Genitori sull’orlo di una crisi di nervi: cosa succede se crollano mamma e papà
Costretti dalla società di oggi ad essere sempre performanti, gli adulti non sanno accettare le aspettative tradite né gli errori fisiologici dei figli. E di fronte alle difficoltà dei teenager vanno nel panico. Smarriti, fragili e incapaci di ascoltare, invece di essere un porto sicuro, madri e padri rischiano di diventare zattere in balìa della tempesta. L'approfondimento sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 18 novembre
«La crisi di oggi è quella degli adulti, non dei nostri figli». Sono le parole che lo scrittore Daniele Mencarelli, che si è aggiudicato il Premio Strega Giovani nel 2020 con il romanzo Tutto chiede salvezza (Mondadori), ha utilizzato durante un’intervista uscita alcune settimane fa sul quotidiano Il Foglio. Dal romanzo di Mencarelli è stata tratta l’omonima serie televisiva di sette episodi, con la regia di Francesco Bruni. La serie, pubblicata il 14 ottobre 2022 su Netflix, racconta l’esperienza di Daniele, un ventenne che si risveglia in reparto psichiatrico contro la sua volontà, e i giorni successivi al trattamento sanitario obbligatorio. Le trasformazioni dell’adolescenza e della prima giovinezza, il disagio mentale, l’importanza della “cura” come «un’azione quotidiana fatta di gesti fulminei che accadono improvvisi in un preciso momento» sono i temi centrali della serie e del romanzo.
E ci spingono a interrogarci oggi sulla fragilità degli adolescenti, ma anche dei loro genitori. Petra Visentin, psicologa clinica, psicoterapeuta sistemico – relazionale e mediatore familiare e dei conflitti relazionali, si dice d’accordo con la lettura di Mencarelli per cui la crisi dei figli adolescenti non si limita a loro, ma riguarda anche direttamente lo smarrimento degli adulti. «È quello che tocco con mano tutti i giorni con l’esperienza clinica, facendo attività di supporto alla genitorialità e lavorando anche con gli adolescenti», spiega la dottoressa contattata telefonicamente da TPI. «Soprattutto dopo la pandemia, ho notato che sono aumentate le problematiche per gli adolescenti, come i disturbi d’ansia, i gesti di autolesionismo, il ritiro sociale, ma parallelamente mi trovo ad affrontare anche lo smarrimento dei genitori. Vedo una grande fragilità, una difficoltà nel supportare la crescita dei figli». Visentin aggiunge: «La società in cui viviamo oggi ci mette molto alla prova, anche dal punto di vista genitoriale, chiedendoci di essere sempre performanti. I genitori con cui mi relaziono oggi sono sicuramente molto più informati rispetto a una volta. Partecipano alle serate formative, ai classici corsi per genitori, leggono libri, si documentano. Però poi nella pratica fanno fatica a sostenere la relazione con i figli», dice. «C’è pochissimo ascolto e accettazione della diversità di un figlio rispetto a quelle che potevano essere le aspettative. Non viene messo in preventivo che ci possa essere un ostacolo, una problematica, ma si cerca sempre di avere il figlio perfetto. Così si esercitano delle pressioni, e quando i figli non rispondono a queste aspettative, si innescano delle dinamiche che possono essere difficili da sostenere per un adolescente».
«Più che in crisi direi che gli adulti sono fragili. Hanno il desiderio, come tutti i genitori, di crescere nel miglior modo possibile i propri figli. Lo fanno in un contesto che ha reso molto più complesso il compito educativo del genitore». Alberto Pellai è medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il dipartimento di Scienze biomediche dell’Università degli Studi di Milano. È autore con Barbara Tamborini del bestseller L’età dello tsunami. Come sopravvivere a un figlio pre-adolescente (DeAgostini, 2017). «Intanto l’ambiente in cui cresciamo i figli è molto complesso, spesso non a loro misura, e sollecita tutta una serie di desideri, esperienze, stili di vita, modelli e attitudini che non rispondono ai bisogni di crescita reali dei nostri figli. C’è poi la complessità di dover crescere i figli dentro due vite, spesso in contrapposizione tra loro: la vita reale e quella virtuale. E infine c’è molta più solitudine, isolamento. È come se fosse venuta meno la rete di sostegno, auto-aiuto, solidarietà reciproca con cui il mondo adulto in qualche modo ha sempre corrisposto bene al principio: “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Parlo della famiglia, della scuola, della parrocchia, ad esempio. In questo momento, invece, tante famiglie si sentono davvero molto sole».
«Direi però che la difficoltà dei genitori nell’ascolto è quella con la “D” maiuscola», sostiene Pellai. «Ascolto non vuol dire solo: “Recepisco le parole che mi dici”; ma: “Sono sintonizzato con te: vedo chi sei, dove stai andando, comprendo cosa mi stai chiedendo, vedo il senso delle tue parole al di là di esso e comprendo il significato simbolico di molte delle cose che ti stanno accadendo, che stai facendo o che stai dicendo”. È una dimensione complessa e, come dice Mencarelli, significa avere cura della relazione, e soprattutto sentirsi responsabili della relazione educativa in quanto adulti. Invece, paradossalmente, oggi abbiamo adulti che vorrebbero essere ascoltati dai loro figli, che dentro alle loro crisi personali, matrimoniali, dicono ai figli: “Ma tu perché non mi capisci? Stammi a sentire che ti racconto cosa mi sta accadendo”. Una totale inversione dei ruoli. Qui ritorna un’immagine di fragilità, dove l’adulto non è quel portatore di autorevolezza educativa e di stabilità che rende sicura la crescita dei figli, che dovrebbero vederlo come porto sicuro. Siamo tutti zattere in balìa di una tempesta».
«Le parole di Mencarelli sono un po’ critiche secondo me», dice Francesca Vecchione, psicologa psicoterapeuta ad indirizzo sistemico-relazionale. «Da quello che vedo tutti i giorni nello studio c’è sicuramente una crisi dei genitori, però dal mio punto di vista questo non dovrebbe portare a un atto di accusa nei confronti degli adulti. La loro è proprio una difficoltà a relazionarsi con i ragazzi».
«Quando i genitori vedono che il figlio sta male – almeno, la maggior parte dei genitori – entrano un po’ nel panico», spiega la dottoressa. «Logicamente si preoccupano e vorrebbero far star bene subito il ragazzo: è proprio un bisogno di “fare”, di tirar fuori il figlio dalla situazione in cui si trova, liberarlo dal dolore. Ma questo è un circolo vizioso in cui spesso si cade: da parte degli adolescenti c’è semplicemente la voglia di essere accolti nel loro star male, che fa parte ovviamente della loro fase di crescita. È normale che in adolescenza ci siano dei momenti di crisi. Avrebbero semplicemente bisogno di essere ascoltati da qualcuno che stia loro accanto, e che capisca che possono essere tristi, arrabbiati, star male».
Cosa dire quindi a un genitore che si trova in questa situazione? «Di solito quello che sento di condividere con i genitori è di fare un passo indietro: fermarsi, osservare e ascoltare. Da qui si parte insieme per costruire una nuova comunicazione, una nuova relazione, anche eventualmente per trovare quel che è più adatto al ragazzo per uscire dalla situazione in cui si trova. Ciò che bisogna capire è che non è necessario che l’adolescente stia subito bene, ma che sappia che il genitore è lì per lui. Anche se molto spesso i più giovani non se la sentono di condividere con gli adulti il loro stato, magari perché non sanno neanche spiegare a parole quello che stanno vivendo, devono però sapere che c’è qualcuno su cui possono contare, e che soprattutto non si spaventi del loro star male».
Vecchione sottolinea l’importanza della “funzione di rispecchiamento” del genitore. «Vuol dire essere in grado di rispecchiare lo star male del ragazzo. Equivale a dire: “Vedo che in questo momento stai soffrendo, ti capisco e sono qui per te”. Dopotutto, più che saper fare, l’importante per un genitore è saper esserci. E questi ragazzi hanno sostanzialmente bisogno di essere visti, di sapere che il loro dolore non viene minimizzato, che possono concedersi di avere dei momenti difficili. E che non sono soli in questo».
La conseguenza di queste difficoltà è che il genitore si sente sempre più spesso insicuro e inadeguato. «Vorremmo che i nostri figli fossero sempre al meglio, che fossero sempre felici. Facciamo di tutto per garantire loro una dimensione che immaginiamo a loro misura, accontentando le loro richieste, i loro desideri», spiega Pellai. «Vorremmo averli sempre al top, in modo da sentire che sia loro che noi siamo al posto giusto nella vita. Ma imparare davvero a stare al mondo non vuol dire assolvere a questo genere di obiettivi e di funzioni: è l’esatto contrario. Bisogna imparare a tollerare la fatica, l’errore, la sconfitta, a sentirsi imperfetti. Sapersi vedere anche come genitori fragili o vulnerabili, e sentire che le altre figure educative diventano un sostegno e un aiuto con cui confrontarsi. Dentro la dimensione della fragilità, invece, vederci messi di fronte agli sbagli dei nostri figli ci fa venire il terrore che stiamo crescendo figli sbagliati e che, di rimando, anche noi siamo genitori sbagliati».
Secondo Pellai, l’obiettivo principale per un adolescente «è uscire dal copione dell’obbedienza ed entrare in quello dell’autonomia». In questo contesto, «l’errore più grande di un genitore è quello di immaginare che un figlio adolescente continui a funzionare come un bambino che stava bene nel territorio dell’obbedienza. Sostenere invece l’autonomia di un figlio vuol dire imparare a mantenere la giusta distanza, diminuire la dimensione dell’iper-protezione, permettere ed ammettere che i figli facciano errori. Quindi essere lì pronti nel terreno della riparazione. Essere una risorsa che fa crescere, e non una risorsa che controlla la crescita».
Quel che dovrebbe fare il genitore di un adolescente, secondo Pellai, è invece «lasciare spazio». «Ciò non vuol dire soltanto dare spazio, ma anche fare spazio nella loro vita a quel bisogno di autonomia che credo sia una difficoltà in questo momento dell’intera società, non solo del genitore. Oggi non abbiamo delle comunità che fanno spazio ai bisogni di autonomia dei ragazzi e delle ragazze. Tant’è che poi alla fine loro stanno chiusi in spazi ristretti – le loro stanze – o negli spazi virtuali, dove mettono in gioco molti dei loro bisogni, in un contesto che non li allena davvero all’adultità».
Come deve comportarsi dunque l’adulto rispetto al mondo virtuale? «Deve essere davvero un modello su cosa vuol dire usare le tecnologie come uno strumento per la propria vita, e non farle diventare la vita stessa, in cui gestiamo gran parte dei nostri bisogni», prosegue l’esperto. «Questo è un compito che prima di tutti riguarda noi adulti. Essere davvero buoni esempi. E poi bisogna costruire per la famiglia un progetto educativo intorno alle tecnologie, dove la capacità dell’adulto è quella di stabilire quali sono i limiti, i tempi della giornata in cui possiamo tutti insieme imparare a farne a meno, mantenere fortissimo il desiderio per la vita reale piuttosto che per la vita virtuale ed essere un continuo sostenitore e promotore delle relazioni reali invece che di quelle virtuali. Se tutto questo è chiaro alla mente dell’adulto, il progetto educativo che viene proposto ai propri figli tiene conto di questi aspetti e in qualche modo li modella in questa direzione, che è funzionale ai bisogni in età educativa, e non disfunzionale».
Le difficoltà dei genitori non sono provocate solo dai nuovi elementi che riguardano oggi i ragazzi, come il rapporto coi social, ma sono anche legate ai problemi di questa generazione di adulti. «L’essere genitori non significa solo rispondere ai bisogni primari dei propri figli, ma anche rappresentare una sorta di guida, sostenendoli nei diversi aspetti che caratterizzano il loro percorso di crescita», spiega Visentin. «La genitorialità prevede una sorta di percorso ad ostacoli, dove appunto gli obiettivi, man mano che i figli crescono, devono essere in qualche modo concordati, condivisi. E dove io, come genitore, sono continuamente chiamato a misurarmi rispetto a dei cambiamenti che possono essere sia personali sia educativi. Questo si fa fatica a vederlo oggi. Si è molto presi dal fare, dal riempire il tempo, e quindi si fa fatica a dire di no ai propri figli, a dedicare loro del tempo, perché siamo presi da mille impegni, dal nostro modo di vivere».
«Essere genitori oggi è decisamente più complicato rispetto a quanto lo era venti o trenta anni fa», concorda Pellai. «Anche perché è davvero enorme il lavoro di una parte del mondo adulto che non si occupa di genitorialità, ma di mercato e profitto, e che quindi entra nelle vite dei nostri figli non interessato ai loro bisogni reali di crescita, ma – un po’ come il gatto, la volpe e Lucignolo – è interessato esclusivamente a vedere il profitto che possono portare: vede in loro solo dei Pinocchi molto maldestri nei loro movimenti nella vita. Quella vulnerabilità viene agganciata e indirizzata verso obiettivi che non sono utili ai minori ma solo ai bisogni di guadagno del mondo adulto. E invece dovrebbe essere proprio il contrario. Qualsiasi persona adulta dovrebbe vedere in chi cresce un soggetto da sostenere e tutelare rispetto a tutti i suoi diritti, e non da sfruttare».
«Di sicuro i nostri figli fanno il possibile per poi compiere il loro progetto e il loro percorso verso l’adultità, ma al tempo stesso non è così facile per loro diventare migliori di noi, se tutto è così frammentato e fluido», conclude Pellai. «Penso proprio che il percorso dell’adolescente sia imparare a capire davvero chi si vuole diventare e come si vuole essere. Ma come possono imparare ad acquisire la stabilità, se il mondo che li circonda è dominato da un’instabilità molto potente?».
Uno degli strumenti che la dottoressa Visentin ha messo a disposizione delle famiglie che segue è il parent coaching, una delle applicazioni del Coaching che negli stati Uniti ha particolare successo, ma che in Italia è di recente applicazione e, al momento, si sta principalmente sviluppando nel mondo delle aziende (Business Coaching, Team Coaching, Corporate Coaching). «Spesso i genitori che arrivano da me chiedono delle ricette magiche», spiega Visentin. «Vogliono sapere cosa fare, come comportarsi, ma non esiste alcuna risposta preconfezionata. Ogni famiglia è unica e ognuno deve trovare dentro di sé quali possono essere le risposte migliori. Per questo diventa fondamentale secondo me, soprattutto in questo periodo storico, lavorare molto sul sostegno alle famiglie e alla genitorialità».
La dottoressa spiega che il parent coaching non è un percorso terapeutico. Non si lavora in termini di parent coaching laddove c’è un disturbo psicologico – come un disturbo alimentare o una depressione – però questo metodo può essere utilizzato nel caso in cui ci siano problemi che riguardano le routine quotidiane, come le comunicazioni inefficaci, le problematiche sociali legate all’uso dei social, al bullismo, o alla gestione della rabbia. «Al centro del percorso c’è la coppia e si lavora molto sulle competenze genitoriali», spiega Visentin. «Si cerca di capire quale può essere la difficoltà che in quel momento sta vivendo il genitore, e di porsi un obiettivo rispetto a quella difficoltà. Poi il professionista aiuta il genitore a raggiungere quell’obiettivo. È un metodo molto pratico, tramite il quale si crea un vero e proprio piano d’azione da seguire. Permette di migliorare gli strumenti di comunicazione con i figli, e mitigare la possibilità di rapporti conflittuali».
Il genitore si trova in questo da subito a lavorare su se stesso. «Si puntano a incrementare le capacità di ascolto e comprensione. E si stabiliscono le proprie priorità, ma anche quelle del figlio. Sulla base di questo si prova a trovare le strategie migliori per risolvere eventuali conflitti e per affrontare i cambiamenti che l’adolescenza comporta, non solo per il ragazzo, ma per tutta la famiglia. In fondo, ogni genitore sa già qual è la cosa migliore da fare: il professionista dovrà solo aiutarlo a riconoscerla per arrivare a trovare la risposta dentro di sé».