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Fashion Revolution: ecco chi si batte contro la moda ultra-veloce e la logica del tutto-subito

Immagine di copertina
Credit: AGF

Il modello di consumo basato su prezzi bassi e scarsa qualità fa male a lavoratori, consumatori e ambiente. Ma c’è anche chi punta su sostenibilità e qualità. Ecco chi sono i piccoli brand e gli attivisti che si battono contro la fast fashion

«Trovare il materiale giusto per i nostri completi è stato un processo abbastanza lungo, fatto di diversi test falliti perché nulla era all’altezza di quello che stavamo cercando, ma quando abbiamo incontrato il bamboo è stato amore a prima vista: è il miglior tessuto per stare a contatto con la pelle, è morbidissimo, naturalmente antibatterico, anti-odore, anti-irritazione e molto resistente, perché elastico. Ciò significa che con il tempo non cede, non si sforma e non si stringe, così che chi sceglie un completo LATTE lo possa utilizzare per tantissimo tempo».

Sonia Benassi e Giorgia Ferrais sono le fondatrici di “LATTE The Label”, brand di intimo basic sostenibile e inclusivo completamente Made in Italy, nato poco più di un anno fa. Per le due giovani imprenditrici – inserite quest’anno nella classifica dei 100 innovatori under 30 di Forbes – la sostenibilità è non solo imprescindibile ma ormai quasi scontata, seppur il loro marchio non possa definirsi ancora totalmente sostenibile, anche solo partendo dal fatto che produce prodotti nuovi.

«Tutto quello che facciamo ha però un occhio di riguardo all’ambiente e alle persone che lavorano con noi. La nostra fibra di bamboo certificata Oeko-Tex e Fsc viene prodotta a Biella, in un ex lanificio riconvertito per la produzione di tessuti sostenibili. La produzione poi avviene tra Bergamo e Carpi, in due realtà con un’esperienza ventennale nella produzione dell’intimo, in strutture in cui è garantita la sicurezza dei lavoratori e un salario adeguato. Per la spedizione utilizziamo un packaging plastic free, in carta o in materiale biodegradabile e ci appoggiamo ad un corriere per le spedizioni che è certificato carbon neutral. Il margine di spreco è ridotto al minimo perché abbiamo immaginato le nostre collezioni come continuative, quindi non ci sono pezzi che vengono dismessi, rimanenze di magazzino o collezioni da smaltire. Tutto viene fatto in piccole produzioni e a volte può succedere che qualche articolo vada out of stock, ma le nostre clienti sono pronte a pre-ordinare e aspettare il tempo che richiede la nuova produzione, non c’è quella smania di tutto-subito-ora a cui apparentemente siamo abituati, perché il valore di quello che si sta acquistando sta anche nella cura, e quindi nel tempo, che richiede realizzarlo».

Smania di consumare
La smania alla quale si riferiscono Sonia e Giorgia è quella che caratterizza il fast fashion, modello di produzione che progetta, realizza e distribuisce in tempi molto brevi un grande quantitativo di vestiti. Il tutto a basso costo. Nella moda veloce i capi di abbigliamento vengono sostituiti con facilità perché progettati per durare solo una decina di lavaggi: poco importa se una maglietta non ci convince del tutto, la compriamo, tanto costa poco, e se non la indossiamo non dobbiamo sentirci in colpa perché non ci abbiamo perso granché. Tuttavia dietro quella maglietta c’è molto di più, c’è manodopera a basso costo che lavora in condizioni pessime, non sicure, con orari massacranti e salari bassissimi, c’è un notevole impatto ambientale e un enorme consumo di acqua.

Ma se il mondo attuale produce, consuma e butta tonnellate e tonnellate di vestiti, perché vi è ancora la necessità di fondare l’ennesimo brand? Nella baraonda di marchi e proposte Sonia e Giorgia hanno individuato un buco di mercato. Lo avevano intuito da consumatrici e ne hanno avuto conferma una volta che il progetto ha preso vita, quello che mancava a loro, mancava anche a tante altre persone. «LATTE è nato da una nostra esigenza, ci siamo rese conto che volevamo acquistare una cosa in particolare e non sapevamo dove trovarla. Le alternative erano solo brand di intimo tutti pizzi e merletti oppure soluzioni fast fashion o ancora qualche proposta sostenibile ma con zero appeal. Ci sembrava assurdo che nessuno proponesse qualcosa di contemporaneo e ci siamo dette: “Facciamolo noi”. Il nome è la prima cosa che ci è venuta in mente, ancora prima che l’idea prendesse completamente forma, e ci è piaciuto così tanto da non poterlo lasciare lì, quindi siamo partite con il nostro progetto». 

“LATTE The Label” ha l’obiettivo di creare un universo nuovo, con un modo di vivere più lento, fatto di qualità, dove si sceglie di acquistare meno e meglio. La trasparenza e la sincerità non mancheranno mai, promettono le due fondatrici, che su Instagram rendono partecipe la loro community condividendo ciò che fanno, i costi che affrontano e ascoltando i feedback dei clienti. Raccontare quelle che sono le spese economiche dietro al prodotto finito è importante perché spesso non ci si rende conto di tanti aspetti e costi che non sono visibili. Siamo ormai così abituati a pagare davvero poco quello che acquistiamo che il nostro immediato riflesso quando qualcosa costa di più è interpretarlo come un ricarico ingiustificato. E invece non è così.

Nuovi modelli
Comprare meno e meglio è un comportamento d’acquisto difficile da interiorizzare, ma necessario, così come abituarsi a rammendare e riciclare; a tal proposito, il loro nuovo prodotto che uscirà tra poco ridarà vita a tessuti altrimenti scartati. “LATTE The Label” è uno dei pochi brand sostenibili di intimo italiani, ma non è l’unico. “Chitè” è il primo di lingerie personalizzabile, su misura e 100 per cento made in Italy. Federica Tiranti e Chiara Marconi, le due fondatrici, si riforniscono solo da aziende locali e di qualità, che rispettano ambiente, sicurezza e salute delle persone. Sono proprio gli artigiani al centro del loro modello di produzione, caratterizzato da una tempistica necessaria a garantire altissimi standard di qualità. L’obiettivo futuro del brand milanese è quello di creare un packaging totalmente plastic-free ed elaborare il “Progetto Second Life” che prevede il lancio di un’iniziativa di riciclo ed economia circolare. 

E non è finita. Negli ultimi anni stiamo assistendo alla nascita di brand sostenibili in grado di migliorare il modo in cui ci vestiamo e ci rapportiamo alle risorse del nostro pianeta. Se la richiesta di questi prodotti da parte dei consumatori ha il potere di cambiare la rotta dell’industria della moda, è giusto dargli spazio: “Studio Sartoriale” è un brand indipendente e rivoluzionario con sede a Verona che crea collezioni usando rimanenze di magazzino dei laboratori italiani, evitando così di sprecare materiali e processi chimici per la tintura. “Endelea” nasce con la missione di creare abiti e accessori in tessuti wax africani dal design italiano; le collezioni sono disegnate a Milano e realizzate in Tanzania. Parte dei ricavi vengono reinvestiti in programmi educativi per studenti di moda e design in Tanzania.

“Pangaia” realizza principalmente tute in materiali organici non trattati con agenti chimici, come alghe marine, cotone biologico, canapa e bottiglie di plastica riciclate. Anche la tintura è completamente vegetale perché deriva da pigmenti provenienti da scarti di frutta, verdura e piante. “Artknit Studios” è specializzato nella produzione e nella distribuzione di maglieria di lusso eco-sostenibile e accessibile, in cui le materie prime sono esclusivamente naturali, riciclabili e biodegradabili. L’azienda adotta una politica zero sprechi e tramite il programma “Repair Artknit” è possibile riparare il prodotto e ricondizionarlo per permettergli un ciclo di vita più lungo. “Rifò” è un progetto di abbigliamento sostenibile e di economia circolare. I capi vengono realizzati in Italia nel raggio di 30 km dalla sede attraverso l’utilizzo della manodopera di artigiani specializzati. Il loro must? Il maglioncino di jeans rigenerato.

Un movimento per il futuro
Quando nel 2013 crollò il polo produttivo Rana Plaza in Bangladesh, morirono più di 1.000 persone. Il giorno prima, poco dopo l’inizio dei lavori, erano state trovate tre crepe nei pilastri in cemento armato che sostenevano l’edificio di otto piani e un ingegnere aveva detto che il luogo non era sicuro, così i lavoratori erano stati mandati a casa. Il giorno dopo però questi sono tornati in fabbrica perché non avevano altra scelta. Quando le luci si sono spente insieme alle ventole e le macchine da cucire hanno rallentato fino a fermarsi del tutto, nessuno si è preoccupato, le interruzioni di corrente erano frequenti. Pochi istanti dopo l’avvio dei generatori, però l’edificio è crollato. Il mondo guardò quelle immagini con sdegno e commozione e si disse a gran voce: “Mai più!”.

In questo clima una delle prime iniziative fu la nascita dell’associazione Fashion Revolution, la maggiore organizzazione mondiale di attivismo per il raggiungimento della sostenibilità ambientale e sociale nel settore tessile. Il movimento è presente in un centinaio di Paesi del mondo, dove crea consapevolezza nei consumatori e promuove prodotti etici, collaborando con governi e istituzioni per proporre leggi e norme che vadano a regolamentare il settore tessile. Marina Spadafora è la coordinatrice italiana del gruppo; conosciuta nel mondo per il proprio brand di maglieria sperimentale e sofisticata, ha collaborato in passato con Marni, Prada, Miu Miu, Ferragamo e il suo lavoro si è sempre contraddistinto per l’interesse sociale e ambientale.

Marina è stata infatti Direttore Creativo di “Auteurs du Monde”, il marchio di moda etica di Altromercato, interamente realizzato da produttori appartenenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio Equo nel rispetto delle persone e dell’ambiente e ha lavorato con le Nazioni Unite per portare lo sviluppo alle economie emergenti attraverso la moda. Marina Spadafora è anche docente in varie università italiane e straniere, e durante le sue lezioni insiste molto sull’educazione di base, sul livello di preparazione e conoscenza della materia sostenibilità, soprattutto perché al giorno d’oggi, in piena crisi climatica, non si può più ignorare il consumo di risorse, lo sfruttamento e l’inquinamento che genera la moda. Il movimento Fashion Revolution nasce come risposta ai ritmi spesso disumani imposti dalla moda ultra-veloce ed è formato da attivisti che credono sia possibile instaurare una diversa industria della moda, capace di rispettare i diritti umani e ambientali.

Tutti possiamo cambiare
La missione è proprio quella di trasformare il settore da un punto di vista etico: comprendere come nascono i vestiti, quale è la loro provenienza, come funziona la catena di produzione, chi li cuce e in quale parte del mondo. Secondo Marina Spadafora, ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e se etica ed estetica possono convivere, è necessario che il consumatore conosca chi fa i vestiti che indossa. Questo richiede trasparenza, responsabilità e onestà, soprattutto da parte del produttore, per impedire che tragedie come quelle del Rana Plaza si ripetano. Sensibilizzare e smuovere le coscienze di consumatori e produttori significa in primis rispettare i diritti di chi lavora nell’industria della moda e porre fine allo sfruttamento umano e ambientale in nome del profitto. Ogni volta che compriamo un qualsiasi oggetto, compiamo una scelta ben determinata, decidendo che tipo di prodotto acquistare e da chi, per questo Fashion Revolution – insieme ad altre 60 ong – ha sottoposto al Parlamento europeo una proposta di legge che è diventata la Strategia sul Tessile .

Tra i vari punti ce n’è uno relativo all’obbligatorietà delle etichette parlanti, ossia dei codici QR che quando vengono scansionati raccontano la storia e i passaggi dell’indumento (dove è stato fatto, da chi, quale è la retribuzione di quell’operaio, come è stato prodotto il tessuto, da cosa è composto il materiale, con quale tipo di colore è stato tinto). In questo modo l’acquirente sarà maggiormente consapevole della sua scelta, un po’ come quando acquista frutta e verdura. «Un acquisto oltre ad essere un attimo economico, è un atto morale» spiega Spadafora a TPI. «I consumatori devono curare la loro bulimia di acquisto: comperare abiti continuamente non aiuta a colmare vuoti esistenziali, le aziende invece devono ripulire da prodotti chimici tossici la loro filiera e assicurarsi che nelle fabbriche dove producono vengano rispettati i diritti umani e pagati salari dignitosi. Devono comunicare con trasparenza quello che fanno ed evitare il Green Washing anche perché la nuova Strategia del Tessile Europea diventerà legge entro il 2024», aggiunge.

Inoltre, tra le tante iniziative che Fashion Revolution promuove c’è la “Fashion Revolution Map”, una vera e propria mappa con gli indirizzi “green” in Italia, per offrire uno strumento pratico ai consumatori che desiderano fare acquisti più responsabili, mentre il 22 aprile comincia la Fashion Revolution Week. «Chiediamo a chi ci segue di indossare un capo di abbigliamento con l’etichetta fuori, di fare un selfie e di postare l’immagine chiedendo al brand chi ha fatto quel capo. Per questo decimo anniversario del crollo del Rana Plaza abbiamo creato un mercato urbano di brand etici presso la Fondazione Sozzano a Milano. Questa è la nostra risposta al fast fashion», ci racconta Spadafora.

Cinque anni fa l’associazione ha creato un manifesto in dieci punti che consolida la visione di un’industria della moda che conserva e ripristina l’ambiente, valorizzando le persone in termini di crescita e profitto. Da allora oltre 14mila persone in tutto il mondo hanno sostenuto la campagna. Dalla trasparenza della catena di approvvigionamento ai salari di sussistenza, dai rifiuti tessili all’appropriazione culturale, dalla libertà di associazione alla biodiversità. Le soluzioni vanno trovate insieme con urgenza, perché se da un lato il tema della sostenibilità nella moda si è ampliato e ha fatto sempre più rumore, dall’altro la crisi climatica ha accelerato i tempi, causando sempre più ingiustizie sociali. Le lancette dell’orologio avanzano inesorabili.

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