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Home » Cronaca

L’affare d’oro delle armi: la guerra in Ucraina è la scusa perfetta per riarmare l’Europa

Immagine di copertina
credit: REUTERS/Zohra Bensemra

Il conflitto in Ucraina è diventato la scusa perfetta per riarmare l'intera Europa. Un business miliardario per i signori della guerra

«La minaccia portata oggi dalla Russia in Ucraina è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo mai fatto finora. Noi vogliamo creare una difesa europea. Per farlo, vogliamo adeguarci all’obiettivo del 2 per cento che abbiamo promesso alla Nat. È il 1° marzo 2022, il premier Mario Draghi nel suo discorso alle Camere annuncia l’intenzione di incrementare le spese militari italiane fino al 2 per cento del Pil, con un aumento di oltre 10 miliardi l’anno. La corsa alle armi è ufficialmente iniziata. Aumentare la spesa militare per fronteggiare le nuove minacce internazionali e, soprattutto, perché è la Nato che ce lo chiede. Miliardi che vanno a ingrassare il mercato dell’industria delle armi, uscito comunque indenne dalla pandemia, e rinvigorito oggi da questo ennesimo conflitto, abbeveratoio per tutte quelle aziende che in questi anni sono riuscite ad andare avanti specie grazie alle commesse del governo.

Cifre da capogiro, frutto di decisioni prese ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina, ma che trovano proprio nel conflitto il migliore alibi per poter essere ufficializzate e accettate da tutti. I più scettici nutrono dubbi sull’utilità di investimenti di tale portata sia in termini di reale sicurezza europea, sia sul piano economico nazionale: quanto c’entra questo aumento con la guerra in Ucraina? Può questo piano di esborsi per la Difesa essere in linea con un Paese che soffre ancora i devastanti effetti economici della pandemia? Sono necessari? Come verranno distribuiti? Per il momento, il valore delle armi cedute all’Ucraina dall’Italia si aggira intorno ai 150 milioni di euro. Pochi spiccioli in confronto a ciò che viene messo sul tavolo dell’aumento delle spese militari, che avranno comunque una realizzazione su base quinquennale o decennale.

Cosa inviamo all’Ucraina

I dettagli sulle forniture inviate all’Ucraina sono allegati al decreto legge del 2 marzo 2022 e il valore stimato è tra i 100 e i 150 milioni di euro. Altri tre milioni di euro sono già stati stanziati per le iniziative di protezione civile: verranno inviate 200 tende da campo per un totale di mille posti letto. Il trasporto delle armi, dell’equipaggiamento e del materiale sarà gestito dalla Nato. L’Unione europea ha deciso l’acquisto di armamenti per l’Ucraina per 450 milioni di euro, gli Stati Uniti hanno promesso prima 350 milioni di dollari di aiuti e poi altri 800.

La Germania per la prima volta dal secondo conflitto mondiale ha deciso di inviare 1.000 razzi anti-carro e 500 missili terra-aria Stinger per la contraerea da parte della Bundeswehr, l’aviazione tedesca. Se tutti gli altri Paesi dell’Ue hanno reso trasparenti il dettaglio del materiale inviato, il governo italiano ha deciso di secretare gli allegati. Da quanto abbiamo scoperto grazie a fonti qualificate della Difesa contattate da TPI, abbiamo inviato: lanciatori Stinger, mortai da 120 mm, mitragliatrici pesanti Browning, colpi browning, razioni K (cioè il pasto militare giornaliero), mitragliatrici leggere, colpi anticarro, lanciatori anticarro, radio, elmetti e giubbotti. Il numero degli anticarro e degli ‘Stinger’ dovrebbe essere nell’ordine delle centinaia. Migliaia dovrebbero essere invece le mitragliatrici pesanti Browning o le più leggere Mg pronte a finire nelle mani di militari ucraini.

materiale inviato e da inviare comprende per lo più armamenti in giacenza nei magazzini delle forze armate. Armi che l’Italia ha acquistato prevalentemente da Israele e Regno Unito e alcune di fabbricazione italiana. Da almeno tre depositi di armi italiani l’esercito ha organizzato i convogli con il materiale bellico. Il viavai di militari, gru e camion ha interessato soprattutto le caserme di Alessandria, Mortara e Milano. Una parte dei materiali è stata trasferita in un deposito allestito appositamente vicino all’aeroporto militare di Pisa, da dove è partito tutto alla volta della Polonia, anche tra le proteste dei lavoratori. Una volta giunto in Polonia il materiale è gestito dalle forze della Nato.

Le armi, i mezzi e gli equipaggiamenti arrivano in Ucraina principalmente dalle strade e dalle ferrovie che collegano la Germania a Kiev, attraverso la stessa strada che molti ucraini stanno percorrendo per lasciare il paese. È una via d’accesso piuttosto rapida e con pochi problemi dal punto di vista logistico. Uno dei punti di accesso a Sud è il confine con la Romania, mentre a Ovest si può entrare dalla Slovacchia e dall’Ungheria. Il capo di Stato maggiore della Difesa Cavo Dragone ha affermato che l’Italia ha aumentato la presenza numerica di Eurofighter in Romania (fronte est), per un totale di otto velivoli dedicati alla sorveglianza aerea, che si aggiungono ai 250 alpini in Lettonia, oltre a tre unità navali per la sorveglianza navale dell’aereo sud.

L’aumento delle spese militari

Per il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, il 2022 è iniziato così come era finito l’anno passato: con una valanga di programmi di riarmo inviati al Parlamento per un’approvazione rapida e scontata. Si trattava di programmi targati ancora “SMD 2021”, annata che stracciava ogni record storico con ben 31 richieste presentate per un valore complessivo di oltre 15 miliardi di euro (e in proiezione un onere complessivo di oltre 30 miliardi). Tra gli otto ulteriori programmi trasmessi l’11 gennaio alle Commissioni Difesa di Camera e Senato spiccano quelli per i due nuovi cacciatorpedinieri lanciamissili classe Orizzonte da circa 1,2 miliardi l’uno che saranno prodotti da Fincantieri. Con la Guerra in Ucraina l’aumento delle spese militari, però, sembra aver avuto una spinta motrice senza precedenti.

L’era Draghi- Guerini

Si passerà, secondo i dati dell’Osservatorio Milex, da una spesa di 26 miliardi (68 milioni al giorno) a 38 miliardi annui (104 milioni al giorno). L’aumento delle spese militari dovrebbe iniziare già dal 2023 gradualmente fino ad arrivare a quota 38 miliardi nel 2027-2028. Da dove arriva l’impegno del 2 per cento? L’indicazione di spesa in percentuale del PIL in ambito Nato deriva da un accordo informale del 2006 dei Ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo da raggiungere entro il 2024), in cui si è anche indicata una quota del 20 per cento di tale spesa da destinarsi ad investimenti in nuovi sistemi d’arma.

Queste dichiarazioni di intenti al momento non sono mai state ratificate formalmente dal Parlamento italiano con un voto avente forza legislativa e quindi non costituiscono un obbligo vincolante per il Bilancio dello Stato. In Italia a inizio anni Cinquanta alla difesa veniva destinato tra il 3 e il 4 per cento del PIL, dato che poi è sceso nel tempo con un minimo dell’1,2 per cento nel 2015. La quota indicata del 2 per cento rispetto al PIL non ha nei fatti una giustificazione specifica ma è stata usata come segnale verso una nuova crescita di spesa. Per il responsabile della Difesa le esigenze di ammodernamento «sono da anni al centro dei richiami che non solo gli specialisti di settore, non solo i vertici militari della Difesa e delle Forze Armate, hanno più volte evidenziato».

Militari ignorati

La visione di Guerini è poco condivisa da chi può raccontare tutte le carenze di un settore – quello militare – che per anni ha visto dirottare la spesa a favore dell’industria delle armi e poco o nulla verso il personale. «Aumentare la spesa militare oggi è assolutamente inutile. Bisogna eliminare gli sprechi e quei fantasmagorici e inutili programmi di spesa pluriennale che spesso sono frutto delle manie di grandezza di qualche generale prestato all’industria bellica», dice il sindacato dei militari. «Le plurime e sempre più insistenti richieste di maggiori stanziamenti economici che sedicenti esperti e politici vanno sbandierando a destra e a manca per incrementare il già grasso bilancio della difesa, che nel 2021 ha superato i 28 miliardi di euro, appaiono chiaramente dettate dagli interessi che ruotano attorno all’industria bellica e non da quelli dei cittadini italiani o europei che ancora più di ieri soffrono gli effetti di una crisi globale.

Non è difficile comprendere che aumentare la spesa militare è un errore. Per farlo basta leggere con attenzione l’ultimo documento programmatico pluriennale per la Difesa per il triennio 2021- 2023. Anche il lettore più distratto capirebbe immediatamente che le nostre forze armate non sono al servizio del Paese ma bensì dell’industria bellica che quest’anno riceverà dal bilancio della Difesa risorse oltre 7.650 milioni di euro, con un incremento di oltre 830 milioni di euro rispetto al 2021».

A supporto delle dichiarazioni del sindacato è possibile osservare le voci principali che compongono la spesa militare previsionale italiana per il 2022: ancora una volta siamo di fronte ad un aumento legato in particolare a nuovi investimenti in sistemi d’arma con fondi che oltretutto vengono sempre più messi direttamente a disposizione della Difesa, mentre si riduce la quota parte destinata ad investimenti militari sul bilancio del ministero dello Sviluppo Economico.

Sui capitoli specificamente legati all’investimento troviamo poco oltre i 5,39 miliardi di euro (in crescita di ben 1,3 miliardi) al- locati nel Bilancio del ministero della Difesa e 2,89 miliardi complessivi (- 350 milioni rispetto allo scorso anno) in quello del ministero per lo Sviluppo Economico, che comprendono tra gli altri fondi anche 105 milioni per gli interessi sui mutui accesi dallo Stato per conferire in anticipo alle aziende le cifre stanziate per specifici progetti d’arma pluriennale.

Ciò porta dunque ad un nuovo record di fondi destinati all’acquisto di nuove armi che arrivano ad un totale di 8,27 miliardi, superiore di un miliardo (+13,8 per cento) alla cifra complessiva del 2021 (che a sua volta costituiva un massimo storico) e con un salto del 73,6 per cento negli ultimi tre anni (+3,512 miliardi rispetto ai 4,767 miliardi del 2019).

A questi dati, vanno aggiunte ovviamente le voci di bilancio che verranno incrementate dall’ulteriore aumento di spesa annunciato da Draghi. Il dettaglio è ancora ignoto. Su questo punto il ministro Guerini da noi interpellato ha così controbattuto: «La spesa militare non è semplicemente sovrapponibile a quella che riguarda gli armamenti, che ne rappresentano solo una parte, ma costituisce un fattore di crescita fondamentale per il Paese, assicurando gli indispensabili finanziamenti a programmi pluriennali di investimento per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’ammodernamento dei dispositivi. In sintesi la spesa militare è un investimento a 360 gradi sulla sicurezza del Paese nell’alveo delle consolidate relazioni con i partner europei e Nato».

Il ministro non ha però voluto rispondere su altri fondamentali punti, come il dettaglio della spesa futura, l’inferenza della Nato nelle politiche nazionali di Difesa e molto altro.

Schizofrenia politica

Sulle scelte nel campo della Difesa nazionale l’Italia non ha mai seguito una linea chiara e precisa. La schizofrenia della politica estera del nostro Paese rivela che negli ultimi venti anni abbiamo agito sull’onda dell’emotività. Ripercorriamo solo le ultime tappe di questa giostra geopolitica: prima abbiamo avuto un avvicinamento atlantico e totale asservimento agli Stati Uniti nell’epoca Renzi-Obama; poi ci siamo piegati alla Russia con i legami intercorsi tra il leader della Lega e allora vice-premier Matteo Salvini con Vladimir Putin; infine, per iniziativa dell’altro vice-premier nel 2019, Luigi Di Maio, l’Italia firma con la Cina il Memorandum d’intesa su Belt and Road Initiative che ci vedeva stringere patti con il Dragone sul commercio e sul 5G.

Oggi torniamo ad avere come stella polare gli Usa di Joe Biden con Mario Draghi che obbedisce agli ordini della Nato sulle spese militari. Per l’ennesima volta, dunque, il dibattito sul riarmo risente di un’influenza esterna che rischia di mettere a dura prova la tenuta del governo. La maggioranza si è spaccata in Senato con l’odg di Fratelli d’Italia – prima firmataria la senatrice Rauti – che faceva riferimento a quello “gemello” già approvato dalla Camera. Il testo del Decreto Ucraina è stato accolto dal governo senza alcuna riformulazione: favorevoli Pd, Italia Viva, Lega e Forza Italia.

FdI, anche se all’opposizione, ha deciso di non richiedere di mettere l’odg al voto. Contrari Leu e M5S. «È inaccettabile – commenta il Senatore pentastellato Gianluca Ferrara a TPI – che il governo abbia deciso di accogliere l’ordine del giorno di FdI. Del resto anche il ministro Guerini nel 2019 dichiarò che l’obiettivo del 2 per cento al 2024 è irrealizzabile, figuriamoci dopo la crisi economica causata dalla pandemia». Ferrara attacca poi la presidente della Commissione Difesa: «Roberta Pinotti non ha voluto metterlo ai voti. Di cosa ha paura? Forse dopo le parole di Papa Francesco temono che in molti abbiano un rigurgito di coscienza e si oppongano a questa scelta scellerata? Di cosa ha paura il Governo?». La senatrice Dem – come ci ha confermato lei stessa – non ha però potuto accogliere la richiesta di mettere ai voti l’odg in quanto in base al regolamento del Senato, «solo il ‘proponente’, quindi FdI – chiarisce Pinotti – può chiedere di mettere in votazione. Non ci sarebbe stato nessun problema ad andare ai voti, e lo avrei fatto se la senatrice Rauti non avesse espressamente detto che non voleva. Il Pd ha proposto di riformulare un odg che andasse incontro alle esigenze di tutti, ma il M5S nella persona di D’Inca non ha raccolto la disponibilità». Un dibattito destinato a durare, visto che l’aumento della spesa militare avrà conseguenze visibili nei prossimi dieci anni.

La grande scusa dell’Ucraina

«Abbiamo bisogno di difenderci. La guerra in Ucraina ci ha fatto comprendere come quella cautela mantenuta finora nell’arrivare al 2 per cento di spesa militare rispetto al Pil ci porti solo in una situazione di rischio», a sostenerlo è Massimo Artini, Deputato nella Commissione Difesa dal 2013 al 2018 e attualmente consulente per la Nato Communications and Information Agency (NCI Agency), che aggiunge: «Con gli armamenti in circolazione non abbiamo deterrenza in confronto agli altri Paesi. Il non essere pronti ci pone in pericolo rispetto per esempio alla Russia, che ha fatto un’invasione alla luce del sole».

Schierare le bombe il prima possibile e assecondare la Nato oggi per riuscire a difenderci da un nemico che si avvicina: è la stessa visione atlantista di Draghi. Peccato che i numeri non confermino questa visione. Non è vero che l’Europa è sprovvista rispetto a Putin. Ad oggi, la potenza militare della Nato è già enormemente superiore a quella dei suoi potenziali avversari geopolitici e le sue tecnologie belliche sono le più evolute del mondo. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana Pace e Disarmo evidenzia: «Dal 2015 in poi (cioè dall’occupazione del- la Crimea) la Nato in totale ha investito nei propri eserciti oltre 14 volte quanto fatto dalla Federazione Russa. Un’astronomica cifra di 5.892 miliardi di dollari contro 414 (cioè una differenza di quasi 5.500 miliardi).

Anche limitandosi all’Unione europea i dati indicano che i Paesi Ue (con Regno Unito considerato solo fino al 2019) hanno avuto una spesa militare combinata di oltre 3,5 volte quella di Putin: 1.510 miliardi di dollari, quasi 1.100 in più dei russi. C’è dunque bisogno di alzare la spesa militare?». La guerra in Ucraina diventa così la scusa perfetta per armare fino ai denti un intero continente e convincere i Paesi le cui popolazioni sono storicamente contrarie al riarmo – come la Germania e l’Italia – a considerarlo per la prima volta come necessario.

È la tesi sostenuta da Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal): «L’invasione russa – commenta – è stata usata come pretesto da Draghi. Non solo gli ucraini non avranno alcun beneficio dall’aumento dei budget militari dei paesi europei e della Nato, ma proprio la crisi Ucraina ha reso evidente come lo strumento militare sia totalmente inadeguato e sostanzialmente impotente quando si presenta il caso di difendere una nazione che viene aggredita.

La questione ucraina, semmai, dimostra come il “modello Nato” non rappresenti un fattore di sicurezza e di distensione nel mondo, ma sia percepito come elemento di preoccupazione e di tensione». Anche fonti qualificate del ministero della Difesa la pensano in questo modo: «Le conseguenze dell’aumento della spesa militare le vedremo dal 2024-2025. Ovvero non sono direttamente utilizzabili in Ucraina. Il conflitto aperto da Putin è la ragion di Stato perfetta per togliere ogni freno inibitore sull’acquisto di armi. E questo serve anche a prolungare la durata delle nomine politiche, come è stato per il segretario generale della Nato Stoltenberg.

Oggi si può dire con facilità: “Ti pare che adesso che siamo in emergenza guerra ci mettiamo a cambiare i vertici delle aziende della filiera degli armamenti?”». La filiera delle armi è proprio quella che riceverà nuova linfa vitale da questo aumento delle spese militari. «Stiamo salvando un settore intero – testimoniano a TPI le stesse fonti della Difesa – Ed è soprattutto vero per l’azienda italiana partecipata dallo Stato Leonardo Spa e per le aziende collegate, ovvero le piccole e medie imprese che fungono da sub-contractor. Soprattutto quelle che non si erano riconvertite in modo duale, ovvero per un uso sia militare che civile, come i satelliti o i droni. Le imprese che producono solo, per dire, cartucce, stavano perdendo commesse e clienti prima dell’annuncio dell’aumento della spesa militare».

“Sono i produttori di armi stessi a farcelo sapere: personale interno alla Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza (Aiad) ci ha chiaramente spiegato come «finalmente, con la guerra alle porte, sia caduto il velo della vergogna verso il riarmo e si siano sbloccati processi burocratici che avrebbero impiegato anni e anni». «Per noi aziende – ci dicono – adesso con le bombe che cadono su Kiev è molto più facile spiegare che non serve impiegare i soldi pubblici per costruire asili nido, se prima non possiamo difendere militarmente quelli che già abbiamo».

Chi si spartisce il bottino

A spartirsi i fondi europei del Programma per lo sviluppo industriale della difesa (Edidp) dal budget di 500 milioni di euro spalmati in due anni (2019 e 2020) sono solo pochi Paesi: la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna. Questi quattro Stati sono anche i principali azionisti delle cinque compagnie militari che hanno ricevuto la maggior parte dei finanziamenti: la Airbus Group SE (creata dalla fusione avvenuta tra la tedesca DaimlerChrysler Aerospace, la francese Aérospatiale-Matra e la spagnola Construcciones Aeronáuticas SA; l’italiana Leonardo (per il 30 per cento partecipata dallo Stato); Thales e Dassault Aviation, entrambi gruppi francesi; e infine l’azienda spagnola Indra Sistemas.

Queste compagnie sono coinvolte in più di metà dei progetti sovvenzionati (il 75 per cento del totale dei finanziamenti di Edidp, ovvero 480 milioni di euro) e nei più costosi. Secondo i dati del consorzio Investigate Europe, dei 41 progetti finanziati da Edidp, le aziende francesi partecipano a 33, quelle spagnole a 32, quelle italiane a 25 e quelle tedesche a 20.

Su 302 aziende che hanno beneficiato dei soldi di Edidp le “cinque sorelle”, in diverse combinazioni e con anche altre compagnie, compaiono in 23 progetti su 41, per un valore di 363 milioni di euro. Si potrebbe presumere una concorrenza spietata tra queste cinque compagnie. E invece l’industria bellica europea è come una ragnatela dove aziende tra loro competitor hanno quote incrociate (vedi grafico a pagina 17). Airbus possiede una parte di Dassault, che possiede una parte di Thales, che a sua volta ha quote di altre aziende (come ad esempio Edisoft in Portogallo eNaval Group in Francia). Thales possiede parti di Telespazio e Elettronica insieme a Leonardo (che possiede parte di Hensoldt in Germania).

Questi sono solo alcuni esempi di quanto le aziende che ricevono i soldi dell’Ue siano interconnesse. Le “cinque sorelle delle armi” non solo sono di proprietà parziale degli Stati. Tra i loro azionisti c’è una lunga lista di fondi d’investimento americani, come Boeing, Lockheed Martin, Raython Technologies, General Dynamic e Northrop Grumman. Qualche esempio dei legami che intercorrono? BlackRock possiede percentuali di Airbus, così come di Leonardo, Thales, Indra Sistemas e Dassault. Per quanto riguarda le compagnie statunitensi loro concorrenti, lo stesso fondo possiede percentuali di Boeing, Lockheed Martin, Raytheon, Northop e General Dynamics. La situazione di altri fondi d’investimento Usa come Capital e Vanguard è simile: tutti possiedono delle percentuali di diverse aziende europee produttrici di armi, così come di loro concorrenti negli Stati Uniti.

Pace con le armi

Il punto di forza delle compagnie militari – come sottolinea Andrea Pantarella di Archivio Disarmo – è la loro forte attività di lobbying: fin dall’inizio, infatti, hanno avuto una fitta presenza nei gruppi che hanno plasmato le politiche per la difesa della Commissione europea.

Nel 2015, la Commissione ha creato il Gruppo di personalità sulla ricerca nella difesa (GoP) con 16 membri. Sette erano rappresentanti dell’industria bellica (Airbus Group, Bae systems, Finmeccanica – nome precedente di Leonardo -, Mbda, Saab, Indra e Asd). Due membri rappresentavano gli istituti di ricerca privati che si occupavano di ricerca militare (Tno e Fraunhofer-Gesellschaft). La società civile non era rappresentata e neanche il mondo accademico. La conclusione del report del GoP sollecitava l’Ue a «rafforzare l’intera struttura militare europea» e a finanziare l’operazione con 3,5 miliardi di euro alla ricerca militare. Raccomandazione ripresa in toto nell’European Defence Action Plan del 2016. D’altronde, che l’intento europeo verso la pace e la cooperazione sia molto contraddittorio lo sottolinea il nuovo strumento legislativo creato nel 2021: lo European Peace Facility (Epf ). Nome ingannevole perché i due fronti sui quali sta operando sono «armi e missioni europee all’estero».

Missioni che – come quella in Mali avviata nel 2013 – hanno spesso portato solo guerre e migrazioni forzate. L’invasione russa dell’Ucraina ha velocizzato le operazioni. Il Peace Fund nasce da un progetto pensato nel 2014. Federica Mogherini era Rappresentante per gli Affari esteri europei, la Russia invadeva la Crimea e Trump cominciava la sua scalata politica. Il fondo ha una dotazione di 5,7 miliardi nel Bilancio 2021-2027. Ecco come funziona: la decisione sul «supporto finanziario, tecnico o materiale» in teatri di guerra va presa all’unanimità dal Consiglio Ue, gli Stati organizzano l’invio di armi o uomini e poi l’Ue rimborsa. Il monitoraggio spetterebbe ai singoli Parlamenti, che però hanno già un controllo molto blando dell’export di armi nazionali. In questo modo, con una sola operazione, da una parte si è aggirato l’articolo 41 del Trattato europeo – che vieta all’Ue di partecipare alle guerre – dall’altra si è tagliato fuori dal controllo-trasparenza il Parlamento europeo, visto che si tratta di un affare tra governi.

L’Europa si riarma

Non si sta riarmando solo l’Italia, ma tutto il Vecchio Continente. Con una dichiarazione che ha rivoluzionato la linea tedesca in materia di Difesa mantenuta fino ad oggi, il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato che la Germania stanzierà 100 miliardi di euro nel bilancio di quest’anno per rafforzare e ammodernare il suo esercito. Nel 2021, il budget dedicato alla difesa era stato di 47 miliardi, pari all’1,53 per cento del Pil. Anche in Francia, dopo l’invasione, Macron in piena campagna elettorale in vista delle presidenziali del 10 aprile ha ufficializzato di alzare ulteriormente le spese militari, oltre all’aumento già previsto fino a 50 miliardi di euro all’anno (contro i 41 del 2022). E in Svezia e Finlandia – tra i vicini più prossimi alla frontiera russa – oltre alla questione dell’aumento delle spese militari, nel dibattito pubblico c’è l’ipotesi di un’adesione alla Nato: una possibilità che fino a pochi mesi fa sembrava essere fuori dall’orizzonte.

In Finlandia, il budget per la difesa, attualmente all’1,96 per cento del Pil, sarà sicuramente aumentato nel 2022, nell’ordine di 360 milioni di euro. Il governo di Helsinki pensa inoltre di richiamare quest’anno 25 mila riservisti, e a dicembre 2021 ha siglato un accordo da 10 miliardi per l’acquisto di 64 aerei da combattimento Lockheed Martin F-35A Lightning II fighters. Ma è la Grecia, col 2,8 per cento del Pil, lo Stato europeo che più spende per la Difesa.

Insomma, altro che sogno della Difesa comune europea. Ogni Stato si sta riarmando singolarmente, spendendo miliardi e miliardi di euro. La corsa alle armi sembra essere per tutti la risposta giusta di fronte alle crisi internazionali. Di certo la più semplice di fronte all’opinione pubblica. Una risposta che per ora non ha dato mai risvolti positivi, ma che sembra incontrare il favore di molti: la lobby degli armamenti, la Nato, i politici che hanno le carriere assicurate.

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