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Manuale della rivolta giovanile: ecco come (non) si organizzano i ragazzi per cambiare il mondo

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Fridays for Futures, Ultima Generazione, Intifada Studentesca. Sono le sigle più ricorrenti dell’attivismo di ragazzi impegnati su vari fronti: dal climate change alla guerra a Gaza. Suscitando, spesso, reazioni controverse. Il fondatore dei Pirati svedesi, Rick Falkvinge, e la direttrice di Anima International, Kirsty Henderson, spiegano a TPI cosa manca loro per conquistare l'opinione pubblica

L’ultimo atto eclatante è del 24 agosto scorso: Greta Thunberg, icona del movimento internazionale contro il “climate change”, ha occupato assieme ai militanti di Extinction Rebellion il più grande terminal petrolifero d’Europa, a Kårstø, in Norvegia. L’onda dell’ambientalismo giovanile riemerge periodicamente, di recente saldandosi con le occupazioni universitarie a sostegno della causa palestinese, come avvenuto ad aprile alla Sapienza di Roma. Negli Stati Uniti, i campus nei mesi scorsi sono diventati il fulcro di una mobilitazione under 30 le cui fiamme divampano dall’anti-razzismo del Black Lives Matter alla protesta per i massacri compiuti da Israele a Gaza e Cisgiordania. Fridays for Futures, Ultima Generazione, Intifada Studentesca sono sigle ricorrenti nelle cronache sull’attivismo di ragazzi impegnati su diversi fronti, dal surriscaldamento globale alla guerra in Palestina. Suscitando, spesso, reazioni controverse, per i blitz con vernice su opere d’arte o monumenti, o la richiesta di interrompere i rapporti con gli atenei israeliani, fino alle contestazioni per non far parlare conferenzieri sgraditi (come accaduto a marzo a David Parenzo, accusato di “sionismo”).

Al netto dell’opinione sulle forme dimostrative adottate, indubbiamente una ventata di vitalità ha animato i giovani al di qua e al di là dell’Atlantico, incluso il nostro Paese. Tuttavia, se gli obiettivi strategici sono evidenti, più problematiche risultano invece le tattiche, i metodi, le modalità di partecipazione. 

Polarizzazione e sacrificio
Chi è perfettamente tagliato a fornire un punto di vista da esperto, in materia di dissenso organizzato, è Rick Falkvinge. Fondatore del Partito Pirata svedese nel 2006, una decina di anni fa ha riassunto quanto imparato sul campo in un manuale teorico di tutto punto, da poco pubblicato in Italia con il titolo “Come uno sciame” (Ibex Edizioni). L’idea di base che allora premiò i Pirati in Svezia (e in seguito in Germania) fu di combinare l’impalcatura gerarchica dei partiti, seppur con una maggiore trasparenza, con il diritto all’auto-iniziativa dell’attivismo locale (tecnica “a sciame”, appunto). Utilizzando, in modo pionieristico per quei tempi, l’istantanea viralità del web come arma di propagazione a costo zero. Oggi, nell’attuale sollevazione giovanile Falkvinge riconosce tracce del suo modello: «Sì, assolutamente», ci dice entusiasta, «ho appreso che i più recenti movimenti giovanili verdi, come l’Extinction Rebellion e le comunità affini, hanno adottato gran parte della filosofia organizzativa della “tecnica di sciame”».

Ed è prodigo di consigli, l’ex leader dei Pirati. Partendo da una premessa: «L’umanità ha sempre dovuto risolvere i guasti lasciati dalla generazione precedente, creandone così di nuovi per la generazione successiva, ma è così che abbiamo aumentato il nostro tenore di vita complessivo. Sebbene l’incremento della CO2 richieda oggi un’attenzione urgente, è altrettanto importante rendersi conto che senza la rivoluzione industriale che l’ha causata, i giovani che protestano, e con loro noi tutti, non avrebbero il benessere che conosciamo, e probabilmente suderebbero sui campi zappando la terra». Il suggerimento di Falkvinge è quindi di «guardare avanti piuttosto che indietro, e vedere cosa può sostituire oggi le fonti di anidride carbonica». Il semplice fatto di «opporsi per via dimostrativa a ciò che domina oggi non cambia nulla: bisogna lavorare attivamente per trovare come sostituirlo, e sostituirlo con qualcosa di più desiderabile non solo per sé, vale a dire per chi protesta, ma anche per coloro di cui si vorrebbe cambiare i comportamenti». Senza illudersi, con ciò, di trovare soluzioni definitive, poiché «tali soluzioni creerebbero nuovi problemi imprevisti che la generazione successiva sarebbe chiamata a sua volta risolvere, e così il ciclo continua…».

Sembra un invito al realismo la cui eco, su un piano più pratico, si ritrova nelle parole di Kirsty Henderson. Executive director di Anima International, organizzazione paneuropea che lotta per la difesa degli animali, il suo messaggio-chiave si può sintetizzare nella parola «flessibilità». Associazioni come la sua (che, come ci spiega, si muove fra «indagini sotto copertura, attività di lobby politica e pressione sulle aziende») si mantengono attive sul lungo periodo grazie a una continua messa in discussione del proprio operato. Cominciando dalle strategie di breve-medio termine, che vanno «sempre riviste» perché «il mondo e gli avversari cambiano continuamente». L’errore da non commettere, secondo l’esponente animalista, «è pensare di aver trovato l’unica e definitiva tattica che funzionerà in qualunque caso. Dobbiamo sempre innovare, analizzare e testare. Non tutte le tipologie di campagna sono utili, o per meglio dire lo sono nel momento in cui vengono utilizzate». A questo proposito, la Henderson raccomanda «vivamente» un altro libro: «“This is an uprising” (di Mark e Paul Engler, 2016, ndr), che approfondisce le tattiche dimostrative che causano polarizzazione, il modo in cui il sacrificio espositivo può essere utile e come evitare le insidie più comuni».

I concetti di «polarizzazione» e «sacrificio dimostrativo» sono molto interessanti, per interpretare i movimenti di rivolta che magari, a volte, possono peccare di ingenuità, nell’architettare azioni d’impatto sottovalutando gli effetti avversi. Quando, per esempio, inconsapevolmente si polarizza, significa «accrescere la possibilità che l’opinione pubblica reagisca negativamente, producendo più contrari che favorevoli alla propria causa». Henderson cita il caso di «quei manifestanti per il clima che nel Regno Unito hanno recentemente bloccato il traffico come forma di protesta». «Sebbene in sé possa anche non essere una cattiva idea, può aver spinto molte persone contro, e non a favore delle motivazioni, semplicemente perché le recava un fastidio», ci spiega. Un caso che anche in Italia conosciamo bene, con gli automobilisti inferociti con gli ecologisti per i sit-tin in mezzo alla strada.

Per sacrificio dimostrativo, invece, si deve intendere l’esposizione pubblica di qualcosa di cui gli attivisti si privano, per «convincere la società della bontà delle idee in cui credono». Esempio classico: lo sciopero della fame. «Anche se questo metodo», precisa, «è raramente, per non dire oramai neanche più utilizzato, dal moderno movimento animalista».

Idealismo senza ottusità
Sistemi e stratagemmi comunicativi che, forse, possono sensibilizzare i già sensibili. Impietosamente lucido, Falkvinge ravvede nella ribellione giovanile, specialmente sull’ambiente, un prodotto di fasce sociali che non devono combattere contro penuria e fame: «Credo che in questo caso», sostiene, «si possa fare riferimento alla Piramide di Maslow dei bisogni umani, che stabilisce che devono essere soddisfatti alcuni bisogni fondamentali, prima di poter anche solo provare a soddisfare un bisogno di ordine superiore. Come individui dobbiamo avere cibo, un tetto e un minimo di sicurezza, prima di iniziare a cercare di far apprezzare e allargare la diffusione dei nostri ideali». Molti giovani, prosegue l’ex Pirata, «lavorano sodo per una serie di cause, ma coloro che si trovano più in basso nella piramide tendono a concentrarsi sui loro bisogni più immediati». Come dire: nel battagliare contro lo scioglimento dei ghiacci polari, attenzione a non dimenticarsi le priorità della parte socialmente ed economicamente più debole della popolazione (che difatti è, obiettivamente, più penalizzata dalle misure ecologiche dell’Agenda 2030). D’altro canto, quando si ha a che fare con movimenti di giovani di così ampia portata, è proprio la sua dimensione «a suggerire che sia ispirata da uno scopo idealistico più grande delle necessità materiali dei singoli». L’idealismo, insomma, è la molla buona. Purché non faccia rimuovere il dato fattuale che le esigenze di lungo periodo (cambiare modello di sviluppo) vengono dopo quelle più stringenti, per chi deve fare i conti con la sopravvivenza a fine mese.

Ciò che dei ribelli del 2024 “turba” Falkvinge, specie sul versante filo-palestinese (ma il discorso si potrebbe estendere al politicamente corretto dilagato negli ambienti universitari, in particolare negli Usa) è il boicottaggio di realtà considerate nemiche, che siano aziende israeliane o sostenitori di opinioni opposte alle proprie. «Il dibattito di tipo accademico richiede che gli studenti siano capaci di elaborare un pensiero considerandolo da più angolazioni, senza che questo obblighi a condividerlo o meno. Ma sembra che stiano perdendo questa capacità e, con essa, anche quella di andare controcorrente, quella tendenza all’eresia che ci ha dato giganti come Darwin, Newton e Galileo», puntualizza. «Per come la vedo io, sembra che l’odierno mondo accademico cerchi più conforto nelle bolle di pensiero corretto, perseguendo chiunque dia punti di vista alternativi, o sia anche solo accomunato a chi mette in discussione la cosiddetta correttezza di pensiero». Per Falkvinge «non è così che si creano le guide intellettuali di domani: è solo un modo di insegnare l’obbedienza cieca e indiscussa».

Servono teste pensanti, libere, agili, non conformisti alla rovescia. Specie, ovviamente, al vertice di masse che si radunano in sfilate a volte imponenti, ma fra le quali i militanti a tempo pieno sono di necessità pochi. «Avere dei leader che focalizzano la visibilità», chiarisce Henderson riferendosi ad esempio a Greta Thunberg, «può essere estremamente utile: aiutano a orientare i cittadini, agiscono come mezzo per riunire le persone e possono dirigere l’energia dei movimenti nelle direzioni più efficaci». Ma i movimenti più efficaci, sottolinea, se hanno sì «sempre dei leader, a volte però lavorano dietro le quinte, piuttosto che davanti alle telecamere». Si tratta della figura dello stratega, magari meno nota al pubblico ma non per questo meno essenziale, decisiva per non incorrere nel rischio dell’autoreferenzialità (e dell’ottusità). Dotato di una mentalità strategica, è in grado di soppesare l’intero quadro delle conseguenze oltre le semplici intenzioni e di scegliere, per dirla sempre con Henderson, «se essere di volta in volta collaborativi o conflittuali» con l’autorità. Parlando della sua esperienza nell’associazionismo pro-animali, la direttrice di Anima International illustra come sia «utile costruire relazioni forti e di collaborazione con i politici, ma questo può richiedere anni se non decenni di lavoro. Può darsi che occorra ricorrere ad azioni più di scontro, se riteniamo che un governo non mantenga una promessa, ci metta troppo tempo ad attuare cambiamenti significativi, o non faccia nulla. È tutto un gioco di equilibri». Equilibri di forza. Strategia, appunto.

Elasticità e pragmatismo
Per tirare le somme, il mix più adatto per superare certi limiti e difetti della rivolta giovanile, almeno per l’animalista Henderson e il libertario Falkvinge, corrisponde al binomio “elasticità+pragmatismo”. Il che non vuol dire cedere in tensione ideale. Semmai, cercare di tradurla non facendosi sconti e non aggirando, come avrebbe detto Machiavelli, la realtà effettuale delle cose. Henderson su questo punto è cristallina: «Tutto dipende dal contesto e dal momento. Ciò che è inutile in un contesto potrebbe essere molto utile in un altro. Non credo siano valide affermazioni generiche come “questa è una tattica controproducente”, senza entrare nel merito. Entrare in un ristorante dove si mangia carne, per protestare ad alta voce perché mangiarla è moralmente sbagliato, potrebbe rivelarsi poco utile in molti casi. È improbabile, infatti, che possa portare a un miglioramento delle condizioni degli animali, e potrebbe mettere i clienti nel ristorante contro la causa animalista, inducendoli a provare vergogna o rabbia. Ma ancora una volta, ripeto: tutto dipende dal contesto».

Per lo svedese Falkvinge, che nel suo libro dà una miniera di concrete indicazioni per fondare una forza politica da zero, non tralasciando i pericoli di narcisismo e arrivismo che possono dissolverla, la chiave sta in una consapevolezza non facile: tenere sempre a mente le opportunità, ma anche le limitazioni fisiche, psicologiche, addirittura biologiche dell’essere umano. In parole povere: Internet non basta. «La Rete ci ha messo il turbo, ma non sostituisce l’attività di persona. Come regola generale è lecito dire che si può lavorare efficacemente con qualcuno solo dopo averlo conosciuto personalmente. Ciò che Internet permette, e che prima non c’era, è che ora si può lavorare anche a distanza dopo questo passaggio».

L’attivismo non è vero attivismo, se solo da tastiera. Questo, i ragazzi che si oppongono al modello di sviluppo predatorio, sembrano averlo capito. Ma la questione è capire quanto l’essere umano, e perciò anche l’uomo della strada, magari tendente al negazionismo climatico o a non darsi pensiero delle vittime nella Striscia di Gaza, reagisce in base a dinamiche ancora e sempre primitive, o in ogni caso pre-digitali. Falkvinge è lapidario: «Rimaniamo gli animali sociali che eravamo prima di Internet. Capire il nostro comportamento sociale è fondamentale per realizzare un cambiamento, a prescindere dal fatto che si ricorra a nuovi, scintillanti strumenti e modalità d’azione. Mentre di nuovi modi e strumenti ce ne saranno sempre, il nostro corredo genetico non cambierà altrettanto velocemente. Solo coloro che sapranno avvantaggiarsi dei mezzi e modi più moderni ma rivolgendosi ancora all’uomo com’è nel profondo, cioè all’animale sociale, avranno la meglio in futuro».

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