“Fatemi scegliere sulla mia morte”: storia di Laura, affetta da sclerosi multipla progressiva
Laura è affetta da sclerosi multipla progressiva. Ma per lei che non è attaccata a una macchina non è previsto suicidio assistito. Il referendum poteva cambiare le cose
Alle 8.30, quando suona la sveglia, un assistente la fa scendere dal letto elettrico e la porta subito in bagno. Con una cannuccia beve il caffè per colazione, perché in mano non riesce a tenere la tazza. Alle 9.30 cominciano i rituali di vestizione. Il corpo rigido. A fine mattinata c’è la fisioterapia. A seguire, iniziano le “ore buie” – come le definiscono – in cui la forza si affievolisce e anche stare seduti diventa una fatica insormontabile. Il pomeriggio legge un libro o incontra qualcuno dalla sua sedia a rotelle. Poi di nuovo a dormire con le sponde, senza potersi girare e sempre con qualche dolore in più. Benvenuti nella routine quotidiana di Laura Santi, 47 anni e affetta da una sclerosi multipla da quando ne aveva 25, malattia che con il passare del tempo è diventata progressiva e fortemente invasiva. Vive a Perugia con il marito Stefano, faceva la giornalista, amava viaggiare e nuotare. Oggi Laura è delusa dopo il No della Corte costituzionale al referendum per l’eutanasia legale. Come lei anche 1milione e 200mila firmatari della proposta referendaria. «Non voglio morire oggi e nemmeno domani – racconta – Anzi, se la mia malattia restasse così, se la progressione fosse lenta invece che maledettamente veloce, ve lo dico, io resterei qui. Perché amo la vita, perché ho un compagno meraviglioso. Ma peggioro ogni 3-4 mesi. So bene a quali sofferenze vado incontro. Per questo vorrei, un giorno quando sarà, poter dire basta, vado via, aiutatemi a morire. E il solo pensiero di poter scegliere quando morire renderebbe già più lievi i miei dolori. Il referendum per l’eutanasia legale in Italia sarebbe stato un grande segnale per i diritti di tutti».
Laura ha una voce squillante e una grande vitalità, ma il suo corpo sta diventando ormai una prigione: «Ci sono alcune ore del giorno in cui riesco a parlare, leggere, pensare. Scrivere purtroppo no, ormai muovo soltanto i due pollici delle mani. Poi arrivano, invece, le ore in cui resto immobile nel letto». Per lei, solo chi sente la malattia come una cosa molto lontana non si batte per un fine vita migliore. «Anche io la pensavo così a 25 anni, quando credi di essere infallibile. Lavoravo nel no-profit, correvo, avevo giornate pienissime, gli amici, la famiglia. Ricordo di aver pensato, con tutta l’incoscienza di quell’età e di un fisico che sembrava ancora integro: la malattia non mi toccherà. Ero bella, in forma e i sintomi erano lievi. Fino a che, nel 2016, in soli dieci mesi tutto è crollato. All’inizio dell’anno ero in piedi, poi, come in una caduta libera, ho avuto bisogno del bastone, del deambulatore, fino alla carrozzina. La neurologa mi disse: la sua sclerosi è diventata progressiva. È allora che ho cominciato ad avvicinarmi alle tematiche del fine vita. Sono da sempre sostenitrice delle battaglie dell’Associazione Luca Coscioni. La mia patologia è quella di Davide Trentini, malato di sclerosi. La differenza è che io non ho ancora dolori neuropatici. Lui era afflitto da malessere atroce e fu accompagnato a Zurigo per il suicidio assistito da Marco Cappato e Mina Welby. Cappato e Welby furono poi processati per quel viaggio. Li ho ringraziati quando un giorno scoprii che non potevo più pettinarmi. Mi spostano prendendomi in braccio, devo essere imboccata, quello che più mi pesa è essere lavata e manipolata da altre persone. Ed è atroce. Può succedere a tutti e tutti dovrebbero poter scegliere come vivere i loro ultimi attimi». La pensa così anche Mario Riccio, il medico che aiutò Piergiorgio Welby a chiudere gli occhi e per questo fu processato e poi prosciolto. Oggi è responsabile della Terapia intensiva dell’ospedale di Casalmaggiore (Cremona) e crede nel «dovere morale del medico di portare a morte un paziente. Perché è la medicina moderna che molto spesso ha condotto i pazienti nella condizione di richiedere la morte immediata, creando oggi situazioni che non creava in passato. Dj Fabo, Eluana Englaro e Piergiorgio Welby e tanti altri casi non sarebbero esistiti perché la medicina non li creava. Per questo il medico deve poter dire ‘siamo partiti insieme in un percorso in cui speravamo di ottenere il massimo, magari anche la guarigione, abbiamo invece ottenuto solo qualcosa di peggiorativo’».
L’attuale legge sul fine vita – la 209 del 2017- secondo Laura «esclude e taglia fuori molte persone perché chi, come me, non è attaccato a nessuna macchina per respirare e per vivere non può interrompere le cure e di conseguenza non può lasciarsi morire. Questo vale per i tetraplegici, per alcune forme di tumore, per la sclerosi progressiva come la mia. Chi pensa a queste persone? Secondo la Consulta dovremmo imparare a sopportare meglio il dolore? Ad “accogliere la sofferenza”? Ma soprattutto: a chi andremmo a ledere i diritti se fosse possibile per noi avere questa opportunità? Assolutamente a nessuno. Come la legge Zan proteggerebbe le persone lgbtq+, ma non lederebbe i diritti, neanche quelli degli omofobi. Allo stesso modo chi sceglie il suicidio assistito non disturba la libertà altrui». Anche per Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, il rifiuto del referendum «è un vero danno alla democrazia e discrimina tutti coloro che non rientrano nelle quattro condizioni stabilite finora in Italia per il fine vita. Adesso o hai un caso come Dj Fabo o sei fuori dai giochi».
Nonostante le sofferenze, Laura si è sempre tuffata nelle esperienze. A 29 anni ha conosciuto Stefano e dopo 17 anni sono ancora insieme. Oggi Laura, tra l’ironico e l’amareggiato, lo definisce il suo “caregiver”. «Non è scappato – spiega ridendo – perché oltre all’amore ci unisce la cultura. Lui fa il regista, io scrivo. Abbiamo però rinunciato a un figlio, perché intorno ai 30 anni la sclerosi mandava già i primi segnali, iniziavo a zoppicare, già facevo i conti con l’incontinenza. Nulla rispetto ad oggi, ma ho avuto paura di non poter crescere un bambino». Disegnato sul polso Laura ha un tatuaggio con la scritta “tregua”. «È quello a cui noi malati aspiriamo: tregua dal dolore, dall’avanzare della malattia, tregua da un corpo che non risponde più. Quando non risponderà più davvero, preferirei morire qui, con l’eutanasia legale. Ogni pochi mesi è come se perdessi un pezzo. Non ho ancora i dolori che aveva Trentini, ma forse ci sarà un giorno in cui non muoverò più nulla. Quindi datemi finalmente questo benedetto diritto di morire! Siamo già in ritardo rispetto ad altri Paesi». Alla fine, Laura chiede solo di poter scegliere. C’è una canzone che Andrea Appino ha dedicato al regista Monicelli, si chiama Il testamento. In una delle sue strofe, che sono un inno alla libertà, recita: “Ho scelto tutto, tutto tranne il mio dolore/Perché la scelta infondo è l’unica cosa/ che rende questa vita almeno dignitosa”.
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