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Caso Ilaria Alpi: quei traffici segreti degli italiani in Somalia con i nemici degli Usa

Immagine di copertina

Inchiesta Gladio-bis: dalle carte inedite emergono altri dettagli. Come i traffici degli italiani con i nemici degli Usa in Somalia

Sarà probabilmente il Copasir a occuparsi dei possibili intrecci tra l’organizzazione clandestina Gladio – chiusa ufficialmente nel 1990 – e due attentati eccellenti, quello che colpì Giovanni Falcone, la moglie e la scorta a Capaci e l’agguato mortale di Mogadiscio del 1994, dove morirono la giornalista Rai Ilaria Alpi e il video-operatore Miran Hrovatin.

Il documento inedito che TPI ha pubblicato la scorsa settimana ha riaperto il caso della struttura Nato “Stay Behind” attiva in Italia sulla base di un accordo tra i Servizi segreti e la Cia: in base al documento, l’organizzazione sembrerebbe essere sopravvissuta anche dopo la fine della Guerra Fredda semplicemente cambiando forma e obiettivi.

Il senatore del Partito democratico Walter Verini ha annunciato la richiesta di un «immediato intervento» che verrà presentata a breve alla Commissione parlamentare che si occupa della vigilanza sull’attività dei Servizi segreti: «Il servizio pubblicato dal giornale TPI, che squarcia e disvela un quadro agghiacciante, legato all’operato, per lungo tempo, di una struttura segreta parallela allo Stato ufficiale (una struttura che avrebbe raccolto, con complicità anche di altissimo livello istituzionale e di settori degli stessi Servizi segreti, la oscura attività di Gladio) richiede un immediato intervento del Governo e del Parlamento. Chiediamo che anche il Copasir si attivi subito», si legge nella nota del senatore Verini. 

Il caso Ilaria Alpi – un duplice omicidio avvolto da depistaggi e senza nessun colpevole individuato dalla giustizia dopo trent’anni di indagini – appare sempre di più un vero proprio crocevia tra traffici, agenzie d’intelligence e interessi di Stato da tenere riservati. Non solo Servizi italiani. La Cia, nelle sue analisi sulla situazione in Somalia tra il 1993 e il 1994, incrociò i rapporti clandestini e lo scambio di armi tra società italiane attive a Mogadiscio e la fazione islamista di Aidid, uno dei signori della guerra civile somala. Rapporti pericolosi, mai chiariti fino in fondo, che si legano con l’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. 

Per gli Stati Uniti la Somalia ancora oggi vuol dire “Black Hawk Down”, ovvero il film che rese famosa la battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre 1993, una disfatta tragica. In quei giorni era partita quella che sembrava essere la resa dei conti, la caccia a Mohammed Farah Aidid, il signore della guerra a capo della fazione islamista. Quattro elicotteri MH-60 Black Hawk si mossero per cercare di bloccare una riunione della cerchia più ristretta del leader somalo. Fu una catastrofe: due elicotteri venne abbattuti, un terzo danneggiato e diciotto militari statunitensi morirono.

Gli Usa da tempo monitoravano i movimenti del gruppo di Aidid e due giorni prima della battaglia del 3 ottobre notarono l’aumento del flusso di armi nei confronti della fazione islamista. Per gli analisti di Washington era indispensabile capire chi forniva le armi, come arrivavano a Mogadiscio e su quali coperture potevano contare i trafficanti. 

Il primo ottobre in una nota recentemente declassificata (su richiesta Foia intitolata “Le rotte per la fornitura di armamenti, nascondigli e legami operativi delle forze di Aidid”) la Cia sembra aver scoperto la via clandestina usata dai trafficanti: «Gli armamenti – che includono mortai e Rpg – sono trasportati lungo le strade che collegano Mogadiscio con Belet Weyne, Tigielo e Afgoi».

Quelle armi, spiegava l’intelligence statunitense, stavano per essere utilizzata contro il contingente internazionale: «Stanno pianificando di usare i mortai e gli Rpg contro Unosom». Per il trasporto e la distribuzione delle armi, i trafficanti di Aidid avevano necessità di una rete logistica e di copertura sicura, soprattutto a Mogadiscio. E uno snodo importante viene rivelato nel documento della Cia dell’ottobre 1993: «I supporter di Aidid stanno utilizzando la società Sitt, che è situata dall’altra parte della strada rispetto al compound Unosom. La società Sitt appartiene a Ahmed Duale “Hef”. (omissis) Commento: questa presenza è una minaccia per il personale Unosom e per chiunque entri nel compound».

Quella società era italiana: il principale socio di Ahmed Duale era l’imprenditore Giancarlo Marocchino, ampiamente utilizzato dal contingente italiano e dalla nostra cooperazione come uomo di fiducia ed esperto di logistica. Aveva lasciato l’Italia a seguito di affari finiti non proprio bene e da anni la Somalia era diventata la sua seconda patria. 

Meno di tre mesi dopo l’omicidio di Alpi e Hrovatin, il Sisde – l’agenzia di intelligence interna italiana – trasmette al Sismi (l’omologo servizio militare), al ministero dell’Interno e al comando generale dell’Arma dei Carabinieri un appunto sull’agguato di Mogadiscio: «Secondo informazioni acquisite in via fiduciaria, nel corso di un servizio giornalistico svolto a Bosaso (Somalia) qualche giorno prima della morte, i due cittadini italiani in oggetto avrebbero raccolto elementi informativi in merito a un trasporto di armi di contrabbando effettuato dalla cooperativa italo-somala “Somalfish”».

La pista delle armi, dunque, era stata indicata chiaramente dai nostri Servizi di sicurezza interni fin da subito, utilizzando una serie di fonti che anche successivamente saranno particolarmente importanti. Una importante conferma dei racconti di chi era particolarmente vicino ad Ilaria Alpi all’epoca: il suo ultimo viaggio era nato dall’esigenza di approfondire le notizie di alcuni traffici. 

Lo stesso Felice Casson, che all’epoca conduceva come giudice istruttore di Venezia inchieste sia su Gladio che sui traffici di armi, ha raccontato dell’incontro avuto con la giornalista Rai pochi mesi prima del sua partenza per Mogadiscio: «Era interessata alla inchieste che stavo conducendo».

Pochi dubbi esistono sull’interesse giornalistico di Alpi nel momento del suo viaggio nel nord della Somalia. Tra i materiali video tornati in Italia c’è l’intervista a Abdullahi Moussa “Bogor”, esponente politico locale, al quale la reporter italiana chiedeva con insistenza notizie sulla nave italo- somala ferma davanti al porto di Bosaso: «Queste navi sono nella maggior parte del tempo nei nostri mari, nella costa migiurtina», racconta il Bogor riferendosi ai vascelli della compagnia italo- somala Shifco, citata più volte dalla fonte Sisde come centro dei traffici illeciti, insieme alle società di Giancarlo Marocchino.

Il volto di Abdullahi Moussa nelle immagini a quel punto si incupisce: «Ora ne abbiamo presa una», racconta. «Cosa ne avete fatto?”, chiede la giornalista del Tg3. «Le abbiamo, basta. Perché, hai qualche parente nell’equipaggio?». «Sì», risponde Ilaria sorridendo. «Un tuo capitano, eh? Un tuo capitano…», ribatte Moussa Bogor, seguendo il gioco. «Dov’è la nave, non la possiamo vedere?», insiste Ilaria. «Lei viene dal Sismi? Perché la deve vedere?», è la risposta tagliente. 

Le note del Sisde sulla Somalia, dopo la morte di Ilaria Alpi, si concentrano su Giancarlo Marocchino, il nome italiano dietro la società Sitt indicata dai servizi Usa come parte della logistica del flusso di armi destinato alle fazioni di Aidid: «È presente in Somalia da molti anni – si legge in un appunto del 9 agosto 1994 compilato dal centro Sisde Roma 1 – particolarmente esperto nella manutenzione delle armi pesanti e nell’allestimento dei veicoli fuori strada armati (…).

Ha un socio in affari, certo Duale del clan Habarghidir-Saad (uno dei clan legati ad Aidid, ndr) e fra le loro molteplici attività vi sarebbe il contrabbando di armi e munizioni, destinato indistintamente a tutti i clan». Marocchino, secondo il Sisde, faceva affari con chiunque, anche con i “Moryan”, ovvero ai banditi locali che infestavano all’epoca Mogadiscio. 

Il Sisde in quel momento storico sembra avere una particolare abilità nel reperire informazioni su quanto era accaduto in Somalia, grazie ad una rete particolarmente estesa di informatori. In una nota del 1996, firmata dalla divisione controterrorismo del Sisde, l’esistenza di un confidente di peso viene confermata dallo stesso servizio: «Il servizio ha seguito la vicenda (della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ndr) attraverso la fonte Omissis, del Centro Roma 1, che dal febbraio 1993 fornisce contributi di spessore significativo, prevalentemente orientati verso la situazione politico-militare del Corno d’Africa».

In decine di note firmate dal Centro Roma 1 il riferimento ai traffici illeciti di armi e al viaggio di Alpi a Bosaso è una costante. Quel testimone potrebbe essere la chiave per far ripartire le indagini sull’agguato mortale del 20 marzo 1994, ma la magistratura romana si è sempre scontrata con il muro di silenzio del Sisde su questo tema. 

Il 3 giugno 2002, durante il processo di appello contro Hashi Omar Hassan – prima condannato con l’accusa di essere uno degli esecutori del duplice omicidio e poi assolto in sede di revisione del processo dopo sedici anni di carcere – l’allora direttore del Sisde Mario Mori aveva invocato il segreto investigativo sul nome di quel testimone, che lo stesso servizio di sicurezza riteneva estremamente attendibile: «Lei è in grado di rivelare questa fonte che è stata ripetutamente ritenuta attendibile dagli stessi investigatori? Conosce questa fonte?», fu la domanda secca del pubblico ministero all’ufficiale.

«Conosco la fonte, ma mi avvalgo della facoltà prevista dall’articolo 203 del codice di procedura penale per non rivelarne il nome e l’identità», fu la risposta del capo del Sisde Mori. Da allora il nome del testimone è rimasto sepolto sotto il segreto imposto dai Servizi di sicurezza, bloccando di fatto una delle poche piste investigative rimaste ancora da esplorare.

Nel 2018, rispondendo all’ennesima richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Roma, il Gip ha disposto il proseguimento delle indagini, chiedendo, tra l’altro, di rinnovare al governo italiano la richiesta dell’identità della fonte del Sisde.

Sono passati quattro anni e non sappiamo quali atti abbia compiuto la Procura di Roma e se l’intenzione sia di rinnovare la richiesta di archiviazione. La storia dell’agguato di Mogadiscio è però sempre più legata alle attività dei Servizi di sicurezza. Ombre che ancora oggi coprono la Repubblica.

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