I genitori di Paciolla a TPI: “Mario non si sentiva tutelato dall’Onu. Sulla sua morte cerchiamo la verità”
Mario Paciolla, dipendente delle Nazioni Unite, è stato trovato morto nella sua abitazione di San Vicente del Caguán (Colombia) il 15 luglio del 2020. Nel nostro viaggio a San Vicente avevamo raccontato i ricordi commossi di chi lavorava con lui, ma anche i tanti dubbi irrisolti legati alla sua morte. A otto mesi di distanza dalla sua scomparsa, la nostra intervista ai genitori Anna e Giuseppe Paciolla ci restituisce un ricordo vivo di Mario: un poeta in azione.
Scriveva Novalis che esiste una differenza incolmabile tra il poeta e l’eroe: mentre il poeta osserva, l’eroe agisce. Mario Paciolla era un’eccezione. Pensava come un poeta, quando arrivava con le parole in versi dove i suoi lunghi passi si interrompevano. Ma agiva come un eroe, con il suo contributo quotidiano alla costruzione di alternative per gli abitanti del Caquetá, una regione martoriata dall’interminabile conflitto armato colombiano.
L’estrema disciplina con cui Mario Paciolla affrontava la sua attività di verifica degli accordi di pace tra la guerriglia FARC e il Governo colombiano per conto dell’ONU non poteva coincidere con gli avvenimenti del 14 luglio 2020, quando l’italiano non si è presentato a una riunione con Edilma Cruz, presidente di un’Associazione di Contadini a San Vicente, senza avvisarla. Era stato lo stesso Mario a sollecitare l’incontro quattro giorni prima, quando scrisse a Edilma che “aveva necessità di parlare urgentemente con lei”.
In quei cinque giorni, tra il 10 e il 14 luglio, sia i genitori di Mario che i suoi vicini avevano avvertito in lui uno stato di profonda preoccupazione, tanto che aveva improvvisamente deciso di comprare un biglietto di ritorno per l’Italia, con data 20 luglio. Nella mattinata del 15 luglio Mario è stato trovato morto nella sua abitazione, in circostanze non ancora chiarite. Oltre ad alcuni elementi di incompatibilità con la tesi del suicidio che trapelano dai risultati parziali dell’autopsia italiana, per ora coperta dal segreto di indagine, rimane l’incomprensibile silenzio delle Nazioni Unite, incapaci di fornire una risposta pubblica alle perplessità sull’operato di Christian Thompson, il responsabile della sicurezza della Missione ONU di cui Paciolla faceva parte.
Sopraggiunto nel luogo del decesso, Thompson ha infatti impedito l’accesso alle forze di polizia locali, ordinando di pulire l’intero appartamento con candeggina. Lo stesso Thompson ha inoltre gettato alcuni effetti personali di Mario e ha consegnato agli uffici delle Nazioni Unite computer e cellulare “aziendali”, ad oggi ancora nelle mani dell’ONU. È questa la tragica unicità della vicenda di Mario Paciolla: le indagini italiane non sembrano scontrarsi con le manipolazioni di un regime dittatoriale, come nel caso di Giulio Regeni, ma con la barriera di omertà innalzata dalle Nazioni Unite.
Mentre l’ipotesi che associava la morte di Mario alla sua denuncia di un bombardamento governativo a un accampamento delle Dissidenze delle FARC sembra perdere di fondamento (seppur ancora sostenuta –e strumentalizzata– dal senatore colombiano Roy Barreras), rimangono irrisolti i dubbi cui solo l’ONU potrebbe (e dovrebbe) rispondere: cosa è successo all’interno della Missione il 10 luglio? Perché il responsabile della sicurezza della Missione ha agito in quel modo?
La flebile eco mediatica della vicenda è mantenuta viva dalla famiglia, dall’avvocato e dagli amici di Mario, oltre che dal lavoro di giornalisti come Stephan Kroener, Gianpaolo Contestabile, Simone Scaffidi e Claudia Duque. Le violenze e le ingiustizie si combattono raccontando le storie di vita prima ancora delle storie di morte, ci insegnava Gabriel García Márquez. Le parole che ci hanno concesso i genitori di Mario, Anna e Giuseppe Paciolla, ci aiutano a mantenere vivo il grido di giustizia e verità, per interrogarci su ciò che è avvenuto il 15 luglio 2020, ma soprattutto per non dimenticare chi era e cosa faceva Mario, un poeta in azione.
Mario era una persona molto riservata, ci parlava poco del suo lavoro. Sicuramente quando partì con le PBI a marzo 2016, dopo un anno di formazione, lo fece con molto entusiasmo: sapeva di recarsi in contesti difficili, ma era felice di intraprendere nuovi percorsi di conoscenza. La scelta mirata dei suoi studi gli dava la consapevolezza di poter mettere le sue competenze a disposizione degli ultimi. Con L’ONU lavorava dall’agosto del 2018. La sua missione agiva affinché gli accordi di pace stipulati tra FARC e Governo si rispettassero secondo le convenzioni dei diritti umani internazionali. A noi genitori, preoccupati sempre per la sua incolumità, ha sempre risposto che, essendo un osservatore internazionale, il suo lavoro consisteva nel descrivere ciò che lui vedeva ed ascoltava. Era questo che faceva, una trascrizione dei fatti.
Mario aveva numerosi interessi: in primis lo studio e la conoscenza delle lingue, che gli ha dato la possibilità di dialogare con chiunque lui incontrasse, grazie anche al suo carattere aperto ed empatico. Poi, sicuramente, scrivere: del suo vissuto, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, attraverso articoli, racconti e poesie. Ma era anche un appassionato di sport: il basket e il calcio, la sua squadra del cuore, il Napoli. La devozione a Maradona, idolo indiscusso della sua fanciullezza. Era innamorato della sua città e delle sue contraddizioni.
Quando tornava a Napoli si recava a rivedere i luoghi a lui più cari: Marechiaro, la Sanità, il centro storico, dove incontrava gli amici di sempre. Con loro parlava delle sue esperienze, di geopolitica, di sport, sorseggiando un buon caffè napoletano che in Colombia gli mancava tanto. Amava le buone letture e il cinema impegnato. Mario era anche un appassionato ballerino: tanguero in Argentina, ballava salsa e merengue in Colombia. Quando raggiungeva Bogotà o delle zone di vacanza, si ritagliava spazi di svago, un po’ come tutti. Ultimamente ci aveva detto che gli mancava un’estate napoletana: il bagno nel mare della Caiola, il cielo azzurro di Napoli… Il suo contratto con l’ONU scadeva ad agosto e sperava, dopo quattro anni, di poter tornare in Italia per poter finalmente appagare questo desiderio.
Mario sapeva di essere in una zona problematica, e pensiamo che non si sentisse totalmente tutelato dai protocolli dell’ONU: più volte aveva chiesto di cambiare squadra, ma l’organizzazione non aveva mai acconsentito al suo trasferimento. Nei suoi racconti in chat e prima delle sue due ultime partenze abbiamo notato in lui un certo malessere: non ci manifestava timori e preoccupazioni, ma piuttosto delusione e malcontento. Ma sicuramente è nei suoi ultimi cinque giorni di vita che bisogna ricercare la verità della sua morte: sono quelli gli attimi dove lo abbiamo visto e sentito decisamente preoccupato, con la necessità urgente di lasciare la Colombia e la volontà di non tornare mai più in quel luogo e tantomeno con l’ONU.
Ringraziamo il giornalista Simone Ferrari dell’interessamento alla morte di Mario. Solo con l’aiuto, l’impegno e il sostegno di persone come lui siamo certi di mantenere vivo l’interesse sul caso, nella speranza di giungere a Verità e Giustizia. Giuseppe e Anna Paciolla
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