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Esclusivo TPI – “Indice di contagio a 3.17”: ecco la mail che avvertì Regione Lombardia del disastro Covid. Ma fu ignorata

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Il 28 febbraio 2020 una mail della Fondazione Kessler avvertì la Regione Lombardia che la situazione epidemiologica in provincia di Bergamo era esplosiva. Ma né Fontana né il Governo né i sindaci imposero il lockdown. E oggi i loro tentativi di discolparsi sono smentiti dai documenti

Il primo paziente italiano positivo al Sars-Cov2 viene diagnosticato in Lombardia la sera del 20 febbraio 2020. Due giorni dopo, con un’ordinanza congiunta del Ministero della Salute e di Regione Lombardia (convertita all’indomani in decreto legge), vengono cinturati con l’esercito in una zona rossa dieci Comuni del lodigiano. Nessuno entra, nessuno esce. Il decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020, che istituisce questa ampia zona rossa in Lombardia, prevede l’adozione di queste stesse misure di distanziamento «nei Comuni o nelle aree nei quali risulti positiva almeno una persona», specificando che anche i «presidenti delle Regioni competenti» possano adottarle, «nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola Regione o alcune specifiche Regioni». Non solo: il decreto legge rimanda ad altre norme che già autorizzano anche i sindaci «nei casi di estrema necessità e urgenza» ad adottare le medesime misure, «nelle more dell’adozione dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri», vale a dire tra un decreto e l’altro. Tra queste norme vengono citati, tra gli altri, l’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 e l’articolo 50 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo n. 267 il 18 agosto 2000. Quindi, il decreto n.6 del 23 febbraio 2020 prevede che Regioni e Comuni possano «in caso di emergenza» e «nelle more dell’adozione dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri» adottare misure di contenimento. Ricordiamo questo passaggio normativo perché nel racconto frenetico di quei giorni arriva all’opinione pubblica un messaggio molto confuso sulle competenze dei presidenti di Regione e dei sindaci, che in verità hanno la piena autorità di chiedere una zona rossa. Tuttavia, questo non accade, né nel Comune di Alzano Lombardo, né in quello di Nembro, dove vengono trovati i primi casi Covid della bergamasca, a partire dal 23 febbraio.

Qui non si chiude

La situazione è tesa, ma non tesissima. Il 25 febbraio 2020, il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, interviene parlando del virus: «Quello che cerchiamo di fare tutti è sdrammatizzare, stiamo cercando tutti di far capire che questa è una situazione sicuramente difficile, ma non così tanto pericolosa». L’allora assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, rispetto all’area intorno ad Alzano il 27 febbraio precisa a mezzo stampa: «È una di quelle aree che stiamo guardando con attenzione, ma al momento è esclusa una zona rossa». Quello stesso giorno, il direttore generale di Ats Bergamo, Massimo Giupponi, scrive a tutti i sindaci della Val Seriana che la zona rossa non si sarebbe istituita.

I sindaci vengono tranquillizzati e con loro anche gli imprenditori. In particolare, il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi (Lega), dichiara a mezzo stampa all’inizio di marzo che «creare una zona rossa sarebbe un enorme dramma per il nostro tessuto economico» e che «non è assolutamente in discussione una zona rossa e dobbiamo continuare a svolgere la nostra vita normalmente». Successivamente Bertocchi rilascia altre interviste, anche alla sottoscritta, in cui fa intendere di avere sollecitato una zona rossa e in particolare afferma: «Abbiamo cercato risposte, ma non le abbiamo avute. Né dal Governo, né dalla Prefettura, non abbiamo capito perché si sia aspettato tutto quel tempo». In realtà, non solo il sindaco leghista di Alzano Lombardo non ha mai formalizzato un’istanza di zona rossa per il proprio Comune, in cui risiedeva l’ospedale focolaio Pesenti Fenaroli, ma – come accertato dal gruppo consigliare di opposizione della lista civica Alzano Viva dopo una lunga e faticosa richiesta di accesso agli atti – risulta che dal 20 febbraio al 20 marzo 2020 «nessun documento, richiesta e appello rivolto a Prefetto, Regione Lombardia e Governo è depositato agli atti comunali». Il sindaco Bertocchi, in qualità di autorità sanitaria, poteva accedere a informazioni cruciali per veicolarle a tutti i livelli, in relazione alla salvaguardia della salute dei cittadini. Il fatto che in quei giorni – intorno al 23 febbraio – non vi sia traccia (sotto nessuna forma scritta) di comunicazioni in entrata e in uscita tra sindaco e ospedale è quantomeno strano.

«Che nessuno avvertisse la necessità di fissare per trasparenza, e con valore istituzionale, eventi così importanti per la vita della comunità è già fonte di primo sconcerto», ci racconta Simonetta Fiaccadori, all’epoca consigliera comunale di minoranza del gruppo Alzano Viva. Bertocchi non ha pensato di chiedere alcunché tramite protocollo. Anche solo per rendere conto in modo puntuale ai cittadini dei fatti e delle proprie posizioni in merito. «Ancora più allarmante è stata per noi la contraddizione tra le dichiarazioni giornalistiche del sindaco Bertocchi, da cui in un primo periodo si evinceva che temesse la zona rossa come un danno, mentre successivamente cominciava a dare a intendere di averla invece sollecitata», dice Fiaccadori. «Questa contraddizione è quella che ci ha spinti a richiedere le comunicazioni e i documenti in entrata e in uscita tra il sindaco di Alzano, Regione Lombardia, Prefettura e Governo». L’ex consigliera comunale si domanda: «Il sindaco aveva fatto tutto quanto nelle sue possibilità per salvare le vite dei cittadini, non solo di Alzano? Se mai fosse stata di qualche utilità la zona rossa, come si era posto realmente Bertocchi nei momenti cruciali?». Il sindaco di Alzano, invece, sulla richiesta di zona rossa non mette nulla per iscritto.

Il fatto è che la Val Seriana non è come Codogno. La Val Seriana pullula di fabbriche. In quest’area, in cui vivono circa 130mila persone, ci sono 2.446 fabbriche e 6mila attività di servizi, con un fatturato annuo pari a 5 miliardi di euro (fonte: Fondazione Claudio Sabattini). Chiuderla sarebbe un colpo mortale per il Pil della Lombardia.

Poteri del territorio

La palla, dunque, passa alla Regione, che secondo quanto stabilito dall’articolo 32 della legge n. 833 del 1978 (la famosa legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, di cui l’ex assessore Gallera scopre i contenuti in diretta tv il 7 aprile 2020) prevede che anche il presidente della Regione (oltre ai sindaci) abbia l’autorità di emettere, in materia di sanità e igiene, «ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale». Tradotto: la Regione aveva l’autorità per chiedere una zona rossa.

Agli atti, però, non vi è nessuna richiesta formale da parte della Giunta Fontana, se non una email del 23 febbraio 2020, con oggetto «Disposizioni per la Regione Lombardia», che l’allora direttore generale al Welfare Luigi Cajazzo (tra gli indagati dalla Procura di Bergamo con l’ipotesi di reato di epidemia colposa) invia al capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e al ministero «a commento del decreto-legge nel quale si parlava del termine “‘nelle more”: una richiesta per consentire a Regione Lombardia di procedere alla determinazione di zone rosse e gialle in base all’andamento epidemiologico», dichiara Fontana in Commissione d’inchiesta, aggiungendo «Come sapete il decreto-legge prevede che misure dei presidenti di Regione possono essere emanate soltanto nelle more (ovvero nell’intervallo di tempo tra l’avvio di un iter burocratico-giuridico e la sua conclusione, ndr) dei Dpcm. In quei giorni more non ce ne furono, perché praticamente i Dpcm venivano emanati quotidianamente», conclude il presidente lombardo. Ecco perché Regione Lombardia – afferma Fontana – chiede che venga «modificato in questo senso il provvedimento legislativo, per darci questa possibilità. Ciò non avvenne, nessuna decisione in questo senso venne mai assunta». Borrelli non risponderà mai a quell’email di Cajazzo del 23 febbraio, che di fatto è una richiesta di chiarimenti su quali siano i poteri delle Regioni in questa circostanza e «nelle more» dei Dpcm (poteri, tuttavia, già definiti chiaramente dalla legge 833 del 1978).

Ricordiamo, a questo punto, gli intervalli temporali tra un Dpcm e l’altro in quella fase. Dopo quello del 23 febbraio 2020 ne viene emanato un altro il 25 febbraio e poi passano cinque giorni prima che il Governo emani un nuovo Dpcm il primo di marzo: la Regione dunque avrebbe avuto la possibilità di intervenire in quel lasso temporale e questa email del 23 febbraio non è in alcun modo una richiesta di zona rossa, come vorrebbe far intendere la Giunta Fontana.

«Dal punto di vista burocratico formale, rileggendo le carte e le leggi, c’era la possibilità che gli enti locali facessero di più. Il potere della 833 non è mai stato tolto». Per Alfonso Celotto, professore ordinario di Diritto costituzionale dell’Università Roma Tre, esperto di burocrazia e istituzioni, lo spazio per agire a livello locale c’era. Dello stesso parere anche Francesco Pallante, costituzionalista dell’Università di Torino: «Regioni e Comuni avevano il potere di chiedere una zona rossa», dice. «Era previsto espressamente dalla normativa, dal decreto legge n.6 del 23 febbraio 2020, che rinvia all’articolo 32 della legge 833 del 1978. Ad essere precisi le inadempienze qui sono due: dello Stato e della Regione, entrambi potevano agire».

Il caso Codogno

Sul punto, sempre in Commissione d’inchiesta, Fontana aggiunge: «Sui motivi per cui non sia stato prodotto un documento ufficiale che certificasse la richiesta di Regione al Governo, si risponde che non esiste nemmeno un documento formale con la richiesta di chiudere Codogno e i primi Comuni in cui si estese il contagio». Ma se non esiste nessuna richiesta formale è perché il sindaco di Codogno, Francesco Passerini, leghista come il presidente della Lombardia, il giorno dopo la prima diagnosi Covid in Italia, ovvero il 21 febbraio 2020, firma l’ordinanza con cui chiude il Comune, scuole comprese, senza chiedere il permesso a nessuno. L’abbiamo intervistato in esclusiva e le sue dichiarazioni sono, alla luce delle novità emerse in questi mesi, di grande interesse pubblico, nonostante sia noto (ma non tutti se lo ricordano) che il primo a istituire una zona rossa in Italia fu proprio un sindaco. Ecco perché val la pena rinfrescarci un po’ la memoria.

«Ho esercitato il potere che la legge mi dava in modo autonomo come sindaco, senza chiedere niente a nessuno», afferma Passerini. «Ci siamo assunti le nostre responsabilità, nessun sindaco vorrebbe mai firmare un’ordinanza di questo tipo, ma vedevamo un pericolo per la nostra comunità». A dire il vero, il 21 febbraio 2020 Passerini ne firma due di ordinanze: una che chiude i locali pubblici e gli esercizi commerciali e un’altra che chiude le scuole. Per entrambe il richiamo normativo è quello degli articoli 50 e 54 del decreto legislativo n. 267 del 18 agosto 2000, sull’ordinamento degli enti locali. «Ho disposto che l’ordinanza venisse notificata alla polizia locale del Comune di Codogno, affinché la notificassero a tutti i soggetti destinatari», sottolinea il sindaco, che poi aggiunge: «Ho fatto grande affidamento sul senso di responsabilità dei miei cittadini, nessuno ha mai impugnato questa ordinanza», che è stata applicata, almeno fino al 23 febbraio, ovvero fino a quando non è arrivata quella congiunta Speranza-Fontana, convertita poi nel primo Dpcm che inviava l’esercito.

«Non sono mai stati esautorati i sindaci?», gli domando. «No – risponde Passerini – ci fu un intervento di Anci insieme al Governo, ma fu successivo, una decina di giorni dopo, a marzo, quando venne sospeso il potere di ordinanza dei sindaci, perché l’emergenza era già su scala nazionale. Il 21 febbraio mi sentii anche con il sindaco di Castiglione d’Adda e di Casalpusterlengo, inviai loro il testo della mia ordinanza, ma non emanarono nulla, perché poi fu evidente che i Comuni da chiudere erano troppi e doveva per forza intervenire una autorità superiore», come ad esempio Regione Lombardia.

Allarme sottovalutato

È il territorio, dunque, a indicare la via maestra da intraprendere. Il sindaco di Codogno conosce la legge e la applica. Perché, allora, i sindaci della Val Seriana non lo fanno? Una grande responsabilità ce l’ha Regione Lombardia, i cui dirigenti inizialmente diffondono notizie rassicuranti alla popolazione, ma un ruolo importante ce l’ha anche Ats Bergamo, che come abbiamo già riferito tranquillizza i sindaci dei Comuni bergamaschi interessati dal contagio e soprattutto li istruisce affinché non prendano iniziative personali. E sulla base di quali dati viene intrapresa questa sciagurata strategia comunicativa?

Il 28 febbraio 2020 il matematico della Fondazione Bruno Kessler di Trento, Stefano Merler, invia a Regione Lombardia dei grafici con la situazione epidemiologica regionale e nell’area della bergamasca. I dati, come specifica Merler, tengono conto solo dei sintomatici e sono «ancora molto sottostimati». Il 28 febbraio l’R0 in Lombardia è superiore a 2, nella bergamasca è intorno a una media dell’1.80, con un intervallo di valori che va da 0.80 fino a 3.17. Tre punto diciassette: ovvero un potenziale R0 catastrofico, che avrebbe dovuto far saltare sulla sedia qualunque politico con a cuore la tutela della sanità pubblica. Ma questo non accade. Ricordiamo che l’RT (il tasso di contagiosità del Sars-CoV2 dopo l’applicazione delle misure anti-Covid) nel corso del mese di marzo 2020 supererà ampiamente le previsioni e toccherà «quota 4.5 a Bergamo, un valore decisamente più alto di quello medio regionale, pari a 1.7, e di quello nazionale, pari a 1.01», come dichiara in Commissione regionale d’inchiesta Massimo Giupponi, direttore generale di Ats Bergamo.

Eppure il 28 febbraio 2020, Regione Lombardia – alla luce dei dati trasmessi dal matematico Merler – continua a non chiedere ufficialmente una zona rossa (a questo punto necessaria per tutta la Lombardia) e si fa andar bene le stesse misure di contenimento modeste e inefficaci in vigore dal 23 febbraio. Lo ammette lo stesso Gallera nel suo libro, in cui non solo non cita mai i grafici di Merler del 28 febbraio, ma afferma: «Da oggi (28 febbraio 2020, ndr) cominciamo a discutere con il Governo per far prolungare il provvedimento varato il 23 (febbraio, ndr), che sarebbe scaduto il primo marzo». Un provvedimento, alla prova dei fatti, inefficace visto l’aumento esponenziale del contagio. Il primo marzo il Governo invia le bozze del nuovo decreto. «Noi di Regione cerchiamo di inasprirle», scrive Gallera nel suo libro. «Le rinviamo con i nostri suggerimenti e poi vediamo che il provvedimento viene approvato senza prendere in considerazione le nostre indicazioni».

Dove sono queste email? Che cosa ha chiesto davvero la Giunta Fontana al governo a partire dal 28 febbraio 2020? Perché, alla luce delle stime elaborate da Merler, la Regione chiede di mantenere le misure di contenimento blande del 23 febbraio? La Lombardia verrà chiusa l’8 marzo in una zona arancione, grazie a un decreto congiunto tra Governo e Regione. Tuttavia, il contenuto di quel Dpcm (annunciato da Conte alle 3.30 del mattino) viene definito da Gallera nel suo libro «assolutamente deludente», anzi, una vera e propria «illusione ottica». Infatti, le fabbriche continueranno a produrre, almeno fino al 22 marzo quando – con il Dpcm “Chiudi Italia” – verranno bloccate le attività non essenziali, molte delle quali tuttavia continueranno ad operare grazie alle deroghe prefettizie, che con il meccanismo del silenzio-assenso (sollecitato da Confindustria) non si fermeranno mai.

In Lombardia, di fatto, la Fase 1 non è mai esistita. Dopo la creazione della zona arancione a livello regionale e poi con il lockdown nazionale del 9 marzo (che ha chiuso solo gli esercizi commerciali) a Bergamo ci sono 84mila aziende aperte, per un totale di 385mila lavoratori autorizzati a muoversi. Il 18 marzo sfilano i carri militari a Bergamo con i corpi delle vittime Covid che il forno crematorio cittadino non può più smaltire e che devono essere trasferiti fuori regione. Dopo il Dpcm “Chiudi Italia” del 22 marzo, che crea di fatto una zona rossa in tutto il Paese, mentre gli italiani sono obbligati a rimanere chiusi in casa, in Val Seriana – ovvero nell’area più colpita dall’epidemia – su circa 100mila abitanti ben 13.495 persone possono continuare a circolare per ragioni lavorative (dati Istat e Fondazione Claudio Sabattini). Una vera e propria bomba epidemiologica, che poteva essere disinnescata istituendo tempestivamente una zona rossa proprio in provincia di Bergamo. Riecheggiano a questo punto le parole pronunciate dal capo degli industriali lombardi, Marco Bonometti, in un’intervista esclusiva rilasciata alla sottoscritta il 7 aprile 2020 e pubblicata sul sito di TPI: «In Lombardia non si potevano fare zone rosse, non si poteva fermare la produzione». Già, in Lombardia si poteva solo crepare.
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L’INCHIESTA DI TPI SULLA MANCATA CHIUSURA DELLA VAL SERIANA PER PUNTI:

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