può essere un’epidemia di morbillo, che ha una molto più vasta incidenza. I nuovi contagi sono più elevati con una letalità che dipende molto dai contesti su cui s’innesta. Ci sono approcci che “valgono” per tutte le epidemie, altri aspetti devono essere gestiti e affrontati in maniera specifica.
Per il modo in cui si trasmette e anche la resistenza che incontrano le norme di contenimento in alcuni contesti, forse il virus d’Ebola è quello che assomiglia di più al Covid-19?
L’Ebola ha mortalità più elevata: una persona che si infetta sopravvive pochi giorni e questo ha implicazioni sia nella catena di contagio sia nell’aggravio dell’assistenza medica. Detto così sembra cinico, ma negli ospedali che si occupano di Covid hai pazienti che si accumulano, continuano ad arrivare nuovi casi e non liberi i posti perché le persone in terapia intensiva si accumulano per settimane, continui ad aver nuovi casi che si aggiungono ai vecchi ma non riesci a dimettere dalla terapia intensiva un numero sufficiente di persone per avere un ricambio. Questo comporta uno sforzo enorme immane per tutto il sistema di assistenza.
È sbagliato fare classifiche, ma il prolungarsi dell’assistenza ospedaliera per il Covid è il fattore più stressogeno per il sistema sanitario.
Non siamo supereroi, non è che non abbiamo paura perché abbiamo vissuto tante volte queste situazioni. Detto questo credo che anche da parte del personale sanitario, nel momento in cui si crede in quello che si fa e si è opportunamente attrezzati con gli strumenti necessari e correttamente formati rispetto a quello che va fatto non credo che nessuno si tiri indietro. Quello che è successo è che a fronte della difficoltà di reperimento di materiale purtroppo molti colleghi si sono contagiati e molti sono stati reticenti rispetto ad esporsi senza protezione. L’aspetto della adeguata preparazione e del corretto utilizzo dei dispositivi di protezione è uno dei punti chiave nella risposta e il settore che stiamo cercando di rafforzare rispetto agli sforzi che il ministero sta facendo.
Credo che chi fa professionalmente con coscienza e serietà il proprio lavoro, lavora su questa epidemia come fa ogni volta, ogni giorno nella sua vita professionale. Condivido l’opinione che non ci sia nulla di particolare su cui ringraziare, se non per il fatto che le persone fanno con coscienza il proprio lavoro. Mi auguro che questa ondata di supporto e sostegno continui nel tempo perché i medici sono le stesse persone che vengono bersagliate per la cosiddetta mala sanità, bisogna mantenere il rispetto per la categoria.
Siamo medici e lavoriamo in base a un’etica medica universale, seguiamo i principi della nostra organizzazione, quindi l’imparzialità assoluta rispetto alle persone che assistiamo, interveniamo a prescindere da chiunque sia coinvolto nella risposta, a prescindere da sesso, razza, fede, politica, religione o etnia. La polemica non contribuisce nell’aiutare nell’emergenza. Non abbiamo opinioni da esprimere perché siamo medici, siamo un’organizzazione medica e umanitaria, e su questo basiamo i nostri interventi.
La collaborazione tra i diversi attori della società civile credo sia importante in questi contesti soprattutto di urgenza e necessità, servono meno polemiche e conflitti e più collaborazione. Che è la cosa più importante per il bene di tutti.
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