Francesco Cassardo, l’alpinista medico che li aiuta davvero “a casa loro”
Lo scalatore italiano rimasto ferito in Pakistan è vivo
Francesco Cassardo – per tutti Cassi – è salvo. È precipitato per 500 metri in semi caduta libera da un costone del monte Gasherbrum VII, in Pakistan. Eppure, miracolosamente è vivo. Ha un’emorragia cerebrale in testa, ma è rimasto abbastanza lucido per rendersi conto della gravità della situazione. Ha chiesto all’amico Cala Cimenti: “Non mi lasciare solo, ti prego, non te ne andare”, e Cala gliel’ha giurato mentre lo scaldava tra le sue braccia, in attesa dei soccorsi. “Ti riporto a casa, promesso”.
Lo ha raggiunto il primo pomeriggio di sabato, seguendo un puntino nero in una distesa infinita bianca di neve e ghiaccio. Quando Cala è arrivato sul posto, si è accorto che Cassi non aveva più la giacca a vento e gli ha lasciato la sua, scendendo a un’ora di cammino fino al campo base, per poi ritornare su con tutto quello che riusciva a portare. È quello che chiunque avrebbe fatto lassù in montagna, figuratevi per l’amico di una vita, di scalate, di missioni umanitarie.
Già, perché Cassi non è solo uno degli alpinisti più coraggiosi al mondo. Prima che uno scalatore, Cassi è un medico. E, anche quest’anno, ha scalato letteralmente le montagne per portare farmaci in Pakistan, ad Askole, in una delle zone più impervie del pianeta, dove le medicine non arrivano. E, già che era lì, Cassi si è fermato a visitare i pazienti del presidio medico locale, tra cui 15 donne incinte che necessitavano di visite prenatali urgenti. Lo ha fatto insieme alla onlus WorldFriends, una di quelle che qui da noi viene criminalizzata, delegittimata, accusata di fare business da chi, nella propria vita, non ha neanche fatto un’ora di volontariato sotto casa. Prima che fosse inaugurato questo ambulatorio, di inverno in questa valle morivano anche 60-70 persone per infezioni che qui da noi curiamo con un antibiotico.
Cassi è uno di quelli che li aiuta davvero “a casa loro”, e non è un semplice slogan. Le ore intanto passavano, nell’attesa dei soccorsi. L’elicottero che non arrivava mai. Lassù, in quelle condizioni, le ore diventano giorni, i giorni sembrano settimane. Ma i due amici non hanno mai smesso di avere fede, qualunque cosa significhi questa parola per uno che ha visto il mondo dall’alto in basso ed è caduto. Per tutto quel tempo Cala è diventato voce, braccia, occhi, ombra di Cassi. Ha scritto per lui sul telefono i messaggi alla famiglia e alla fidanzata (“Vi amo tutti, state tranquilli, tornerò”), sapendo che avrebbero potuto essere gli ultimi.
A un certo punto, dal campo base sono partiti in quattro – tre polacchi e un canadese – per soccorrere i due italiani. Quando li ha visti, Cassi è scoppiato a piangere. Di commozione, di dolore, di gioia, di speranza, tutto mescolato insieme. Ma dell’elicottero ancora nessuna traccia. Allora lo hanno caricato su una lettiga di fortuna costruita con un paio di sci e lo hanno portato fino ai 5.900 metri, e lì hanno passato la notte con un occhio chiuso e l’altro al cielo. Finché, alla fine il cielo si è fatto chiaro e l’elicottero è arrivato. Cala è rimasto a terra. “Non ha senso, sarei solo un peso in più”, ha detto mentre salutava l’amico. Cassi si salverà, tornerà lassù un giorno con un nuovo carico di farmaci e nuovi pazienti da visitare. Cala glielo aveva promesso. E, senza saperlo, ha salvato un pezzo di noi, della nostra umanità.