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Home » Cronaca

Cinque cose da sapere sull’Ilva, l’azienda da 24miliardi che rischia di chiudere

Immagine di copertina
Ilva di Taranto Credits: Michele Amoruso - Ansa foto

Chiudere lo stabilimento di Taranto sarebbe una vera e propria catastrofe: costerebbe all'Italia 24 miliardi di euro.

Cinque cose da sapere sull’Ilva

ArcelorMittal lunedì 4 novembre ha annunciato che si ritirerà dall’accordo per l’acquisizione di Ilva. Praticamente, la multinazionale indiana restituisce l’Ilva allo Stato italiano a un anno dall’arrivo a Taranto. Ma cosa rappresenta l’Ilva per l’Italia?

Quali sono le conseguenze economiche della chiusura dell’Ilva?

L’Ilva è la più importante azienda siderurgica del Paese, che per molti anni è rimasta di proprietà pubblica. Quello di Taranto è il più grande stabilimento d’Europa. I dipendenti diretti sono 10.700 (8.200 solo a Taranto), mentre quelli stimati nell’indotto sono intorno ai 3000-3500. Qualora venisse chiuso lo stabilimento di Taranto sarebbe una vera e propria catastrofe: verrebbe meno l’1,4 per cento del Pil ossia 24 miliardi di euro. Era questo il calcolo fatto nei mesi scorsi da Il Sole 24 Ore. Significherebbe la stessa cifra che è stata resa necessaria in questa legge di bilancio per scongiurare l’aumento dell’Iva.

Quali sono le posizioni politiche sull’Ilva di Taranto?

Il M5S nella campagna elettorale 2018 si è battuto per la chiusura dell’Ilva, salvo poi salvare l’azienda una volta al governo. Oggi il ministro Patuanelli difende lo stabilimento, ma l’abolizione dello scudo penale è nata da un’iniziativa dei senatori grillini (prima firmataria è l’ex ministra per il Sud Barbara Lezzi). Il Pd ha sempre considerato irrinunciabile la siderurgia per l’Italia, ma non ha impedito l’abolizione dello scudo penale. La Lega, che oggi accusa il governo di volere la chiusura della ex Ilva, quando era al governo con il M5S non si oppose alla cancellazione dello scudo.

Chi è a capo dell’azienda?

Un anno fa la ex Ilva, dopo la gestione della Famiglia Riva travolta da guai giudiziari, e un periodo di commissariamento, è passata al gruppo indo-europeo ArcelorMittal che ha superato l’altra cordata concorrente (Jindal-Arvedi-Del Vecchio). Il passaggio, ratificato dall’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e poi dal suo successore Luigi Di Maio, prevede 18 mesi di affitto (a decorrere dall’1 novembre 2018) al termine dei quali ArcelorMittal rileverebbe la proprietà per 1,8 miliardi (detratto il canone pagato in precedenza). L’accordo prevede anche investimenti ambientali per 1,1 miliardi, industriali per 1,2 miliardi e il mantenimento dei livelli occupazionali.

Quali sono i punti critici dell’Ilva di Taranto?

La fabbrica pugliese è da anni al centro delle polemiche per gli effetti dell’inquinamento. Ad essere esposti a gravissimi rischi per la salute sono in particolare gli abitanti del quartiere Tamburi, che si affaccia sull’acciaieria. Gli accordi sulla realizzazione del piano industriale e ambientale prevedevano uno scudo penale per gli amministratori dell’azienda. Una tutela messa in discussione dal governo giallo-verde, poi confermata (anche se in forma ridimensionata) dallo stesso esecutivo e infine cancellata con un voto al Senato dell’attuale maggioranza giallo-rossa. ArcelorMittal ritiene la conferma dello scudo dirimente per proseguire nei piani. A determinare la decisione di ieri dell’azienda, anche la prossima chiusura (13 dicembre) di uno degli altiforni di Taranto, imposta dalla magistratura in mancanza di una sua messa a norma. Determinante, infine, pure la crisi del mercato siderurgico, colpito dalla frenata della domanda e dai dazi (oggi la ex Ilva perde 2 milioni al giorno).

Ricatto o vero rischio chiusura?

Secondo l’azienda il contratto di affitto e comodato con gli ex commissari Ilva prevede una clausola di recesso per “l’affittuario” degli stabilimenti. Il diritto è assicurato nel caso in cui un provvedimento legislativo renda impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto o irrealizzabile il piano industriale. Il governo nega l’esistenza di questa clausola. Secondo Carlo Calenda, che in qualità di ministro firmò gli accordi, la clausola c’è ma ArcelorMittal non potrebbe chiudere autonomamente gli altoforni, perché il diritto di recesso va prima accertato dal Tribunale. Secondo i lavoratori, come hanno detto a TPI in un’intervista, quello di ArcelorMittal è un vero e proprio ricatto, cioè “l’azienda sapeva dall’inizio che si voleva ritirare”.

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