Esclusivo TPI – Le incredibili storie delle vittime dei preti pedofili
Molte non hanno il coraggio di denunciare. E chi ci è riuscito è stato persino accusato di aver tratto piacere dalla violenza. Mentre la Chiesa protegge i prelati coinvolti
«Tutto è avvolto nell’oscurità. Ma la violenza non può essere taciuta a lungo». Esordisce così Marco, nome di fantasia per il papà di un giovanissimo che nel Sud Italia è stato abusato ripetutamente da un prelato. Il caso è recentemente approdato in tribunale ed è legato al massimo riserbo. «Mio figlio – racconta l’uomo – aveva conosciuto questo prete durante un campo estivo. Me ne parlava benissimo, anche perché l’uomo lo riempiva di regali costosi.
Quando chiedevo il perché di tanta generosità, mi spiegava che erano la ricompensa per i lavoretti che faceva. C’era qualcosa che non quadrava, ma vedevo il ragazzo sereno e così ho pensato di essere troppo protettivo. Almeno fino a quando non ho trovato sul cellulare di mio figlio delle chat con centinaia di messaggi che non lasciavano dubbi. È stato lo choc più grande della mia vita. Mio figlio non solo era stato abusato fisicamente, ma era del tutto vittima dal punto di vista psicologico di questo adulto».
Di casi e di storie simili – che spesso restano nell’ombra – il nostro Paese è costellato. Lo spiega perfettamente Francesco Zanardi, fondatore e presidente dell’associazione Rete L’Abuso, unica realtà in Italia che monitora casi di pedofilia ecclesiastica. «Io per primo sono stato vittima di violenza quando avevo undici anni. Un segno indelebile, che mi tormenta ancora oggi. In cinque anni sono stato operato nove volte per un tumore di origine psicosomatica. Dei sette metri di colon, me ne resteranno sì e no la metà», rivela. «Nonostante questo, però, non mi fermo. Vivo il mio lavoro come una vera e propria missione per tutte le vittime e i familiari costretti ad affrontare tragedie simili alla mia».
Come Alessandro Battaglia, che il 21 dicembre 2011 a Rozzano, piena periferia milanese, vede la sua vita cambiare per sempre. A soli undici anni. Membro degli scout, Alessandro adora il parroco locale, don Mauro Galli: parla lo stesso linguaggio dei ragazzi, li capisce, è gentile, apprezzatissimo anche dagli adulti. Ed è così che, quando il prete domanda ai genitori di Alessandro la possibilità di farlo dormire in parrocchia, nessuno obietta. Cosa sia accaduto quella notte è scritto nella sentenza di primo grado, che evidenzia come don Galli si impegnò in «atti sessuali consistiti in strusciamenti del proprio pene sulla schiena del ragazzo, palpeggiamenti del pene e dei testicoli della vittima, nonché in un tentativo di penetrazione anale».
Le aggravanti individuate dai giudici vengono elencate puntualmente e comprendono, fra le altre cose, la violazione dei doveri inerenti alla qualità di ministro del culto e l’abuso di autorità. Dopo una condanna sia in primo che in secondo grado (sebbene sia stato assolto dalla magistratura canonica), il caso non è ancora chiuso: dopo un ulteriore ricorso, la Cassazione ha deciso di rinviare le carte in Appello per un processo “bis”. Il don intanto – come hanno scoperto i genitori di Alessandro, che avevano provato invano a coinvolgere anche le autorità ecclesiastiche – invece di venire assicurato alla giustizia canonica, è semplicemente stato trasferito in un’altra parrocchia, situata ad appena trenta chilometri di distanza. Uno spostamento avvenuto in sordina, secondo un copione ben rodato.
Altrettanto dolorosa la storia di Arturo Borrelli, oggi ultraquarantenne, che a Napoli nel 2010 accusa don Silverio Mura di averlo ripetutamente stuprato da ragazzino. I fatti risalgono a trent’anni fa, dunque il reato in sede penale è ormai prescritto. Tutto comincia dopo che Arturo inizia a soffrire di svenimenti e attacchi di panico dai quali riemergono vecchie ferite e traumi che lo spingono a denunciare anche dinanzi alle autorità ecclesiastiche. Senza, però, ottenere alcun risultato.
Nel frattempo, infatti, don Silverio Mura, formalmente in ritiro in una comunità religiosa, si sta in realtà preparando alla sua seconda vita. Nel 2016 si presenta come Saverio Aversano a don Simone Baggio, parroco di Montù Beccaria, un piccolo centro di 1.600 anime sulle colline pavesi. Gli viene assegnata la cura dell’oratorio e il catechismo dei bambini della parrocchia. Almeno fino a quando alcuni genitori non riconoscono don Silverio e a Montù scoppia il caos. Nel novembre scorso, per quanto il prelato si sia sempre dichiarato innocente, il Tribunale civile di Napoli ha riconosciuto ad Arturo Borrelli con una sentenza storica un risarcimento di oltre 320mila euro per i danni conseguenti agli abusi sessuali. Non solo: «Attualmente Mura è sotto processo a Pavia per falsa identità, grazie alla denuncia della Rete», sottolinea ancora Zanardi.
Non tutti i casi però finiscono con una condanna. Uno degli episodi più eclatanti riguarda l’Istituto Provolo a Verona, nato negli anni Cinquanta per accogliere bambini sordomuti. Apparentemente si trattava di un paradiso, in realtà gli studenti – cui veniva perfino impedito di imparare la lingua dei segni, per evitare che potessero denunciare – erano vittime di abusi di ogni tipo. Le denunce impiegano decenni prima di prendere forma e dopo le prime accuse di molestie uno dei prelati, don Nicola Corradi, viene trasferito in Argentina. Il suo comportamento non cambia né nella sede dove continua il ciclo di violenze a Mendoza né in quella de La Plata. Nonostante la mobilitazione italiana delle vittime – che però sortisce scarsi risultati – in Argentina gli ex alunni vanno a denunciare e nel 2019 il sacerdote viene condannato a 42 anni di carcere, mentre il suo vice a 45. Purtroppo però i due hanno lasciato il Sud America, e sono rientrati in Italia dove non scontano alcuna pena.
«La situazione è peggiorata», spiega Lucetta Scaraffia, giornalista e storica, che al caso ha dedicato Agnus Dei (Solferino, pp. 224) con Anna Foa e Franca Giansoldati. «L’impunità – prosegue – è sempre stata totale. L’ordine dato ai vescovi era quello di sedare lo scandalo, ma ha soltanto peggiorato le cose alimentando una sorta di via libera. In fondo, che cosa rischiavano i pedofili? Potevano essere spostati di sede, magari richiamati, ma era chiaro come i loro comportamenti fossero ampiamente tollerati». Parole durissime, cui fanno eco quelle di Zanardi che da sempre si batte contro l’omertà ecclesiastica: «I vescovi – ribadisce – non hanno l’obbligo di denuncia presso le autorità giudiziarie e, dunque, finiscono con lo spostare chi è accusato di violenze in altri luoghi».
Ma c’è di più. «Nel 2014 l’Italia ha ratificato una direttiva Ue sul cosiddetto “certificato anti-pedofilia”. In pratica, se sei stato condannato per reati contro i minori non puoi più esercitare professioni che ti portino a stare a contatto con i bambini». Il problema, però, è che nel nostro Paese è stato applicato a tutte le categorie, eccetto il mondo del volontariato di cui il clero fa parte. Non solo. L’Europa ha chiesto più volte di istituire sportelli per dare “accoglienza” a chi ha subito abusi, ma anche su questo si procede a rilento. «Per questo – prosegue Zanardi – mi sono rivolto alle Nazioni Unite denunciando i singoli casi e la situazione nel suo complesso».
La questione infatti è ampiamente nota, e già nel 2014 il Comitato contro le Torture dell’Onu annotava come «la Santa Sede non ha riconosciuto l’entità dei crimini commessi, non ha preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso sessuale sul bambino e per proteggere i bambini, e ha adottato politiche e pratiche che hanno condotto alla continuazione dell’abuso da parte dei perpetratori e all’impunità degli stessi». Accuse pesanti derivanti dal fatto, come continua l’Onu, che «i casi di abuso sessuale su bambino, quando affrontati, sono stati trattati come gravi delitti contro la morale tramite procedimenti riservati previsti per misure disciplinari che hanno permesso a un’ampia maggioranza di autori di abuso e a quasi tutti quelli che hanno nascosto l’abuso sessuale sul bambino di sfuggire ai procedimenti giudiziari».
Tutto a causa del «codice del silenzio imposto a tutti i membri del clero sotto pena di scomunica». Un cortocircuito che indica come endemico il comportamento ecclesiastico e che ha spinto l’Onu, già otto anni fa, a sollecitare la revisione dei Patti Lateranensi nella parte in cui si solleva la gerarchia ecclesiastica dall’obbligo di denuncia. Nulla è mai accaduto allora, né nel 2018 quando sempre l’Onu ha invitato lo Stato italiano – su proposta di Rete L’Abuso – a istituire una commissione indipendente per avere un quadro chiaro sul numero di vittime, di prelati indagati o condannati. «Di questo passo – spiega Zanardi – è evidentemente difficile fidarsi anche di chi, come la Cei, suggerisce grandi azioni nel futuro, ma poi e di fatto non fa mea culpa». La negligenza si attesta dunque in modo trasversale fra tutti i soggetti coinvolti, a cominciare dalla Chiesa per arrivare allo Stato.
«Mentre in Spagna la magistratura si è attivata su 250 casi in un arco di 70 anni, in Italia invece pare non siano sufficienti neppure i 320 casi che abbiamo documentato e, non in 70 anni, ma in poco più di 15. Vittime e dati che forniremmo volentieri ai magistrati, se solo li volessero», amareggiato riflette Zanardi.
«Attraverso l’adescamento, la persuasione e il coinvolgimento – riflette la psicologa Lorita Tinelli – i preti riducono la resistenza delle loro vittime e abusano di loro senza usare la forza fisica. Recenti studi evidenziano come le vittime siano caratterizzate da un alto livello di religiosità e da conflitti sulla propria sessualità emergente». Da non sottovalutare poi l’isolamento, ma anche la condizione economica e culturale, solitamente bassa, che permettono l’avvicinamento alla sfera più intima dei minori.
Diverso è il discorso per i carnefici, come nota Andrea Fagiolini, ordinario di psichiatria presso l’Università di Siena: «Non esiste un profilo univoco. Sovente chi abusa ha subito lui stessi traumi o abusi emotivi. Bisogna poi ricordare che non esiste un nesso di causalità stabilito tra il celibato e l’abuso dei bambini. Il celibato non è in grado di allontanare una persona dal suo orientamento sessuale primario, ma è possibile che vengano scelte istituzioni che promuovono il celibato come sistema di auto-cura, per mettere un freno a istinti sessuali riconosciuti come negativi».
A oggi, dinanzi alla rinuncia delle istituzioni, gli unici dati che restano sono quelli raccolti da “Rete L’Abuso” e che indicano 178 sacerdoti accusati e 165 condannati in via definitiva.
«Naturalmente i casi di abuso sono molto più numerosi. Ci sono quelli che non hanno il coraggio di denunciare, e quelli che dopo avere denunciato accettano di recedere grazie a un patteggiamento privato, magari per una somma modesta che va dai 15 ai 25mila euro», spiega ancora Lucetta Scaraffia. Soldi elargiti come aiuto per lo studio in cambio della firma di una dichiarazione con la quale i diretti interessati accettano di restare in silenzio.
Se un accordo non si trova, il copione è sempre pressoché il medesimo: «I preti – prosegue Scaraffia – prima negano, poi, quando sono incastrati dalla giustizia civile, si presentano come malati. In questo modo la Chiesa si offre di custodirli e inviarli in case di accoglienza per religiosi in crisi dove vengono sottoposti a una blanda terapia e poi rimandati in parrocchia. Questo perché nel codice di diritto canonico, lo stupro viene annoverato come una trasgressione del sesto comandamento insieme ad adulterio e omesessualità. Alla base c’è la convinzione che la vittima tragga piacere dall’abuso e quindi divenga colpevole a sua volta».
Intanto le denunce, le inchieste e, dunque, i processi aumentano. Uno degli ultimi casi arriva da Enna, nel cuore della Sicilia, e riguarda don Giuseppe Rugolo, arrestato il 27 aprile 2021 e il cui processo – rigorosamente a porte chiuse – si è aperto qualche mese dopo, il 7 ottobre. L’uomo è accusato di violenza sessuale su tre minori. Una delle vittime è Antonio Messina che, quando inizia una relazione con un suo coetaneo, si sente braccato dal prelato che pretendeva di avere una relazione sessuale esclusiva. «Sentivo di non avere via di scampo», dice agli inquirenti.
Nel 2015 il don fonda un’associazione: sceglie una manciata di ragazzi, con cui instaura un rapporto informale fatto di battute sessiste, toccatine sui genitali e ritiri notturni in canonica. A uno di loro, con cui divide il letto e la doccia, regala soldi e manda messaggi pieni di cuoricini. Gli scrive «ti amo», «notte principessa mia», «amore mio». Oltre i dettagli, si mostra una sceneggiatura ben nota a chi si occupa della questione.
A denunciarlo ancora Zanardi in un nuovo report presso l’Onu: soltanto nel 2016 il vescovo Rosario Gisana viene informato dei fatti, iniziati sette anni prima, e decide di trasferire il prete pedofilo nella diocesi di Ferrara, ufficialmente per motivi di salute. Lì viene nuovamente incaricato di seguire i ragazzi della parrocchia. Intercettato, il vescovo ammette il suo coinvolgimento: «Il problema è anche mio perché io ho insabbiato questa storia… eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire!». Non solo. Sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo) che anche il vescovo di Ferrara, Gian Carlo Perego, non fosse totalmente all’oscuro rispetto al passato di don Rugolo.
Secondo i documenti consultati da TPI e come denunciato nel report alle Nazioni Unite, ci sarebbe anche il coinvolgimento di un carabiniere che, dinanzi alle denunce di Antonio Messina, avrebbe spifferato tutto al vescovo Gisana. Quantomeno in questo caso il processo è partito.
Al contrario di altre situazioni bloccate nel silenzio, come quella – già segnalata all’Onu – che vede protagonista don R. L., salesiano di Genova e allenatore di una squadra di ragazzi, trasferito «tra le chiacchiere» ad Arezzo. Da qui sarebbe arrivata una nuova denuncia di presunti abusi, ma intanto il prelato è stato spostato nuovamente, pare in Tunisia. A dimostrazione dell’inquietante puzzle ecclesiastico in continuo, perpetuo, aggiornamento.