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Home » Cronaca

Tutti i dubbi sul gender fluid: le risposte di due psicoanalisti

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In Italia stiamo assistendo a un aumento di persone transgender che si rivolgono a centri dedicati: un incremento pari al 1500 per cento negli ultimi 10 anni. Maggiori richieste e a un’età media progressivamente più giovane. Questo andamento potrebbe essere spiegato dalla facilità di accesso e disponibilità di informazioni anche tramite internet e social. Inoltre, anche il riconoscimento di identità non binarie e la possibilità di interventi parziali ha spinto più persone a chiedere assistenza laddove prima probabilmente non si sentivano riconosciute. La questione è complessa e molti sono gli interrogativi ancora da sciogliere, per questo ne abbiamo parlato con:

• Vittorio Lingiardi / psichiatra e psicoanalista, Professore ordinario di Psicologia dinamica alla Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma e presidente della Society for Psychotherapy Research-Italy Area Group (SPR-IAG)

• Lorena Preta / psicoanalista Membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e Full Member dell’International Psychoanalytical Association.

Cosa ne pensa della “paura della trasformazione completa”?
LINGIARDI: Come psicoanalista mi avvicino alle storie personali come a storie uniche. Quindi la risposta più spontanea è che penso che quella è stata la sua scelta, la sua costruzione individuale del genere. Parlando più in generale, se una volta l’approccio al genere era più binario, anche nell’esperienza trans, con una stazione di partenza (il sesso assegnato) e una d’arrivo (il sesso sognato), oggi ascoltiamo storie più articolate in cui ciascuno decide quando e quanto coinvolgere la propria anatomia sessuale. Un tempo, anche giuridicamente, si parlava di piccola o grande soluzione. Per molte persone la cosa più importante è l’adeguamento anagrafico, per esempio, al di là di quello anatomico. Per altre è rimanere in una condizione di transizione continua, senza una finale destinazione binaria. È evidente che in un percorso come quello della costruzione del genere, le implicazioni personali, la propria storia, il proprio immaginario, sono fondamentali e irripetibili.

PRETA: La “paura” per un’operazione in cui si perde una parte del corpo avuta fino a quel momento e che evidentemente continua a rappresentare qualcosa di appartenente alla propria percezione profonda di sé e alla propria storia è assolutamente comprensibile. Quello di Luxuria è piuttosto coraggio nel vivere la sua condizione, senza paura di giudizi esterni. Bisogna essere cauti nell’affrontare un cambiamento totale con interventi definitivi e spesso pericolosi. C’è una tendenza ad “agire” sul corpo che a me sembra una cosa da considerare. La paura non è quella di Luxuria, ma quella culturale di sopportare l’ambiguità sessuale.

Esiste uno “spazio terzo” dove non essere né uomo né donna?

LINGIARDI: Ripeto, esiste nella possibilità di ciascuno di trovare/costruire la propria dimensione nella gender assembly, per usare una fortunata espressione della psicoanalista Adrienne Harris. Certo un approccio binario è cognitivamente più semplice e, per certi aspetti “rassicurante”. È la dimensione dell’aut-aut: maschio o femmina, bianco o nero, etero o omo, e così via. Identità nette, polarizzate. Non esiste però una sola identità trans: le vite che si raccolgono sotto questo termine ombrello sono varie e articolate. Ci sono persone che si identificano con un genere che non corrisponde a quello assegnato alla nascita, altre che non si riconoscono nel binarismo maschio-femmina, altre che non si identificano in alcun genere (agender). Identità trans, incongruenza di genere, genderfluidità, genderqueerness, sono esse stesse etichette in transizione. Direi poi che dove posizionarsi e riconoscersi, anche transitoriamente, dipende dalla propria organizzazione psichica, che comprende anche ma non solo l’identità di genere. La nostra libertà di movimento, il nostro “gradiente di genere”, è proporzionale alle capacità ritmiche, integrative e relazionali del nostro sé. Questo “spazio terzo” di cui lei parla è una partita “creativa” con la propria identità o è invece uno spaesamento, un esilio, un’attesa? Io credo che la psiche abbia bisogno di una stabilità identitaria. Ma stabilità non è rigidità, e ritengo che il dialogo con il proprio genere, la sua espressione, sia una dimensione importante del rapporto con se stessi e con gli altri. Per usare un’espressione cara agli antichi alchimisti, credo nel “solve et coagula”: attenuare la rigidità identitaria, ma anche solidificarne la volatilità eccessiva. Imparare ad abitare se stessi.

PRETA: Psicologicamente esiste più che uno spazio terzo una bisessualità, contemplata anche dal discorso psicoanalitico. E’ qualcosa che fa parte della struttura psichica e sulla quale l’individuo “lavora” psicologicamente e culturalmente tutta la vita. Per adattarla ai propri desideri, per tendere verso un orientamento sessuale invece che un’altro o mantenerli entrambi, o per estrapolare dalla definizione “comportamentale” che nella società è prevista per un genere o un altro, quello che ritiene più adeguato a rappresentarlo. Nulla è scontato in questo processo ma tutto è una conquista che avviene nella mediazione tra l’immaginario soggettivo e quello sociale. Un apparato complesso che unisce orientamenti soggettivi, biografie personali, fantasmi inconsci individuali e cultura di gruppo. L’individuo non è isolato ma si “forma” fin dall’inizio in un contesto sociale che gli rimanda modalità di comportamento e sentimenti di sé in un groviglio complesso che non si può annullare.  

Parliamo ora dell’adolescenza. Perché sempre più giovani si definiscono fluidi?

LINGIARDI: La fluidità di genere dei nostri adolescenti – e per molti di loro una conclamata disforia – è un fenomeno in crescita: una generica non-conformità di genere in adolescenza oggi è stimata dall’1% al 3,5% della popolazione generale e la richiesta di intervento da parte di centri specializzati in disforia di genere in infanzia e adolescenza vede tassi di incremento pari al 1500% negli ultimi 10 anni. C’è un altro dato peculiare: se un tempo la stragrande maggioranza dei casi riguardava transizioni da maschio (alla nascita) a femmina, cioè MtF, negli ultimi anni il trend si è invertito e sono più frequenti le richieste di transizione da femmina (alla nascita) a maschio, cioè FtM. La pubertà rappresenta comunque un’età-soglia oltre la quale solo una minoranza (circa il 20%) degli adolescenti con incongruenza di genere manterrà un’identità non conforme. Per la maggior parte diventeranno adulti cisgender omosessuali (60%) e un’altra piccola parte adulti cisgender eterosessuali (20%). Questi ultimi due gruppi sono definiti desisters, cioè individui in cui la disforia di genere scompare o significativamente diminuisce dopo la pubertà. Di converso, gli adulti in cui l’incongruenza di genere continua anche dopo lo sviluppo puberale sono definiti persisters. Non è ancora possibile indicare con affidabilità quali fattori predicano la desistenza o la persistenza. La fluidità in adolescenza può essere anche un modo “indiretto” per fare i conti con il proprio orientamento sessuale. In un momento di ripensamento collettivo dei generi, tra vere opportunità e false partenze, gli attuali spaesamenti adolescenziali possono, caso per caso, riflettere creativamente il bisogno di sperimentare, contraddirsi, integrare parti inesplorate di sé. Ma spesso vediamo adolescenti disorientati, vittime sia di vite fintamente liberate da banalizzare sul web sia di vite realmente devastate da stereotipi sessisti di prepotenza binaria che contrappongono mascolinità del dominio e femminilità della dipendenza.

PRETA: E’ proprio nell’adolescenza che si vive una tempesta ormonale e psicologica. E’ il periodo della definizione identitaria, turbolento, confusivo che necessita di grande attenzione. Le identificazioni e le proiezioni sono massicce, le esigenze della crescita portano a separazioni a volte espulsive delle figure genitoriali o a unioni simbiotiche regressive che non consentono un distacco e una definizione di sé in tutti i sensi anche quello di genere sessuale. In un periodo come quello attuale certo è più difficile avere dei riferimenti a cui ancorarsi per la crescita. La velocità dell’informazione, la labilità delle relazioni, il passaggio non ancora maturato ed elaborato delle modalità di rapporto uomo-donna nella società degli adulti, cioè nel mondo dei genitori ma anche in quello lavorativo e tante altre caratteristiche ora lunghe da elencare, forse hanno creato il mito della possibilità di cambiare sia nel corpo che nella mente con più libertà di quella in realtà possibile, senza fare i conti con lo scontro ancora in atto tra i sessi e le generazioni, tra un sentimento di onnipotenza e il senso del limite che pure questa cultura sembra inviti a varcare.

Se si dovesse presentare da lei un ragazzo o una ragazza intorno ai 15 anni che vuole operarsi per cambiare sesso, cosa le direbbe?

LINGIARDI: Per prima cosa ascolterei. Una storia, la sofferenza, i progetti, le paure, le esperienze, il lutto per ciò che si perde e l’investimento in ciò che si acquisisce. Ascolterei a lungo prima di dire la mia. Sapendo che l’ascolto empatico è uno strumento profondamente terapeutico. Poi costruirei un dialogo e un confronto. Cercherei di individuare le diverse componenti – costituzionali, familiari, sociali – che portano alla richiesta di transizione. E naturalmente non mi limiterei all’ascolto del disagio rispetto al genere, darei spazio a una valutazione complessiva dello stato psicologico del ragazzo o della ragazza e del suo sistema familiare, che verrebbe coinvolto nella consultazione. Ma in questo percorso che gli anglosassoni definiscono watch and wait, mai farei mancare la mia disponibilità a pensare che se la strada sarà quella della transizione, bene, quella strada andrà imboccata.

PRETA: Io sono una psicoanalista e il mio strumento è l’indagine e la cura della psiche. Cercherei di capire quali fantasmi ci sono dietro questo vissuto. Non si può fare finta che sia un dato di fatto, di cui solo lui o lei devono rispondere. E’ un complesso di situazioni personali, famigliari e socio-culturali. Un “multistrato” di cui bisogna tenere conto. L’unico atteggiamento o metodo che io ritengo necessario è quello della “problematizzazione”: cioè queste situazioni sono terribilmente difficili e non possono essere risolte con delle mere azioni sul corpo, né con dei conformismi sociali che portano ad accettare soluzioni drastiche senza affrontare con tutto il tempo possibile a disposizione la complessità che le determina. Un tempo lungo non solo per l’individuo che porta il problema ma anche e ancora di più per la cultura che deve elaborarlo. Mentre ora siamo più pronti ad accettare le famiglie omoparentali per esempio (perché il gruppo sociale ha lavorato molto e ci sono alcune risposte ai dubbi e alle domande), sulla fluidità e sulla transizione c’è ancora molto da fare. Ma nulla di tutto questo è indolore, nessun trionfalismo è possibile perché è tutto molto difficile e sofferto. Tutti fino alla fine avremo sempre il problema di ricercare le nostre origini e di confrontarci con i fantasmi inconsci che sono in maniera ineludibile alla base della nostra vita psichica. 

Esiste un farmaco che blocca la crescita ormonale. Secondo lei è una buona opzione?

LINGIARDI: Vi sono Paesi, come l’Olanda e la Gran Bretagna, dove sono previsti (e legali) protocolli terapeutici per la disforia di genere prima dei 18 anni con ormoni bloccanti la pubertà e ormoni cross-sex, come anche suggerito, ovviamente nei casi adeguatamente diagnosticati, dalle linee guida degli Standards of Care del WPATH (World Professional Association for Transgender Health). In molti casi sono fortemente richiesti sia dai/dalle giovani pazienti, sia dalle loro famiglie, quando la condizione di incongruenza di genere produce una sofferenza psichica intollerabile. L’idea è quella di sospendere lo sviluppo sessuato in modo da dare una “tregua” e uno spazio di maturazione e ponderare bene i passi successivi della cura, arrivando tra l’altro alla transizione con un corpo non troppo genderizzato e quindi meno traumatizzante sul piano psichico. L’aspetto fondamentale è sempre quello diagnostico, l’attenzione, la cura e la competenza con cui si formula la diagnosi e dunque, inevitabilmente, la terapia.  

PRETA: Questo secondo i medici che lo prescrivono, permette ai ragazzi di stare dentro una specie di limbo per cui una volta più grandi arrivati all’età in cui si può intervenire e operare la transizione lui o lei decidono. Bisogna considerare però cosa crea questo congelamento dell’adolescenza in un adolescente, non è così semplice vivere sospesi, può calmare apparentemente le ansie perché la definizione sessuale è rimandata, ma creare anche un’indefinitezza a volte ancora più difficile da sopportare e del tutto “artificiale”. Io penso che prima di agire in qualunque modo, bisogna capire non solo la reale situazione dell’adolescente, ma innanzitutto se c’è una cultura di gruppo che sostiene questo “agire sul corpo”.

Cosa comporta il fatto che la disforia di genere non sia più inquadrata come “patologia” nel Dsm?

LINGIARDI: Non è così. La “disforia di genere” (un tempo diagnosticata “disturbo dell’identità di genere”) è tuttora una diagnosi presente nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Che la definisce una «marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato, associata a una sofferenza clinicamente significativa». Il cambiamento è che l’ultima versione del Manuale, il DSM-5, rispetto alla precedente, sì la diagnostica ma anche la “depatologizza”. Mette l’accento non sul disturbo, ma sulla sofferenza e il disagio legati al sentimento di non appartenenza al proprio genere. Una volta compiuta la transizione, quindi rimossa la causa della sofferenza, la diagnosi “sparisce”. La “disforia di genere”, inoltre, è ancora considerata una diagnosi per permettere la transizione con la copertura dal servizio sanitario nazionale. Detto questo va ricordato che la letteratura scientifica ha chiarito che le identità trans* non sono realtà in sé patologiche e che disturbi coesistenti, se presenti, sono spesso legati a esperienze di vita traumatiche.

PRETA: Dal mio punto di vista è per i cambiamenti in atto della società che non è più una patologia. Ora queste cose le vediamo in maniera diversa, fanno parte delle scelte individuali. Fanno parte delle biografie di ciascuno. Da questo ad arrivare all’operazione come opzione sempre messa sul tavolo come possibile nell’orizzonte è una iper semplificazione. 

L’aumento della popolazione trans ha a che fare con un cambiamento culturale?

LINGIARDI: La dimensione del genere secondo me va letta sempre da tre vertici di osservazione: biologico, psicologico-ambientale, socio-culturale. È chiaro che la globalizzazione online delle esperienze, l’intreccio delle narrazioni, la crisi dei modelli tradizionali di genere e la possibilità, molto più di un tempo, di cercare se stessi, ma paradossalmente anche di perdere se stessi, è un fattore oggi determinante nella costruzione dei generi. Un buon clinico deve sapere come si organizzano, direi quasi come si “dosano”, tutte queste variabili e componenti nella vita di una singola persona alle prese con il proprio genere.

PRETA: Credo di sì ma vale per tutti i cambiamenti come dicevo prima, a meno che non si pensi a modificazioni genetiche dovute a qualche strategia dell’evoluzione. Certo però ora c’è anche più capacità di riconoscimento del disagio psichico, parallelamente però dal mio punto di vista, c’è una tendenza a negarlo semplificando per esempio nel caso dei trans l’origine psichica del fenomeno. Ma di nuovo è un problema anche culturale. Per esempio in India da tempi antichi ci sono luoghi in cui vengono accolte le persone che non si riconoscono nel loro sesso biologico originario e vengono inserite in una comunità, oppure basti pensare ai femminielli napoletani, che non solo sono accettati ma hanno un ruolo nella comunità. Situazioni comunque anche queste che andrebbero descritte accuratamente e osservate con attenzione perché estremamente complesse. Non per forza in ogni caso queste situazioni devono sfociare in qualcosa che riporti ad una situazione binaria. Ora invece sembra che ci si precipiti a “risolvere” l’ambiguità con un’operazione definitiva e un’azione drastica sul corpo.
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