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Home » Cronaca

Figli di nessuno: così lo Stato discrimina chi nasce in una famiglia arcobaleno

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Sono nati da genitori dello stesso sesso. Ma lo Stato non riconosce il loro diritto ad essere accuditi dalla madre o dal padre non biologico. Così nel vuoto normativo che affida il loro destino alla discrezionalità politica dei sindaci, i bimbi delle coppie omogenitoriali vengono discriminati sin dal concepimento rispetto a quelli degli etero

«Secondo me la famiglia non si basa su un legame biologico, e di questo sono sicura. Si basa su chi ti cresce e chi ti accudisce quando sei bambino. Dire amore è un po’ una cringiata, ma mi sembra qualcosa del genere». Margherita ha 21 anni, frequenta il Dams di Milano e vorrebbe lavorare nel mondo del cinema, anche se non sa ancora in quale ruolo. I suoi registi preferiti sono Wes Anderson e Steven Spielberg, ma è affezionata anche ai film su Harry Potter e al personaggio di Ron Weasley, che le ricorda un episodio legato alla sua infanzia, quando frequentava le scuole elementari e la maestra chiedeva alla classe di preparare un disegno in occasione della festa del papà. «Arrivava in classe e diceva: “Oggi facciamo un lavoretto, disegnate il vostro papà così gli regaliamo il disegno” – racconta Margherita a TPI – Io tutta provocatoria mi alzo e le dico che il papà non ce l’ho. La maestra entra in panico e mi propone di disegnare il padre che avrei voluto. Torno a casa, all’epoca ero anche diligente, quindi volevo fare il compito, ma non sapevo cosa disegnare. Chiedo aiuto a mia madre, che mi suggerisce di immaginare il papà che avrei voluto per i miei figli. Disegno Ron Weasley». La storia di Margherita ricorda il brano del 2000 di Francesco Tricarico “Io sono Francesco”, in cui il protagonista, di fronte all’imbarazzo di dover scrivere il tema su un padre deceduto troppo presto, matura sentimenti di rabbia verso la maestra, ma alla fine sul foglio bianco scrive: “W Francesco”, celebrando il mondo che ha inventato nel vuoto che l’assenza ha generato.  

Sul foglio di Margherita non c’è un vuoto, ma entrambi i genitori: le sue due madri. Maria Silvia, quella che l’ha partorita e Francesca, che l’ha voluta, ha affiancato la moglie durante la fecondazione assistita – proibita in Italia alle coppie omogenitoriali e alle donne single –  e ha provveduto alla sua educazione e alle sue esigenze materiali come ogni persona che decide di mettere al mondo un figlio e si assume la responsabilità di accompagnarlo nel suo percorso di crescita. «Una madre per me è colei che si impegna per qualcuno e che lo fa in modo serio. La mia non biologica l’ha fatto, e mi da fastidio che mi chiedano: “Ma chi è questa che vive con te?”. Mi cresce da quando sono bambina e mi sta pure pagando la scuola», continua la ragazza. Eppure la sua seconda madre non è stata riconosciuta dallo Stato e non ha avuto diritti o doveri genitoriali su di lei fino al 2018, quando il sindaco di Milano Beppe Sala, nel solco della cosiddetta “Primavera dei sindaci”, ha iscritto anche il nome della madre non biologia sul certificato di nascita di Margherita e dei suoi tre fratelli, decidendo dove la legge non decide, perché in Italia manca una norma sul riconoscimento di questo grado di parentela. 

Per ottenerlo la coppia deve sperare appunto nel buon cuore delle amministrazioni locali, recandosi all’ufficio di stato civile dopo il parto e chiedendo che sul certificato di nascita sia riportato il nome di entrambi i genitori. Ma dopo la parabola positiva a cui Sala ha dato il via nel 2018 e che ha ispirato anche altri primi cittadini che, da Firenze a Torino, hanno usato i propri poteri per permettere il riconoscimento in assenza di una legge, a seguito di alcune sentenze della Cassazione sempre più comuni hanno smesso di riconoscere i figli di coppie omosessuali. La circolare del Viminale che ha espressamente vietato di registrare i certificati di figli nati all’estero in caso di Gestazione per altri e quella del Prefetto di Milano che ha esteso il divieto anche alla trascrizione dei certificati dei figli nati all’estero è un atto senza precedenti in Italia, ma interviene in una situazione già confusionaria, in cui le famiglie omogenitoriali cercano di rivendicare da sole il proprio diritto a essere genitori, affidandosi alla discrezione degli ufficiali di stato civile, conducendo battaglie in tribunale, o ricorrendo in alcuni casi all’adozione in casi particolari, la cosiddetta “step child adoption”, che comporta tempi di attesa molto lunghi, oneri per la famiglia e il paradosso di dover combattere per dimostrare e vedersi riconosciuta – a suon di udienze e colloqui con gli assistenti sociali – una situazione di fatto. Così migliaia di genitori restano in uno stato di incertezza e in balia delle procure, che possono in qualsiasi momento impugnare i certificati di nascita. Nel frattempo ad essere ignorati sono i diritti dei bambini nei passaggi cruciali della loro crescita, come l’accompagnamento a scuola o dal medico, la trascrizione nell’asse ereditario, le decisioni che riguardano la loro vita e che, senza un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato, i genitori non biologici non possono prendere.  

Genitori a metà

«Quando eravamo più piccoli per uscire da scuola serviva la delega della madre biologica sulla madre non biologica, serviva anche per uscire dal Paese, dovevamo sempre avere una delega per stare con l’altra madre, sono stati sempre questi i casini e gli sbattimenti burocratici, per quanto le nostre madri abbiano cercato di risolvere da sole la situazione. Per esempio quando sono nata io la mamma biologica ha dato la mia tutela a quella non biologica in caso di morte durante il parto. Ma dal punto di vista legale prima del 2018 non risultavo sull’asse ereditario dell’altra madre, e se quella biologica moriva chiunque poteva adottarmi. Noi avevamo i nonni, ma per chi non li ha c’è questo rischio. Avevo paura. Quando finisci in mano ad assistenti sociali e sei minorenne sono gli altri a decidere per te, non stanno a sentire quello che vuoi, e io pensavo che se i miei nonni fossero morti, non mi avrebbero fatto stare con l’altro genitore, anche se era mia madre». Margherita riconosce di essere stata fortunata ad aver superato la maggiore età senza che i suoi peggiori incubi si avverassero, ma ricorda tanti casi di bambini per cui non avere la trascrizione ha fatto la differenza, come quello di una madre biologica che non ha concesso alla seconda madre di vedere la figlia dopo la separazione, senza che l’altra potesse intraprendere azioni legali per rivendicare la sua genitorialità. «Per il giudice la seconda madre della bimba non era nessuno. Si sono riviste dopo 20 anni. Si tratta di una vita rovinata. In questi casi anche i bambini soffrono», racconta. 

Le difficoltà generate dal vuoto normativo e dall’assenza di un riconoscimento ufficiale emergono in modo più evidente in casi di difficoltà, come la malattia o il ricovero del figlio – che non sempre può essere visitato e assistito dal genitore non biologico – o la separazione della coppia. «Le famiglie arcobaleno sono famiglie normali, e come in tutte le famiglie le cose possono andare  male. Esistono le Mulino Bianco e le meno Mulino Bianco», osserva Margherita.

Anche Federico, 23 anni, nato a Milano da due madri e riconosciuto come figlio di quella non biologica solo quattro anni fa, ha avuto la sensazione che «finché le cose vanno bene, non ti succede niente, ma quando vanno male servono documenti che dicano chi prende decisioni per te, chi si può prendere cura di te, e sapendo che può farlo anche la tua seconda madre ti senti più tutelato». L’iscrizione del nome del secondo genitore sul suo certificato è avvenuta prima del Covid, così, quando durante la pandemia il fratello si è operato al crociato, anche la madre non biologica ha ottenuto il permesso per andare a trovarlo e per portarlo dal medico. «Ma quando eravamo piccoli non poteva farlo nonostante fosse nostra madre», racconta. La seconda madre non ha mai voluto procedere alla “step child adoption” perché lo riteneva offensivo. «Lei era mia madre e sentiva di non dover adottare qualcuno come fosse un estraneo, quando lo ha voluto da prima che nascesse. Non voleva adottare un figlio che era già suo. Nel matrimonio, che è possibile solo tra coppie eterosessuali, quando sposi una persona i figli dell’altro diventano tuoi. In questo caso lo hai cresciuto da quando è nato e devi adottarlo. Mia madre non era d’accordo», afferma. Da piccolo, Federico si accorgeva che la sua situazione era fuori dal comune quando a scuola, sui documenti da far firmare ai genitori, c’era scritto “mamma e papà”. Lui cancellava papà e scriveva mamma. «Se ci domandano qualcosa?», si chiedeva quando andava a fare il vaccino insieme alla madre non biologica. «Mi ero posto il problema che ci avrebbero fatto storie per il fatto che non risultasse come madre sulla carta. Ci siamo detti: “Assumeranno quello che vogliono e ci faranno passare”. Però comunque ci siamo posti il problema. Erano questi i disagi», una situazione in cui molto spesso ci si deve affidare all’apertura mentale delle altre persone. «Eravamo alla mercé di medici, maestre e professori che incontravamo. Erano  loro a dover dire “capisco la situazione“, ma non era scontato. Dovevi costantemente chiedere che ti fosse riconosciuta una situazione di fatto». 

Ostaggi di una città

Diego di anni ne ha tre e sul suo certificato di nascita risulta il nome di entrambe le madri, Valentina e Arianna, che lo hanno riconosciuto al comune di Bologna a maggio del 2020. Ma la disponibilità dell’allora sindaco Virginio Merola – confermata poi dal successore, Matteo Lepore – a formare certificati di nascita con la firma dei due genitori anche in caso di parto in Italia dopo il concepimento all’estero tramite fecondazione assistita non basta a farle sentire tutelate. Sentono che il riconoscimento della loro famiglia non è pieno, perché dettato da una volontà politica che chiunque può sindacare o mettere in discussione in qualsiasi momento. «Siamo ostaggi della città che ci ha riconosciuto. Se dovessimo rinnovare la carta d’identità di Diego in un comune in cui il suo atto non viene riconosciuto, sarebbe impugnato e non riusciremmo a ottenere i documenti. Gli uffici amministrativi annullerebbero la carta d’identità così come formulata e compilata del comune di Bologna e salterebbe tutto il castello di carta. Basterebbe un banalissimo trasferimento per far decadere tutto il sistema a cui ha accesso nella città di Bologna», dicono a TPI. Anche nel loro caso è stata la preparazione e l’apertura mentale dei professionisti che hanno incontrato nel percorso di madri e dei rappresentanti delle istituzioni a fare la differenza. Un percorso iniziato nove anni fa, quando hanno deciso di mettere al mondo un figlio e hanno dovuto scontrarsi con la burocrazia e la necessità di recarsi all’estero per iniziare la fecondazione assistita, che è andata a buon fine solo al quinto tentativo. Per ognuno hanno dovuto prendere diversi aerei e giorni di ferie tra la Spagna e il Belgio. «Non lo fai in modo sereno, godendoti la gravidanza come dovrebbe essere per qualsiasi genitore. Devi stare attento a chi è intorno, non è un momento di massima felicità come avviene per le altre famiglie, perché viziato da questa mancanza di riconoscimento che parte dall’inizio. I membri di una coppia omogenitoriale non sono ritenuti in grado di essere genitori», spiegano, facendo riferimento alla legge sulle unioni civili del 2016, varata dal governo Renzi, che tutela il rapporto di coppia ma non prevede percorsi di concepimento alternativi. Così, quando la madre, dopo essere rimasta incinta, torna in Italia ed entra nel Sistema Sanitario Nazionale, la compagna ha difficoltà a starle vicino come qualsiasi genitore che, pur non portando il figlio nel proprio grembo, ne sente subito addosso la responsabilità, perché lo ha voluto. «Devi avere la fortuna di trovare medici accoglienti. A Bologna c’è un sistema sanitario pubblico eccellente, ma per quanto ci siano medici attenti ed esperti, ancora pochi sono formati su come accoglierci. Il tema della formazione del personale sanitario è centrale non solo per non sentirsi giudicati, ma anche perché chi è formato capisce cosa c’è dietro», raccontano. 

Il bisogno di una legge 

Dopo la gravidanza, Valentina ha subito un intervento d’urgenza perché a rischio di vita. Se Diego non fosse stato già riconosciuto come figlio di entrambe, in caso di morte, Arianna avrebbe perso suo figlio e lui sua madre, perché sarebbe stato affidato alla famiglia di origine di Valentina, con cui lei non ha più rapporti. «Ogni volta dobbiamo fare coming out, anche solo per far comprendere la composizione della nostra famiglia. La discriminazione si vive non tanto nelle relazioni personali, ma con qualunque rappresentante delle istituzioni a qualunque livello. Devi stare all’erta, devi essere performante, sai che hai gli occhi addosso più di altri, ma tutti facciamo casini, abbiamo problemi a lavoro, non dormiamo, abbiamo problemi di coppia. Come tutti non siamo perfette, ma dobbiamo essere più attente. Invece vorremmo solo essere considerate come tutti gli altri. Non chiediamo un trattamento migliore», spiegano. 

Arianna e Valentina vorrebbero una legge che riconosca a tutti i figli delle coppie omosessuali il diritto ad avere una famiglia, che nella loro visione è quella che ha deciso di mettere al mondo la bambina o il bambino e che ha la volontà e il desiderio di prendersi cura della sua crescita. Legge che l’associazione Famiglie Arcobaleno insieme a Rete Lenford – Avvocatura per i diritti Lgbti+ – che dal 2007 si occupa di offrire supporto legale alle coppie “same-sex” tramite una rete di legali – hanno presentato in Parlamento a giugno scorso e per cui migliaia di persone sono scese in piazza il 18 marzo a Milano e in diverse città nel fine settimana successivo, dopo la circolare del Viminale e le esternazioni degli esponenti del governo che consigliano ai genitori non biologici di ricorrere alla “step child adoption” per essere riconosciuti. «Ma è necessaria una legge che riconosca alle nostre famiglie il pieno diritto ad esistere e che non possa essere messa in discussione, in linea con quanto dice la Costituzione all’articolo 3». “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

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