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Esclusivo TPI – Intervista a Ottavia Spaggiari, l’unica finalista italiana dello European Press Prize

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Classe 1982, Ottavia Spaggiari è una giornalista d'inchiesta che negli ultimi anni ha lavorato per diverse testate internazionali. Grazie a un suo articolo sulla tratta delle nigeriane in Italia pubblicato sul Guardian si è classificata seconda al prestigioso European Press Prize. A TPI racconta in esclusiva come è nato il suo reportage e in che modo, secondo lei, dovrebbe evolversi il mondo del giornalismo

Ottavia Spaggiari, classe 1982, è una giornalista d’inchiesta italiana che negli ultimi anni si è costruita una carriera nelle principali testate internazionali. Tra gli altri, ha lavorato per il New Yorker, Slate e il Guardian. E proprio uno dei suoi pezzi per il Guardian l’ha portata a classificarsi seconda nella categoria Distinguished Reporting dello European Press Prize, uno dei più prestigiosi premi giornalistici d’Europa, giunto quest’anno alla nona edizione.

Il premio valorizza il giornalismo di qualità in tutta Europa. Tra i vincitori di quest’anno ci sono inchieste sul regime bielorusso e sulle condizioni della comunità LGBTQ in Polonia, oltre ad un progetto antibufale sviluppato su WhatsApp dalla testata spagnola Maldita.es.

Spaggiari era l’unica italiana tra i finalisti. Il suo pezzo si intitola Escape: the woman who brought her trafficker to justice e parla di Susan, una ragazza nigeriana portata in Italia con la promessa di un buon lavoro e costretta invece a prostituirsi. Susan però non demorde e mentre si prostituisce raccoglie prove della prigionia a cui è costretta, riuscendo infine a consegnare i propri rapitori alla giustizia. L’articolo ha contribuito al dibattito sul tema del traffico di esseri umani ed è stato menzionato e commentato anche dal Consiglio d’Europa.

TPI ha intervistato Spaggiari subito dopo la comunicazione dei risultati ai finalisti.

Che cosa rappresenta per te questo riconoscimento internazionale?
Lo European Press Prize è uno dei pochi premi europei a vocazione davvero internazionale, ed essere arrivata seconda è un grande onore e un grande privilegio. Peraltro il premio valorizza al massimo dei lavori di altissima qualità giornalistica che se non venissero tradotti in inglese e promossi dal premio rimarrebbero intrappolati all’interno dei propri confini. 

Penso ad esempio alla bellissima inchiesta polacca sulle condizioni di vita della comunità LGBTQ nel paese, che in Polonia ha avuto un grande impatto ma di cui non avrei mai saputo niente se non fosse stato per il premio.

Penso poi che sia una grande dimostrazione di quanto sia importante investire sul giornalismo lento, approfondito e di qualità, che sempre più spesso viene sepolto dalle news e dall’eccessiva attenzione per i click e che invece dovrebbe essere sempre più valorizzato e promosso, visto che rappresenta la vera essenza di questo mestiere. Penso che il giornalismo lento, anche se più costoso in termini di soldi e di tempo – è quello che sul lungo periodo premia di più, tanto le redazioni quanto i lettori.

Com’è nata la storia di Susan che racconti nel tuo reportage?
Io per anni ho lavorato a fondo sui temi della migrazione e della tratta e c’erano due aspetti fondamentali che ci tenevo a raccontare in questo longform. Il primo – che è emerso parlando a lungo sia con magistrati che con poliziotti – è che in Italia è difficilissimo perseguire penalmente i trafficanti di esseri umani e gli sfruttatori della prostituzione. Penso sia un tema importante, perché racconta dell’incapacità di un sistema di punire chi si macchia di reati davvero gravi e odiosi.

Il secondo tema è la storia di Susan in sé. È vero infatti che Susan è una ragazza nigeriana che come spesso accade è arrivata in Italia con la promessa di un lavoro ma è finita nelle mani di alcuni sfruttatori senza scrupoli, ma sua storia ha una particolarità fondamentale: lei è riuscita a denunciare i propri sfruttatori. In particolare, ci è riuscita perché mentre veniva sfruttata raccoglieva prove su prove dei reati che venivano commessi intorno a lei e su di lei. La sua denuncia ha portato allo smantellamento di una rete internazionale di trafficanti e sfruttatori, eppure la sua storia era passata sotto silenzio.

Quindi ho pensato che fosse importante raccontare la sua storia, perché è una vicenda di violenza e di sopruso ma anche di riscatto e di giustizia, che descrive un certo ambiente marginale e dà un messaggio sostanzialmente positivo.

Cosa hai imparato dal rapporto con Susan e dal raccontare la sua storia?
Susan è una persona estremamente traumatizzata, e che eppure si è esposta e si è fidata di me fino a raccontarmi la sua storia. Questo è stato possibile perché ho sempre evitato domande inutili che le facessero rivivere il trauma, anche grazie al fatto che ho avuto accesso alle carte processuali e non ho dovuto richiederle conto di tutte le esperienze disumane che aveva vissuto. Devo dire che in questo percorso di costruzione della fiducia mi ha aiutato molto la formazione ricevuta dal Dart Center for Journalism and Trauma sulla gestione dei traumi nel giornalismo e anche l’avere moltissimo tempo a disposizione.

Il tempo e la lentezza in questo lavoro consentono la formazione di legame genuino e costruttivo tra reporter e intervistato, e in questo caso mi hanno consentito di entrare davvero in intimità con Susan. Penso che alla fine il buon rapporto che si è creato abbia aiutato me a raccontare la sua storia e lei a diventarne sempre più cosciente e padrona: lei non era più una vittima, ma l’eroina della storia. E tutto questo non sarebbe stato possibile se non avessi avuto il privilegio del tempo.

Pensi che in Italia ci sia un problema di libertà di stampa?
Io vivo negli Stati Uniti, ma comunque credo che in Italia tutto sommato siamo fortunati. Proprio in questi giorni stiamo assistendo a fatti gravissimi in vari Paesi relativamente vicino al nostro, specie in Bielorussia, e per fortuna da noi la libertà di stampa non è così sotto attacco. 

Tuttavia penso anche che ci sia un problema grande nell’accesso alla professione, soprattutto per i freelance. Le redazioni italiane hanno spesso dei problemi a valorizzare il lavoro degli esterni, e soprattutto ad allocare per loro dei budget che siano rispettosi dell’approfondimento, del tempo e della professionalità che queste persone riversano nel proprio lavoro.

Ecco, forse questa non è una questione centrale, però penso sia molto importante capire e affrontare il problema per arrivare a un giornalismo migliore nel futuro.

Come vedi il futuro del giornalismo?
Parlando sempre da una prospettiva di freelance, credo che uno dei pilastri per il futuro sia quello della collaborazione tra professionisti e anche tra testate. Il giornalismo collaborativo è sempre più affermato in Europa, e credo si possa dire che quel paradigma vecchio e stereotipato dei giornalisti che lavorano ognuno per sé senza condividere niente sia superato. In Italia forse serve ancora uno sforzo in questo senso, ma siamo sulla strada giusta.

Un altro pilastro è quello della diversity nelle redazioni. Ancora oggi i giornali sono popolati da uomini bianchi di mezza età, soprattutto nei piani alti delle redazioni. Ma per raccontare un mondo complesso serve una varietà di visioni e di punti di vista, quindi servono assolutamente sempre più donne e sempre più persone di seconda generazione e di gruppi minoritari non solo nelle redazioni, ma nei piani alti delle redazioni. Senza diversità interna è impossibile che i giornali riescano a rimanere all’altezza di un mondo che si trasforma velocemente.

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