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La razzia degli indiani: Mittal voleva solo spolpare l’Ilva per eliminare un concorrente strategico

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Dice giustamente Andrea Orlando che in questo momento spegnere l’altoforno dell’Ilva “è una dichiarazione di guerra”. E se questa crudissima immagine è vera, la dichiarazione di guerra di Mittal all’Italia è stata consegnata ieri.

Il motivo è evidente: chiunque abbia a che fare con gli altoforni spiega che spegnere l’area a caldo di un impianto significa fermare la fabbrica per mesi, e creare un ostacolo economico alla sua riapertura.

Significa cioè uccidere il cuore produttivo dell’impianto, ipotecare a tempo indeterminato ogni possibile attività produttiva. Ma Mittal, è bene ricordarlo, non è proprietaria di Ilva, soltanto affittuaria, nel periodo – questo – che avrebbe dovuto precedere l’acquisto definitivo.

> QUI LE ULTIME NOTIZIE SULL’ILVA E GLI APPROFONDIMENTI DI TPI SUL TEMA

Non completa le opere di risanamento, non completa l’acquisto, dice che vuole mandare in ogni caso 5mila dipendenti (uno su due!) in cassa integrazione.

Appare sempre più evidente che la vicenda dello scudo (che è solo uno dei tre punti evocati nella lettera della società) è solo un facile pretesto per attuare un piano che era in programma da mesi, probabilmente da quando, prima dell’estate scorsa, Mittal aveva revocato unilateralmente il piano occupazionale concordato con il governo.

Sarebbe quindi come se l’inquilino che abita un appartamento altrui, prima di andarsene, distruggesse con una mazza ferrata gli impianti e arredi che per contratto è tenuto a riconsegnare integri.

Bisogna quindi spiegare che un altoforno non è come una normale caldaia, che si possa fermare e riavviare accendendo un fuoco o premendo un bottone. A Taranto spegnere un altoforno di quella portata significa far colare dentro il forno cosiddetta “salamandra”, forare il crogiuolo per svuotarlo dalla ghisa residua.

La Salamadra rimane come ultima lingua di ghisa solidificata e – una volta tombato il sarcofago – per poter riavviare l’impianto bisogna ricostruirlo ex novo.

Il che significa prima di ogni altra cosa due elementi: tempo e soldi. Per avere un parametro basta ricordare che l’ Altoforno 5, il più grande d’ Europa (che fu spento nel 2015) era costato 400 milioni.

Ma non basta: per compiere questo piano annunciato ieri Mittal sta realizzando una vera e propria corsa contro il tempo: raccontano i sindacati che a Taranto anche una semplice fermata ad esempio per ragioni di sicurezza – ha bisogno di essere pianifica in tempi lunghi (anche un anno).

In questo caso il gruppo franco-indiano annuncia di volerne realizzare tre, praticamente in simultanea, e in trenta giorni. Eccola la dichiarazione di guerra: abbandonare la fabbrica dopo aver colpito a morte il suo cuore incandescente.

E a spiegare questo piano e questo calendario sono stati gli stessi dirigenti di Mittal. Ma siccome come abbiamo detto il gruppo franco indiano è solo affittuario, la parola dovrebbe passare alla proprietà, che è in amministrazione straordinaria, cioè ai commissari.

E perché questo accada occorre un passo del governo. D’altra parte anche tutte le altre notizie che arrivano da fonti informali e ufficiali confermano questo quadro: i fornitori non vengono pagati, le scorte di materie prime sono state esaurite.

L’incontro tra azienda e sindacati di oggi al Mise non è più una negoziazione ma una messa da requiem. Quindi, superato lo smarrimento bisogna chiedersi: si può consentire ad una multinazionale di chiudere un impianto non suo?

Aggiunge ancora il vicesegretario del Pd: “Si tratta di un tentativo di ArcelorMittal di distruggere la capacità produttiva dello stabilimento per rafforzare la propria posizione di mercato eliminando quote di produzione. È un attacco al paese”.

Ma non è finita: secondo le previsioni di Ubs, un’eventuale cambio di proprietà in Ilva e nello stabilimento British Steel di Scunthorpe comporterebbe una perdita di produzione europea di almeno 9 milioni di tonnellate, che si andrebbero ad aggiungere alla riduzione già stimata di 11 milioni di tonnellate.

Questo crollo, per un evidente meccanismo di domanda e offerta, produrrebbe un aumento dei prezzi a 40 euro per tonnellata per i laminati a caldo nei primi tre mesi del prossimo anno, conseguente anche a una ripresa delle scorte.

Spegnendo Ilva, in pratica, Mittal valorizza tutto l’acciaio che produce nel resto del mondo. Parigi val bene una messa.

Ilva Mittal Italia usa e getta: Taranto è la metafora perfetta del Meridione depredato dalle multinazionali (di Luca Telese)
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