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L’inganno dei tamponi: 5 milioni di euro al giorno per 200mila test, c’è a chi conviene tutto questo. Intervista a Crisanti

Immagine di copertina

Il virologo del modello Veneto: "A Padova in primavera abbiamo usato una super macchina in grado di processare 400 provette in 15 minuti: ha funzionato e fatto risparmiare soldi. In estate ho proposto al governo di usare 20 di queste macchine per gestire i test in tutta Italia, ma il mio piano è stato ignorato. Perché? Oggi i tamponi ci costano da 3 ai 5 milioni di euro al giorno, ormai dietro c'è un sistema produttivo"

“C’è una cosa che mi preme dire in questa fase”.
Prego.
“Non c’è dubbio alcuno che la curva dei contagi sia fuori controllo, e che il sistema del tracciamento sia ormai saltato”.
Infatti.
“Ma proprio questo è il momento per ricostituirlo, fatto e studiato per bene, una volta per tutte”.
Perché, fino ad oggi questo non è accaduto?
“Assolutamente no, purtroppo – come si vede – ne stiamo pagando le conseguenze”.

Avremmo potuto frenarli il contagi, con un tracciamento adeguato, dopo l’estate?
“Frenarli del tutto fino ad azzerarli, no. Ma rallentarli, fino a tenermi sotto controllo, sicuramente. Ed è quello che dobbiamo predisporre, in tempo per la prossima ondata”.
Ma quindi lei pensa già che ci sarà una terza ondata?
(Pausa, Sospiro). “Una terza, una quarta… Io rimango stupito del fatto che qualcuno non lo abbia ancora capito”.
Cosa?
“Che ci saranno nuove “ondate” del Covid fino a quando non arriverà il vaccino. E purtroppo anche oltre”.

In che termini?
“Ogni quarantena e ogni lockdown – a seconda della loro durata – rallentano i contagi. Ma subito dopo, quando si riapre, il virus riprende a circolare e la curva di crescita risale”.
Fino a quando? Perché lei dice “anche oltre il vaccino”?
“Fino a quando non sarà compiuta l’opera di vaccinazione di massa, che sarà necessariamente lenta e capillare. Ci vorranno alcuni mesi per compierla. Vivremo anche una fase di transizione in cui alcuni saranno vaccinati e altri no, con i contagi che continuano”.

Andrea Crisanti, il padre del “modello Veneto” aveva proposto al governo un piano nazionale per abbattere il costo dei tamponi e per aumentare l’efficienza del sistema di screening. Questo progetto, come vedremo, è stato snobbato e accantonato. Ma potrebbe tornare utile a breve. La storia di questo processo, applicato con successo in Veneto, è figlia di una bellissima intuizione.

Professor Crisanti, lei ha avuto una intuizione su come impiegare una macchina a ultrasuoni nello screening.
“È stato veramente frutto del caso e dell’emergenza”.
Raccontiamolo.
“L’antefatto è questo: due anni prima, quando avevo lavorato all’Imperial College (a Londra, ndr), l’avevo vista, ed ero rimasto incantato”.
Vista cosa?
“La Beckmann”.
La macchina che vi avrebbe salvato durante l’emergenza?
“Proprio lei. Tecnicamente si chiama Eco 5 2 5”.
Ed è – tecnicamente – un processatore?
“Sì, esatto. Chiamiamolo più correttamente un dispensatore di reagenti”.

Come funzionava e a cosa serviva?
“Il principio di questa macchina è che riesce a muovere dei liquidi con l’ausilio degli ultrasuoni”.
Meraviglioso.
“Uno spettacolo solo vederla al lavoro, glielo assicuro. Io rimanevo incantato a guardarla lavorare. E con il senno del poi non è stato tempo perso”.
Lo spieghi.
“Dato che la Beckmann utilizza gli ultrasuoni per trasferire tutto quello che deve processare ha una caratteristica che durante la nostra emergenza si è rivelata preziosa: è velocissima”.
Del tipo?
“In 15 minuti può distribuire reagenti, in diverse combinazioni predefinite, su 400 diverse provette. Immagini!”.

E per cosa si usava la macchina quando lei l’ha vista?
“Ad esempio per sperimentare dei farmaci”.
In che modo?
“La adoperavano per testare diversi composti di librerie chimiche”.
Sempre grazie alla sua velocità?
“Certo. Per dare un’idea: tu programmavi la Beckmann con le sequenze di ingredienti che avevi bisogno di miscelare, e lei – in autonomia – era in grado di predisporre anche un milione di diversi composti. Un milione!”.

Questo è quello che lei vede all’Imperial College. Poi c’è uno stacco di due anni e passiamo ai primi giorni dell’emergenza Covid, dove troviamo un uomo disperato in un laboratorio.
“Quello ero io”.
Cosa stava accadendo?
“Dopo i primi giorni di epidemia eravamo in pieno dramma. Già allora non riuscivamo a reggere il ritmo dei tamponi, le macchine si sfasciavano”.

E lei, con la sua esperienza di epidemiologo, sapeva un’altra cosa che aveva imparato sul campo, in Africa, quando stava studiando le epidemie malariche.
“Presto i reagenti, che con quelle macchine erano “chiusi”, avrebbero iniziato a scarseggiare”.
Cosa che poi puntualmente è accaduta.
“A questo punto mi torna in mente… Lei”.
La Beckmann?
“Esatto”.
Ma in Inghilterra non era usata per processare i tamponi.
“No. Ma ha presente quando ti arriva una certezza dal profondo? Ho avuto una sensazione di questo tipo. ‘Questa è la soluzione ai nostri problemi’, mi sono detto”.

Il processatore da solo non sarebbe bastato, però.
“No, ma ho avuto, insieme alla certezza, la visione di una filiera: se avessimo sommato alla Beckmann, collegandole, una macchina che faceva l’estrazione dei test, e un’altra che faceva l’amplificazione dei campioni, potevamo costruire un ciclo parallelo, in grado di sostituire in tutto le macchina diagnostiche tradizionali che si stavano rivelando così inadeguate”.
E così ne ha parlato con Zaia.
“Esatto. Ho detto: ‘Questa è la macchina giusta per noi. La soluzione è questa’.

Zaia ovviamente le ha chiesto quanto costasse il processatore.
“Certo, E io gli ho risposto: ‘350 mila euro’.
Si è preoccupato?
“Non ha battuto ciglio e mi ha risposto: ‘Si può fare’.
Le ha chiesto se avrebbe funzionato?
“Gli ho detto che non l’avevo mai provato. Lui non si è scomposto: ‘Bene, mi organizzo per prenderla’”.

E lei era certo che avrebbe funzionato, visto che non era mai stata usata così?
(Ride). “A dirla tutta? No. Non potevo avere nessuna certezza. Ma ero abbastanza sicuro. Mi sono preso un rischio enorme”.
Davvero?
“Se ci penso non riesco a capacitarmene: la forza della disperazione”.

E non avete usato soldi pubblici, della Regione o dell’Università?
“Zero. Zaia ha raccolto donazione private su questo progetto. Sia per l’acquisto delle macchine sia per organizzare il trasporto”.
E chi lo ha fatto materialmente?
“Un gruppo di imprenditori veneti contattati direttamente da lui. È stata una impresa”.
Una sottoscrizione?
“Esatto. Immagino che così non ci fosse la spada di Damocle del possibile danno erariale”.

E come avete assemblato le macchine?
“Guardi, è stato un film”.
Cioè?
“Un tecnico da Amsterdam, da remoto, collegato via Skype, ci ha guidato nell’istallazione”.
Non deve essere come montare una scatola di Lego.
(Ride). “Direi proprio di no. Ma lui era bravissimo, noi ce la siamo cavata, e abbiamo messo in piedi tutto”.

La macchina funzionava con il personale dell’università?
“Esatto”.
E in questo modo il Veneto è diventato autosufficiente e non ha avuto tutti i problemi delle altre regioni nell’approvvigionamento dei tamponi.
“Aggiunga una cosa, che abbiamo detto prima: fatta la spesa iniziale, il costo di ogni test diventava di 2 euro e mezzo invece che 30 euro”.
Perché non era più obbligatorio usare i reagenti legati al sistema “chiuso” delle macchine tradizionali.
“Esatto”.
Quella che Zaia chiamava prosaicamente “la broda”.
Reagenti ‘fatti in casa’ all’università. Senza più il problema dei componenti vincolati”.

Ad agosto di quest’anno si diffonde la voce che il governo le chiede un progetto per replicare questa esperienza su di un piano nazionale.
“Me lo chiese proprio lei in diretta su La7”.
Ma lei in quella fase è molto prudente, si rifiuta di commentare e non ne parla in pubblico. Perché?
“Non interessava fare pubbliche relazioni, ma predisporre una bozza, ed essere sicuro di tre cose: i costi, i tempi, e che stesse in piedi”.
Ed infatti fa esattamente questo, e presenta il documento.
“Esatto”.

Più o meno come avrebbe funzionato?
“Per sommi capi? Replicava il modello che avevamo predisposto a Padova, ovviamente portandolo a regime per la capacità di tamponi a cui siamo arrivati alla fine: il massimo possibile”.
Quindi si era andato ben oltre i 350mila euro della prima macchina.
“Molto”.
E quanto costava tutto?
“Calcolando tutti gli annessi e i connessi, le macchine di supporto, i costi di installazione, e costruendo un modello per cui ogni struttura è autonoma, e quello che serviva per farla funzionare, cubava in totale 1,5 milioni di euro”.

Lei nelle interviste dell’estate spiegava che servivano 400mila tamponi al giorno. Non sono troppi?
“Allora sembrava così, ma si è visto. Molti mi guardavano, e mi guardano come un matto, ma in un paese di 60 milioni di abitanti, se si vuole poter tracciare una epidemia in modo corretto, e se si vogliono evitare orrori come le file ai drive in serve quella capacità di screening”.
E per fare questo a quante macchine pensava?
“Io ho immaginato che ce ne volessero venti: il piano era costruito su questo numero”.

Stiamo parlando di un investimento da 70 milioni di euro.
“Capisco che possono sembrare tanti, se non si ha una idea del contesto”.
Lo illustri.
“Se si calcola che siamo già arrivati a 150mila 200mila tamponi, con il procedimento tradizionale, lei capisce che si spendono già fra i 3 e i 5 milioni di euro al giorno”.
Quindi l’investimento per quelle macchine si ammortizzava in pochissimo tempo?
“Secondo i mei calcoli in una settimana. Da quel momento in poi, si sarebbero spesi 2 euro e mezzo a test”.
Questo sistema, però, a Padova funzionava grazie all’università.
“E perché? Non ci sono venti università in Italia che possono fornire personale e spazi? Le assicuro che sarebbe anche un tirocinio prezioso”.

Però questo sistema tagliava fuori i laboratori diagnostici a pagamento.
“No comment. Dico solo che io sono convinto che in una emergenza di questo tipo la garanzia della diagnostica deve essere data dal sistema pubblico”.
Nel suo documento lei non si limitava a fare questi calcoli sui costi di struttura del progetto?
“Assolutamente no. Questa estate mi ero fatto due conti su di un foglio Excel e avevo ipotizzato una cifra di possibili contagiati”.
Come?
“Valutando che la velocità del contagio nelle stagioni intense del virus Covid sarebbe stata molto più forte che in primavera, calcolando la progressione massima che avevamo registrato in Veneto, e soprattutto valutando l’enorme impatto di mobilità prodotto dalla scuola e dalla ripresa delle attività produttive”.

E cosa usciva fuori?
“Avevo messo in fila le cifre, e mi ero ritrovato davanti un numero enorme di possibili contagi giornalieri. Ecco come avevo stimato in 400mila il nostro fabbisogno di tamponi per combattere la campagna di inverno senza essere sopraffatti”.

Detto brutalmente: è stata colpa della scuola?
“Le rispondo così. La mobilità scolastica ha sicuramente contribuito, come tutto”.
Però?
“Era un rischio calcolato, e secondo me necessario. Ma vedo invece che molti hanno del tutto dimenticato un evento importantissimo dal punto di vista del potenziale contagio su cui io avevo lanciato un allarme, anche pubblicamente”.
Quale?
“Le elezioni regionali. Immagini cosa abbia significato, in quella fase dell’epidemia mobilitare 10 milioni di persone!!!”.
Ha pesato.
“Ma sicuramente: senza contare che nelle scuole i distanziamenti hanno funzionato, mentre nei seggi – proprio per la natura delle procedure di voto – ho qualche dubbio. Ma tutto questo lo avevo detto anche in una puntata di In Onda“.

Cosa sarebbe servito?
“La prima cosa da fare era tamponare preventivamente, se avessimo avuto la forza per farlo, tutti gli scrutatori e tutti i presidenti dei seggi”.
Cos’altro c’era nel documento?
“Avevo suggerito una serie di misure per evitare dei problemi che invece, puntualmente, si sarebbero verificati”.
Cioè?
“Dicevo che saremmo arrivati a settembre con un salto al contagio esponenziale”.

Lei presenta questo piano e poi che succede?
(Pausa). “Nulla”.
Cosa le dicono?
(Sorriso). “Nulla”.
Ed è rimasto amareggiato?
“Un po’. Non per me, mi creda. Ma quando ho visto quelle migliaia di persone in fila per i tamponi in tutta Italia”.

Un membro del Comitato tecnico scientifico mi ha detto in anonimato: “Il piano Crisanti? Ne abbiamo parlato. Ma erano solo due paginette”.
“Meglio che non me le dica queste cose. Meglio non saperle”.
Perché?
“Perché io ho lavorato in Gran Bretagna, dove nel mondo scientifico se sei ridondante vieni considerato uno che fa perdere tempo. Come le ho raccontato, in quel testo c’era tutto quel che serviva: dati, numeri, costi, previsioni”.

Quindi nessun rimpianto, magari oggi allungherebbe il brodo?
(Allarga le braccia). Cosa dovevo scrivere un trattato? Dai…”.
Non è la vera motivazione?
“No, è ridicolo. Temo invece che contino anche argomentazioni più… prosaiche”.
Del tipo?
“Una macchina che muove 3 milioni di euro al giorno ormai ha dietro un sistema produttivo”.
Ho capito. Diventa un affare, un appalto ghiotto.
“Per me questo progetto era importante perché faceva risparmiare costi al sistema sanitario”.

Un’altra critica che ho raccolto è questa: un investimento così grande, fatto d’un progetto di tre pagine, aveva garanzia di successo?
“Ah ah ah”.
Questo la diverte?
“Si sono dimenticati che dietro quelle tre pagine c’erano 700mila tamponi”.
Quelli che avete già processato fino ad oggi in Veneto?
“Certamente. E se avevano dei dubbi potevano chiamare Del Vecchio.
L’amministratore delegato di Luxottica?
“La Fondazione del Vecchio ha fatto una donazione all’Università di Padova per un progetto sulla sorveglianza nelle aziende che prevede, tra le altre attività, anche l’esecuzione di tamponi”.
Lo avete utilizzato nell’emergenza?
“Certo. Ha permesso all’università di dotarsi di una capacità pari a quella del laboratorio dell’ospedale di Padova. Tutto pro bono, con grande generosità”.

Bellissimo. Torniamo ad oggi.
“Come le dicevo il tracciamento è saltato: e dunque è di nuovo il momento giusto per investire, proprio per non farsi trovare una seconda volta impreparati”.
Cosa cambierà?
“Che oggi, se non ragioniamo solo con gli occhi dell’emergenza, possiamo fare, meglio, quello che non abbiamo fatto prima”.
Il “piano Crisanti” può tornare utile?
“Solo con tracciamento e tamponi possiamo abbattere il numero dei casi”.

Si potrebbe dire: in tutti i paesi la seconda ondata dell’epidemia è esplosa.
“Ma non ovunque nelle stesse proporzioni: la Germania ad esempio è stata più lungimirante e più accorta di noi”.
In che senso?
“La Germania oggi registra più o meno 17mila casi al giorno ma – attenzione – ci sono 90 milioni di abitanti”.

Ma lei lo farebbe un nuovo lockdown?
“Io lo farei il lockdown, ma breve e circoscritto, per due motivi”.
Quali?
“In primo luogo perché ora rischiamo di vedere travolto il sistema sanitario, e questo non deve accadere”.
E poi?
“Perché, se abbassiamo la curva dei contagi, poi possiamo gestire l’epidemia con più intelligenza e meno sacrifici al buio”.

Avrebbe chiuso anche cinema e teatri?
“Le racconto una cosa. Io sono stato pochi giorni fa da un mio amico che è il sovrintendente del Verdi”.
In teatro?
“Esatto. Il distanziamento era perfetto: eravamo in cento, tutti con la mascherine, in una sala potenzialmente da mille posti. Si figuri”.
E come valuta quello scenario?
“Secondo me il rischio era zero”.
Le potrei obiettare che voi epidemiologi ragionate in termini probabilistici.
“Proprio di questo parlo: zero contatti, zero file, distanziamenti oltre ogni margine. E lei pensa che lì avvenga un contagio e in una bella fila supermercato o all’ufficio postale no? Bisogna avere senso realistico”.

Parliamo delle scuole.
“Già questa estate io parlavo dei Bioscanner agli ingressi, e definivo folle questo suggerimento del termometro a casa. Dieci milioni di termometri, dieci milioni di diverse temperature”.
E ora che farebbe?
“Bioscanner. E tampone rapido nelle classi”.
Però lei stesso dice che c’è margine di errore”.
“Oh sì, ed anche ampio. Ma bisogna capire l’uso, che si fa di questi dati”.

E lei cosa si aspetta dal tampone rapido?
“Vedi se c’è trasmissione e che volume ha”.
Quindi avrebbe funzionato come termometro dell’epidemia?
“Con il molecolare individui i casi singoli: con il test rapido capisci la dinamica collettiva di un contagio”.
Oggi sarebbe utile.
“Ma certo: oggi potremmo sapere se le scuole erano davvero un problema, se i contagi nei trasferimenti si traferivano sui ragazzi oppure no, e in che misura. Senza pesare sul sistema dei tamponi”.

Quindi lei sta dicendo: un mix di tamponi, test e tracciamento sarà di nuovo indispensabile.
“Esatto. Più cose conosciamo meglio combattiamo il virus. Ed è altrettanto certo il modo in cui il virus vince”.
Come?
“Con le code, brancolando nel buio, senza tracciamenti e senza numeri certi. Ovvero lo spettacolo a cui abbiamo assistito fino ad oggi”.

L’INCHIESTA DI TPI SUI TAMPONI FALSI IN CAMPANIA

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