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ESCLUSIVO TPI – “Obbligati a tenere pazienti Covid per giorni nel pronto soccorso”: parla un’infermiera di Alzano

La testimonianza esclusiva di un'infermiera presente quel 23 febbraio al pronto soccorso di Alzano Lombardo, lì dove è partito tutto il contagio da Coronavirus nella provincia di Bergamo

 

ESCLUSIVO TPI – Un cosa ormai è certa: già dalla prima settimana di febbraio sono stati diagnosticati all’ospedale di Alzano Lombardo diversi casi sospetti di polmonite interstiziale. A nessuno però è stato fatto il tampone, non presentando le condizioni previste dal Ministero della Salute per la definizione di “caso sospetto”. Nessuna delle persone ricoverate nelle prime due settimane di febbraio ad Alzano, per intenderci, era stata in Cina o a contatto con pazienti Covid19, quindi non rientrava nella casistica da diagnosticare e isolare.

I primi tamponi all’ospedale “Pesenti Fenaroli” si fanno sabato 22 febbraio. Quel giorno dal pronto soccorso entra un uomo di 84 anni – Ernesto Ravelli – che, come racconta una sua nipote al quotidiano online Valseriananews, aveva trascorso due settimane in quello stesso ospedale dal 5 al 19 febbraio, contraendo il virus proprio in quel frangente. La donna spiega il perché di questa affermazione alla giornalista Gessica Costanzo: “mio nonno non è stato il portatore del virus in Val Seriana, lui era ricoverato per un’emorragia interna da cui si stava riprendendo. Io stessa il 13 febbraio l’avevo visto in buone condizioni. E’ stato poi dimesso il 19 con una brutta tosse, in ospedale non si reggeva in piedi e vomitava schiuma bianca, ma è stato rimandato a casa. Si è ben presto aggravato. Il sabato 22 un’ambulanza l’ha riportato ad Alzano Lombardo. Di nuovo: pronto soccorso e questa volta reparto di Chirurgia, perché in Medicina non c’era posto. Quella sera gli fanno il tampone per il Covid19 a cui la domenica risulta positivo. Da lì alle 23 circa viene trasferito a Bergamo dove muore decretando il triste primato di essere la prima vittima da coronavirus nella provincia di Bergamo”.

Questa ricostruzione viene confermata anche da un’infermiera, che già un mese fa al telefono con Valseriananews aveva denunciato la promiscuità di persone infette e non tra il personale sanitario di turno al pronto soccorso. La donna, che ha vissuto le prime drammatiche ore di quel 23 febbraio, accetta di raccontare tutto a TPI. Questa la sua testimonianza, che pubblichiamo integralmente:

“Il 23 mattina viene comunicato un caso sospetto Covid al pronto soccorso, su cui era partito il tampone, si decide quindi di chiuderlo nel primo pomeriggio e si invita l’utenza che si trovava nella sala d’attesa ad allontanarsi. Alcune ore dopo vengono trovati altri due casi positivi in Medicina e Chirurgia, uno di loro è Ernesto Ravelli, il pensionato che era passato in pronto soccorso due giorni prima. I due casi Covid19 accertati erano ricoverati da alcuni giorni in ospedale, per questo bisognava svuotare subito i reparti e sanificare tutto. Ma questo non è stato fatto.

Il 23 stesso abbiamo fermato tutti i colleghi, è stato transennato l’ingresso in entrata e anche in uscita, poi verso le dieci di sera, quando è arrivato l’ordine di andare, tutti sono tornati a casa, parenti compresi. È stato lì il casino. Lì non doveva uscire nessuno, né i parenti né i pazienti. Dovevano isolarci, farci i tamponi, senza lasciarci andare via. Il lunedì e il martedì tutto l’ospedale è andato avanti con le normali attività, perché non ci hanno proprio cagato di striscio. O non volevano fare allarmismo o non si capisce perché sia andata così. Come se nulla fosse si entrava e si usciva, hanno operato e fatto attività ambulatoriale.

E’ stato questo il grosso errore. La mattina del 23 febbraio il nostro medico ha chiuso nell’immediato, ha avvisato i vertici, ha avvisato il 118 che non avrebbero accettato più nessun paziente e ha avvisato l’utenza che c’era in sala d’attesa. Tra l’altro l’utenza in sala d’attesa fino a sera tardi non se n’è andata, ed erano forse le persone che potevano andarsene immediatamente. Non hanno percepito la gravità della situazione, eppure è stato detto chiaramente: abbiamo qui un caso sospetto di coronavirus, il pronto soccorso in questo momento viene chiuso a tempo indeterminato. Poi però sono rimasti lì. Ai colleghi del pomeriggio abbiamo detto di non entrare neanche, di andarsene a casa e nel frattempo ci siamo messi a redigere delle liste con i nomi dei pazienti transitati, parenti dei pazienti, personale nostro che è stato a contatto con gli infetti, è scesa la nostra responsabile infermieristica di Alzano insieme alla capo sala della Medicina per compilare queste liste di tutte le persone che a nostro avviso dovevano essere avvisate di essere venute in contatto con casi Covid e andavano messe in quarantena. Queste liste le abbiamo fatte noi in autonomia, mentre il nostro direttore medico Marzulli si confrontava con i superiori.

Queste liste erano in mano ai capo sala e non so che fine abbiano fatto. Il punto è che io per prima sarei dovuta essere messa in quarantena, invece quella sera io, come tutti, siamo tornati a casa. E ci è stato detto dal direttore e dal nostro responsabile di tornare il giorno dopo tranquillamente a lavorare. Il pronto soccorso so per certo che alle 22 era di nuovo aperto, me lo hanno detto i miei colleghi che iniziavano il turno di notte, quindi gli utenti potevano entrare e le ambulanze arrivavano. Il pronto soccorso, nonostante la chiusura di alcune ore, ha avuto dentro gente fino a tardi, nonostante l’allarme.

Al caso sospetto del pronto soccorso è stato fatto il tampone, ma è stato isolato e trasferito a Bergamo prima che arrivasse il referto, mentre in Medicina e in Chirurgia c’erano già due persone positive. I giorni successivi a quella domenica 23 febbraio è arrivata una richiesta da parte dell’Asst Bergamo est di mantenere i casi sospetti fermi al pronto soccorso finché non fosse arrivato l’esito del tampone. All’inizio le indicazioni erano queste, tant’è che noi a un certo punto non avevamo più né attacchi d’ossigeno, né lettini dove mettere i pazienti. Alla fine tutto il pronto soccorso è diventato Covid. Abbiamo tenuto lì le persone anche 24-48 ore, aspettando i referti. Già dal lunedì 24 il pronto soccorso è stato diviso in due ed è stato creato un percorso dedicato, ma la sera del 23 non c’erano percorsi differenziati e abbiamo utilizzato quelli vecchi stabiliti per la Sars e per l’ebola.

Da subito i pazienti Covid sono cresciuti a una velocità impressionante. Sin dai primi giorni abbiamo dovuto eseguire gli ordini dell’Asst di Seriate che ci obbligava a tenerli dentro al pronto soccorso, senza poterli trasferire nei reparti o in altri ospedali fino alla conferma della positività. Li abbiamo messi ovunque: nei corridoi, nella shock room. Non avevamo stanze di isolamento e alla fine anche nel triage sono stati messi dei posti letto. Da subito abbiamo chiesto che almeno uno dei reparti già infetti, tra Medicina e Chirurgia, fosse adibito solo ai casi Covid, perché il pronto soccorso si satura velocemente già con venti persone allettate, non si riesce più a fare niente. Avevamo pazienti dappertutto, non sapevamo più dove sistemarli, l’ordine era di tenerli lì, ma ad Alzano non abbiamo nemmeno una terapia intensa e quindi li mandavamo a Seriate, a Bergamo, dove c’era posto. Ma anche lì a un certo punto hanno iniziato a non prenderceli più, perché anche lì si stavano saturando. Infatti dopo alcuni giorni anche ad Alzano si sono creati dei reparti solo per Covid con la terapia sub-intensiva, la cosiddetta cpap.

Noi in pronto soccorso abbiamo avuto una media di venti pazienti al giorno ricoverati, di più non potevamo tenerne. Non è molto lo spazio. L’osservazione breve ha quattro posti letto, poi ci sono i moduli con una barella, ne abbiamo istituiti due con due posti letto, il triage altri quattro posti e infine la shock room con due posti letto. Quattordici in tutto, ma ne abbiamo avuti anche di più in osservazione per giorni. Qui ad Alzano è solo uno che può decidere ed è il direttore medico (Giuseppe Marzulli ndr). Se il direttore riceve degli ordini da gente che non è lì sul posto, ma che è dietro a una scrivania, può sempre decidere di non ubbidire. È come se un mio superiore mi chiedesse di dare del cianuro a un paziente, ecco io non lo faccio, perché altrimenti il paziente muore e ne risponderò.

Marzulli doveva rifiutarsi di eseguire gli ordini di Seriate, doveva prendere tempo, non aprire e stabilire dei percorsi, isolare tutti, fare i tamponi a pazienti, parenti, infermieri e medici e dire: quando avremo un percorso sicuro riapriremo. Tant’è vero che i reparti poi li hanno svuotati e sanificati, ma quattro giorni dopo. Il danno ormai era già stato fatto. Avrebbero dovuto fermare tutto almeno per 24-48, solo così si sarebbe limitato il contagio. Anche i sindaci se avessero voluto avrebbero potuto imporsi: “io Alzano lo chiudo”, “io Nembro lo chiudo”.

Conte ha dato le direttive e nessuno avrebbe impedito a nessuno di fare zone rosse, l’esercito era in giro, chi l’ha chiamato? E chi gli ha detto di tornarsene indietro? Chi aveva il potere per farlo poteva fare una zona rossa, senza aspettare ordini superiori. Perché non si è fatta la zona rossa? Perché c’è la Persico, Radici….il sindaco di Alzano poteva chiuderlo il suo comune, hanno questo potere, sono lì apposta, è il loro lavoro, nessuno avrebbe chiesto loro di rispondere su un’epidemia del genere se avessero peccato in eccesso. Non si sono presi le responsabilità, non hanno avuto le palle di chiudere i loro paesi? Ora stessero zitti tutti quanti”.

Qui di seguito la una seconda testimonianza esclusiva dall’ospedale di Alzano: “Ordini dall’alto per rimanere aperti coi pazienti Covid stipati nei corridoi”

 

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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