Esclusivo TPI – Le foto della falsa jeep di Ilaria Alpi nel garage della Rai: ecco il simbolo di un omicidio rimasto ancora senza colpevoli
Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, venivano uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Nel giorno dell'anniversario della loro morte, TPI pubblica in esclusiva le foto della jeep che, secondo la commissione parlamentare presieduta da Carlo Taormina, fu utilizzata dai due reporter il giorno del delitto e che avrebbe dovuto dimostrare la tesi dell’omicidio casuale. In realtà quella jeep era un falso clamoroso ed ora il veicolo si trova parcheggiato in un garage della Rai
Ventinove anni. Ci separa quasi un trentennio dal 20 marzo 1994, il giorno dell’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, a Mogadiscio. L’inchiesta della Procura di Roma è ancora aperta, dopo l’ennesima richiesta di archiviazione respinta dal GIP nel 2018. Cinque anni fa il Giudice per le indagini preliminari aveva chiesto al pubblico ministero di proseguire le indagini, con l’obiettivo di concluderle entro sei mesi. Da allora il silenzio da piazzale Clodio è stato l’unico segnale arrivato.
Nel frattempo molti protagonisti sono morti. Non ci sono più i genitori di Ilaria, Luciana e Giorgio, che per decenni hanno con coraggio e ostinazione cercato la verità sull’omicidio della figlia e del suo operatore. È stato ucciso da una bomba messa sotto la sua automobile Hashi Omar Hassan, il somalo condannato da innocente, poi prosciolto dalla Corte d’Appello di Perugia dopo la revisione del processo. Era stato incriminato sulla base della testimonianza di un altro somalo, Abdi Ali Rage, detto Gelle, che all’inviata di Chi l’ha visto? Chiara Cazzaniga ha raccontato di aver dichiarato il falso.
Sull’agguato di Mogadiscio hanno indagato – inutilmente – diverse Procure e la commissione parlamentare presieduta da Carlo Taormina. Per sostenere la tesi dell’omicidio casuale, dovuto ad una rapina finita male, la commissione d’inchiesta fece arrivare in Italia una jeep, mostrata in conferenza stampa come quella utilizzata da Ilaria e Miran il 20 marzo 1994.
Carlo Taormina mostrò alla stampa l’analisi fatta dalla polizia scientifica, che analizzando i fori trovati sul veicolo sosteneva la casualità dell’agguato: colpi sparati da lontano e non un’azione mirata alla persona. Storia finita, spiegò Taormina, si trattava di una rapina finita male, nessun mistero, nessuna esecuzione.
In realtà quella jeep era un falso clamoroso, come riscontrarono mesi dopo i periti della Procura di Roma analizzando il Dna estratto dalle tracce di sangue sul veicolo, non compatibile con il patrimonio genetico delle due vittime. Appena una esemplare simile alla vera automobile usata dai due giornalisti. Insomma, una vera patacca.
Quella jeep è finita curiosamente nel febbraio 2021 nel garage della sede Rai di Saxa Rubra, dopo un accordo con la polizia di Stato. Una notizia rimasta riservata fino ad oggi. Una presenza silenziosa quella della falsa automobile di Ilaria Alpi, un vero e proprio monumento ad anni di false piste e di testimoni inattendibili, simbolicamente coperto da una voglia di lasciarsi alle spalle quel duplice omicidio, sperando nel tempo e nel silenzio.
Ancora più curioso è l’arrivo della falsa jeep di Ilaria in Italia. La commissione Taormina aveva incaricato l’ufficiale di collegamento della Polizia di Stato di rintracciare l’automobile utilizzata dai giornalisti Rai il 20 marzo 1994. In Somalia come mediatore venne individuato Ahmed Duale un socio di Giancarlo Marocchino, l’imprenditore italiano accusato all’epoca della missione Onu di traffico di armi dal contingente Usa ed intervenuto per primo sul luogo dell’agguato. Duale nelle note declassificate della CIA è accusato di aver avuto rapporti con la fazione islamista radicale e di rappresentare un pericolo per il contingente UNOSOM. Nonostante questi precedente, Duale riceverà 18 mila dollari dalla commissione parlamentare per inviare in Italia la jeep, che poi si dimostrerà un falso.
Clamorose furono anche le indicazioni che arrivarono dall’Inghilterra sul falso testimone Gelle, già ricercato quando la commissione concluse i suoi lavori. Nella nota firmata dagli ufficiali di collegamento della Polizia di stato da Londra si indicava il domicilio di un omonimo, un altro somalo che nulla aveva a che vedere con il vero Gelle. E così, per anni, la giustizia era sulle tracce di una persona sbagliata, fino alla scoperta di Chi l’ha visto?.
Il buco nero della missione Unosom
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vennero uccisi mentre il contingente italiano si preparava a lasciare la Somalia, dopo la missione più fallimentare della storia recente. Pochi mesi dopo la partenza dei militari, l’intero paese del Corno d’Africa cadde sotto la guida delle Corti islamiche, la componente integralista che già all’epoca stava diventando il brodo di coltura della formazione Al Shabaab.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 erano appena tornati dal loro ultimo viaggio nel nord della Somalia, a Bosaso. La giornalista aveva seguito una storia ben precisa sulle navi della compagnia italo-somala Shifco, il cui direttore, Ali Mahdi, aveva iniziato ad avere rapporti con la fazione islamista da qualche mese. Una delle imbarcazioni della flotta Shifco in quel momento era sotto sequestro, con personale italiano a bordo.
Il Sismi ha sempre negato di essersi interessato della vicenda, ma un messaggio partito dai servizi segreti della Marina Militare – il Sios Alto Tirreno di La Spezia – spedito ad un ufficiale degli incursori Col Moschin il 14 marzo 1994, fa riferimento ad un’operazione in corso a Bosaso proprio nel giorno dell’arrivo di Ilaria e Miran nella città somala. Nel messaggio si parla di “presenze anomale”, ovvero dei due giornalisti, e si legge un riferimento ad un civile, tale Jupiter, che avrebbe avuto un ruolo in quella operazione. Jupiter era l’alias di Giuseppe Cammisa, il braccio destro del fondatore della comunità Saman Francesco Cardella, sicuramente presente a Bosaso negli stessi giorni del viaggio di Alpi e Hrovatin. Al suo ritorno in Italia “Jupiter” raccontò ad un volontario di Saman di aver incontrato la giornalista Rai nel suo viaggio in Somalia. Il cablogramma – che arriva da una fonte anonima – è stato acquisito dalla Corte di Assise di Trapani nel corso del processo sulla morte di Mauro Rostagno.
Il tribunale chiese all’Aise e al DIS di valutarne la genuinità, analizzando il modello e verificando negli archivi l’eventuale presenza di tracce utili. Per i giudici, nonostante l’incertezza mostrata dall’intelligence nelle risposte, vi è “un tacito riconoscimento della autenticità”, come si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado del processo per l’omicidio Rostagno. Dunque, effettivamente nei giorni dell’arrivo di Ilaria Alpi a Bosaso vi sarebbe stata una operazione riservata nel nord della Somalia, con la partecipazione di incursori italiani e di un civile arrivato nella zona con la veste ufficiale di volontario per l’associazione Saman. Circostanze che però non sono mai state approfondite nel corso delle indagini sull’omicidio della giornalista RAI e del suo operatore.
La Corte di Appello di Trapani scoprì poi che l’ufficiale del Col Moschin destinatario del messaggio aveva firmato nel 1984 l’atto di impegno alla segretezza richiesto ai membri di Gladio, l’organizzazione clandestina sciolta nel 1990. Non era l’unica presenza di questo tipo. Il 12 novembre 1993 a Balad, vicino Mogadiscio, rimase ucciso Vincenzo Li Causi, in servizio nel Sismi e, dalla fine degli anni ’70, uno dei quadri più importanti di quella che veniva in gergo chiamata “la nota organizzazione”. L’elenco dei gladiatori inseriti nella missione Unosom, però, è molto più lungo: in alcuni documenti recentemente declassificati emergono una decina di militari delle forze speciali italiane inseriti nella lista degli operatori formati da Gladio negli anni ’80, tutti presenti in Somalia. Una storia inedita, che TPI racconterà nei prossimi numeri.