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“Legata al letto e imbottita di morfina: così mia madre, malata di Covid, è morta in ospedale”

Immagine di copertina
Wanda in un'immagine del figlio Piero

MILANO – “Mia madre ha subito una tortura vera e propria. Era dolcissima, buona e generosa. Non avrebbe fatto mai male a nessuno. Me l’hanno fatta impazzire in cinque giorni in ospedale. Non dormo più. Piango tutti i giorni. L’hanno imbottita di morfina, ansiolitici, antipsicotici, antidepressivi, altri oppiacei fino a quando il suo cuore ha ceduto. Tutto questo solo perché non sopportava il casco. Me l’hanno immobilizzata anche alle braccia e alle gambe, come se fosse una criminale forzuta, invece pesava 58 kg ed era alta 160 cm. Non mi hanno mai detto niente. Niente. E soprattutto mai che stavano praticando l’eutanasia, perché questa è! Poi se vogliamo chiamarla cura palliativa, che accompagna il paziente alla morte, la sostanza non cambia. Capisce?!”. Questo è il grido di dolore disperato di Piero, 43 anni di Milano, ex consulente finanziario, che non riesce a darsi pace. Sua madre, Wanda, di 75 anni, di Ariano Arpino, aveva un leggero diabete che curava solo con la dieta, viveva con un rene solo, asportato per un cancro decenni prima. Conduceva, come racconta Piero, una vita serena e aveva sotto controllo la sua salute in maniera esemplare. Ogni tanto soffriva di attacchi di panico ed era in cura per questo. Era stata contagiata dal Coronavirus, ma la situazione era sotto controllo inizialmente.

Piero legge e rilegge gli ultimi attimi di vita della madre, nelle pagine fredde della cartella clinica. Le tiene strette a sé al petto, come per coccolare quel nome che c’è scritto in quei fogli, ma che non esiste più: la paziente, sua madre. Riapre quei fogli per l’ennesima volta, li sfoglia di nuovo. L’ennesima. Le lacrime gli scendono nel volto fino a bagnare alcune pagine. La diagnosi dello psichiatra è: “Delirium tremens con schizofrenia a tratti allucinatori”. La morte è avvenuta per arresto cardiaco: “Tracciato dell’elettrocardiogramma non rileva presenza di attività elettrica per 20 minuti. Si conferma exitus. Si avverte il figlio”.

“Senza forze e lasciata sola”

“Era una madre esemplare – dice Piero a TPI – non perché fosse la mia. Era di vecchio stampo. Faceva la casalinga. Ha aiutato tante persone in silenzio. Cucinava sempre in abbondanza, così portava il cibo ai vicini e a coloro che ne avevano bisogno. Mia madre è morta da sola, tra atroci sofferenze. Chissà quante volte avrà gridato il mio nome, per portarla via da lì. Non l’ho potuta salutare, darle un bacio. Nemmeno vestirla, pettinarla. L’hanno avvolta in un nailon con il pigiama addosso, con soluzione di varichina nel sacco”. Piero piange di nuovo. Poi racconta tutto: “Il 19 di marzo inizio ad avere febbre alta, astenia, ossa rotte. Non mi reggevo in piedi. Avevo senso di stordimento. Chiamo tutti i numeri verdi come da protocollo. Mi dicono di rimanere a casa perché era una banale influenza. Il 27 di marzo oltre la febbre a 39,5 ho affanno, tosse e fame d’aria. Chiamo il 112. Mi trasportano al pronto soccorso dell’ospedale San Paolo di Milano. Mi fanno tutti gli esami compreso il tampone con esito positivo al Coronavirus e polmonite bilaterale a vetro smerigliato. Vengo ricoverato nel reparto di Medicina II, per intenderci il reparto Covid pazienti non gravi. Mi fanno la profilassi terapeutica di antivirali fino al 31 di marzo. Poi vengo dimesso il 2 aprile, dopo gli esiti dei due tamponi negativi. Lei mi dirà: bene! Invece inizia il mio calvario. Ho il cuore sanguinante. Sto impazzendo di dolore”.

Piero continua, “volevo festeggiare con mia madre l’uscita dall’ospedale. L’avevo sentita al telefono dall’ospedale e lei mi ha sempre tranquillizzato che andava tutto bene. Mi precipito da lei il giorno stesso delle dimissioni dal San Paolo. La trovo a letto, con astenia. Non aveva febbre, ma aveva sensazione di ossa rotte. La glicemia era ok. Però mangiava poco. Questo maledetto virus purtroppo ti toglie ogni forza. Mamma si sveglia all’alba, apre il frigo ma le gambe non la reggono. Stava svenendo. Le vado incontro. Mi guardava ma non rispondeva, ovvero non riusciva a rispondere per l’affanno e la debolezza. Il 7 aprile si aggrava: non beve e non mangia. Chiamo il 112. Aveva saturazione a 88 e viene trasportata anche lei nel mio stesso ospedale, prima al pronto soccorso, poi nel reparto di Medicina II, dove ero stato guarito visto che anche lei era risultata positiva al Coronavirus con polmonite bilaterale, ma gli altri valori erano sotto controllo. Vado a trovarla il giorno dopo, con il permesso dei medici, con tutte le protezioni Dpi. La saluto. Era stordita, perché essere attorniata da medici che sembrano astronauti, compreso il figlio, non deve essere affatto piacevole né rassicurante. Ma era tranquilla, mi sorrideva e mi parlava. Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista viva, come era lei: bella, pura e solare”.

Quel maledetto casco Cpap

La Signora Wanda, rimarrà in quel reparto per cinque giorni. Piero mi fa vedere la cartella clinica. E’ scioccante per la quantità di morfina, ansiolitici, ipnotici antidepressivi, antipsicotici e antischizofrenici che vengono somministrati tutto il giorno. Alcuni sospesi e sostituiti con altri. La donna diventa apprensiva. Si agita. Non sopporta il casco, cosiddetto Cpap (maschera di ventilazione assistita molto invasiva). L’11 aprile le iniettano morfina insieme a terapia antipsicotica e ansiolitici per sedarla, al fine di migliorare l’adattamento del casco sospendendo gli antibiotici. Ma Wanda è ancora angosciata e intollerante visto che quel casco le comprime la testa e chiede di rimuoverlo, come viene riportato nella cartella clinica. Dato che cerca di toglierlo le somministrano altra morfina (2 fl), antipsicotico e antischizofrenico. Potenziano questi farmaci dal pomeriggio fino alla sera, come scritto dai medici. La mattina del 12 aprile li riducono, vista la “sensazione di confusione (che aveva la donna ndr), verosimile sovradosaggio questa notte, temporaneamente incrementata a 4 fl morfina”.

Le infondono così una dieta ipercalorica e proteica. Poi eseguono una videochiamata con Piero, che ricorda bene quel giorno e racconta: “Mia madre era stordita. Rallentata. Chiedevo spiegazioni, mi dicevano che la situazione era critica visto che non sopportava il casco e che l’avrebbero trasferita nel reparto di Pneumologia e malattie infettive“. Finita la videochiamata, la donna si agita e somministrano altra morfina e antipsicotici. “Giunta lì il 12 aprile sera le inseriscono la Niv (ventilazione non invasiva senza casco) – racconta Piero – è intollerabile per un giovane figurasi per una persona apprensiva! Mi sono sempre chiesto come mai in pochi giorni si trova dal reparto Medicina II in quello di pre-intensiva di Pneumologia: eppure i parametri della cartella clinica davano saturazione al 99 per cento per più giorni, glicemia normale, la pressione era un pochino alta, ma vista l’agitazione e che mal sopportava i presidi medici, casco e niv, era comprensibile quel dato. Ma non capisco tutte quelle somministrazioni infinite di morfine e sedativi senza l’ombra di una terapia anti Covid. Un altro genere di malato mi verrebbe da dire leggendo le pagine stilate da infermieri e medici”.

Chiamate senza risposta

Il figlio della signora fa un lungo sospiro e riprende a narrare questa storia scioccante: “Come era ovvio, mia madre cerca di rimuovere la niv e dice ai medici di stare bene. Aveva solo bisogno di essere tranquillizzata. Invece bombe e cocktail di farmaci che ti bruciano il cervello. Così i medici chiamano al telefono lo psichiatra di guardia più volte che sospende l’antipsicotico e somministra ansiolitici, ipnotici e morfina, poi mi fanno videochiamata con il tentativo riuscito di far calmare mia madre. M’informano che se dovesse rifiutare o tentare di nuovo di togliere la ventilazione le metteranno di nuovo il casco. Di notte cerca di strappare la niv, altra morfina, più tre farmaci neurologici e Cpap”. Piero ha chiamato il reparto per tre giorni di fila. Chiedeva di sentire la madre. Ma niente, “mi dicevano che sta dormendo e che era meglio lasciarla riposare. Un black-out da sulle condizioni reali di salute di mia madre per tre lunghissimi e interminabili giorni. Ero disperato”. La signora Wanda per due giorni tiene il casco ma è, come risulta dalla cartella clinica, “soporosa e bradipnoica”. Quindi sospendono la morfina e l’ipnotico. Il 15 aprile, il giorno prima di morire, la donna ha ancora il casco, nella notte si agita e come scritto dai medici “confabula, chiama persone a voce alta e viene di nuovo contenuta ai quattro arti”.

Quel giorno la immobilizzano alle braccia e gambe per tre volte, come risulta dal referto clinico. Secondo il personale sanitario, quel gridare nella notte era il sintomo di un “delirio acuto a tratti allucinatorio” della donna. Chissà chi chiamava la signora Wanda nelle ultime ore di vita? Forse i figli, il padre o la madre. Forse i nipotini. Nessuno lo saprà. Di certo era una richiesta di aiuto da parte di una persona fragile e sensibile, che non riusciva a sopportare il casco. Forse aveva bisogno di una voce rassicurante. Nient’altro. Viene legata al letto e le somministrano un ipnotico diverso dal precedente. Dopo due ore, è ancora agitata ma non può muoversi con braccia e gambe legate al letto. Le prescrivono altre gocce di ansiolitico, morfina e altri farmaci neurologici per endovena.

Le ultime ore

Il 16 aprile, Piero viene informato che sua mamma ha poche ore di vita. Wanda è terminale, ha 36 di temperatura, 110 battiti cardiaci al minuto e la pressione arteriosa è di 90/50. E’ straziante leggere questo dalla cartella clinica ma è realtà: le aumentano la velocità di infusione di morfina, del sedativo e viene trasferita in reparto a minore intensità di cure. Di fatto è un’unità di accoglienza di pazienti per poche ore. La donna arriva, come stilato dai medici, in stato comatoso. Le incrementano di nuovo il dosaggio della terapia palliativa assistita: 2 fl di midalozam (sedativo ad azione rapida), 4 fl buscopan e 8 fl di morfina. Il cuore di Wanda, cede dopo due ore circa.

“E’ entrata in ospedale con il Covid – si sfoga Piero – ed è uscita avvolta in un sacco di nailon con varichina. L’unica colpa che ha avuto mia mamma è che non sopportava il casco. Non tollerare i presidi medici molto invasivi, (che fanno urlare i giovani figurarsi lei che soffriva di ansia) è una giustificazione per attuare il protocollo di cure palliative? Mi comunicavano che stava dormendo e che sarebbe stato meglio lasciarla riposare visto che le avevano somministrato piccole dosi di morfina per farle accettare meglio il casco. Altro che piccole dosi di morfina: otto psicofarmaci potenti oltre alla morfina, alcuni sospesi di colpo e somministrati altri senza traccia di antivirali per il Coronavirus. Perché non mi hanno avvertito che avrebbero intrapreso questo protocollo di morte? A chi spetta la decisione della “eutanasia” a me o a loro? Perché la mia mamma è stata trattata come una paziente schizofrenica immobilizzandole addirittura braccia e gambe per tre volte? Hanno scritto che è era in preda a delirium tremens: qualcuno ha mai preso alti dosaggi di morfina, più cocktail di psicofarmaci per sei giorni, tre volte al giorno per endovena? Perché tutto questo? Era tanto buona e fragile. Sto impazzendo all’idea di quanto abbia sofferto. Forse ha gridato il mio nome quella notte, mentre per i medici era allucinata. Mi avrà supplicato di portarla via da lì”.

La replica della direzione sanitaria

Noi di TPI ci siamo rivolti a Matteo Stocco, direttore generale dell’Azienda socio sanitaria territoriale – Santi Paolo e Carlo di Milano, per avere spiegazioni: “Abbiamo assistito molti pazienti affetti da Covid, alcuni dei quali, con prognosi infausta e non più responsivi ai trattamenti specifici, hanno potuto beneficiare delle cure palliative – ci spiega – . Grazie agli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, propri di tali cure, si è riusciti ad alleviare loro le sofferenze della fase terminale della vita”. Gli abbiamo chiesto se i medici sono tenuti ad informare i familiari che ai loro cari verranno somministrati oppiacei in associazione ad altri farmaci e il dg Stocco ci ha risposto così: “Ovviamente i familiari, soprattutto in questa particolare condizione di “lontananza forzata” dal parente ricoverato, sono stati costantemente informati telefonicamente dal personale medico sulle condizioni cliniche del paziente e sulla necessità di somministrare, se necessario, trattamenti con oppiacei e sedativi a scopo palliativo e come da linee guida internazionali. Oltre al servizio di video chiamata, per permettere al paziente di dare l’ultimo saluto ai propri cari, abbiamo messo a disposizione dei familiari una linea telefonica di supporto psicologico”.

E alla domanda se esiste un protocollo che stabilisce i dosaggi per queste cure nei pazienti positivi al Covid-19, ha replicato che “i protocolli clinici utilizzati sono stati quelli comunemente utilizzati e raccomandati dalle Società scientifiche e dalle Linee guida nazionali ed internazionali”. Il 16 aprile alle 9:57, dal referto dei medici si legge: “paziente in condizioni cliniche terminali, non sofferente, in corso palliazione. Si avvisano i familiari dell’evoluzione del quadro clinico”. Di certo i nomi di tutti questi farmaci: “morfina, midazolam, delorazepam, stilnox, olanzapina, en, serenase, tiapride”, scritti in calce nella cartella clinica della signora Wanda, insieme al “contenimento ai quattro arti”, continueranno ad angosciare la mente di Piero.

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