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Esclusivo TPI – Reduci di guerra con lo stress post traumatico: le storie dei militari italiani tornati dalla missione di pace in Bosnia

Immagine di copertina
Credit: TPI

Problemi di sonno, ansia e sensi di colpa. L’esposizione, ripetuta e continua, di ragazzi poco più che 20enni a violenze e degrado provoca ferite inguaribili. Ecco cosa devono ancora affrontare i soldati italiani tornati dal conflitto in Bosnia e affetti da Dspt

«M’o riporta a casa, vero? Tengo lui di figlio e basta». «Lo giuro!», risponde Matteo Lovoci. «Diciannove anni, ha diciannove anni». Matteo, in verità, non sapeva cosa stesse dicendo, quegli occhi di mamma però meritavano una risposta. È un pacifista, non vorrebbe mai sparare, ma sa che se non lo facesse perderebbe il posto in polizia ereditato da suo padre. Alla volta della Bosnia, a bordo della San Giorgio – la nave della Marina Militare specializzata in operazioni da sbarco –, è ancora convinto di tornare in Italia con il suo plotone al completo. Oggi, Matteo, sulla cinquantina, è un ex militare e protagonista di “Dannati e condannati: Welcome to Sarajevo” (Cairo, pagg. 256, euro 16,50), romanzo di Giovanni Luigi Navicello (Milano, 1970).

Il suo nome è fittizio, ma la sua storia è autentica. TPI lo ha raggiunto ed ha voluto rispettare il suo anonimato, perciò in quest’intervista è utilizzato, ancora, il nome Matteo. Il focus, nel caso di specie, è il conflitto, pardon, la “missione di pace” in Bosnia, a Sarajevo, ma il racconto in realtà è multifocale, non soltanto per il caleidoscopio narrativo di personaggi – o per via della preservazione delle lingue dialettali –, ma soprattutto per l’esposizione, ripetuta e continua, a episodi di violenza e di degrado contro cui questi ragazzi, poco più che ventenni, vanno a sbattere la faccia procurandosi ferite inguaribili. Un disturbo da stress post-traumatico (Dspt) che annienta tutto, progetti personali e desideri, perché verso il fronte si può partire, per così dire, preparati militarmente ma meno che mai umanamente.

Dalla cameretta al fronte
«Io ero l’uomo al comando, chi portava quei ragazzi nell’ex Jugoslavia», riporta a TPI Matteo. «Poco prima dello sbarco sulle coste jugoslave, un colonnello ci aveva dato l’ordine: “Arma in caccia”. Per tutti quanti noi, da addestramento, quell’espressione significava assalto, entrare in una dinamica di scontro. “Ma che arma in caccia… Non serve!” gli avevo risposto. “Tenente, esegua immediatamente l’ordine perché il portellone si sta abbassando. Arma in caccia e colpo in canna”, mi rimproverava. La sua determinazione mi aveva raggelato, mentre il portellone era ormai aperto. “Guardi lassù: quelle bocche da fuoco sono puntate su di noi, ci stanno aspettando. Faccia lei”. Questi erano stati i primi istanti sul campo per uno che il giorno prima viveva nella propria cameretta. Di fronte a quello scenario, non di pace ma di guerra, mi domandavo chi fossi per proteggere quei ragazzi», racconta visibilmente atterrito Matteo o, forse, la sua patologia: flashback simili scaraventano il soggetto nell’esperienza traumatica.

Quello del Dspt è un fenomeno contemporaneo. Secondo l’intelligence britannica, finanche l’esercito russo starebbe affrontando una crisi di salute mentale che influenzerebbe l’efficacia dei combattimenti. Nel dicembre 2022, gli psicologi russi avevano identificato circa 100 mila soldati con sindrome da stress post-traumatico, ma si ritiene che il numero, oggi, sia ancora più alto; Anche i soldati ucraini, a quasi due anni di guerra al fronte, sono logorati da problemi di sonno, ansia e sensi di colpa dopo avere visto i propri compagni essere spazzati via dalle bombe o carbonizzati dall’uso delle armi pesanti.

Non vedo, non sento, non parlo
«Come esseri umani, non siamo abituati a concepire un teatro di guerra. Tutti i soldati che ritornano da scenari similari, si trascinano per tutta la vita conseguenze psicologiche incalcolabili», interviene a TPI l’autore Giovanni Navicello. «I governi italiani hanno finta di non vedere la sindrome da stress post-traumatico fino al 2013. Da questo problema non si guarisce: i traumi si possono solo elaborare. E lo psicologo militare non può essere l’aiuto», commenta lo scrittore, inoltrandosi nell’incubo di Matteo.

«Sarajevo è una linea circondata dalle montagne bombardata decine di migliaia di volte in tre anni e mezzo. In un solo giorno è stata bombardata più di tremila volte». Il conflitto in Bosnia ed Erzegovina, avuto luogo durante gli anni Novanta nel contesto del disfacimento della Jugoslavia, è cessato con gli accordi di Dayton firmati nel dicembre 1995 su impulso dalla comunità internazionale a seguito, soprattutto, dell’assedio di Srebrenica: un genocidio in piena regola con oltre ottomila vittime.
«Ognuno di noi ricorderà dove fosse l’11 settembre del 2001, ma nessuno ricorderà dove fosse o cosa stesse facendo l’11 luglio del 1995. La strage di Srebrenica ha provocato un numero di morti tre volte superiore a quello delle Torri Gemelle. La missione di implementazione, dove si sono trovati catapultati Matteo e i suoi compagni, doveva servire a far rispettare i trattati di Dayton successivamente alla loro sigla, quindi in uno scenario di presupposta cessazione della guerra civile. Era, inoltre, uno dei peggiori inverni balcanici della storia con meno 28 gradi. Non potevano attendarsi per via dei cecchini sui palazzi e degli scontri a fuoco sempre dietro l’angolo», spiega l’autore, a cui fa eco il testimone.

«La Nato pagava l’affitto per utilizzare un edificio distrutto, subito fuori Sarajevo. Non avevamo letti o brande per dormire ma delle tavole di fortuna prese dalle strade. Andavamo nei cantieri o in depositi edili, che prima sminavamo, per trovare dei tubi e costruire una rete fognaria. Così, dopo 8-10 ore di pattugliamento, invece di dormire e riposare, ci costruivamo il bagno».

Sotto shock
«All’inizio volevo fare l’obiettore di coscienza. Ma quando nel 1994 è arrivata la chiamata alle armi, mio padre mi aveva consigliato di arruolarmi, altrimenti avrei perso l’opportunità di partecipare ai concorsi pubblici. Perciò sono partito per la leva, finendo per fare il tenente comandante di plotone nel peggiore scenario di guerra di tutti i tempi», chiarisce Matteo, a cui chiedo di cosa si fosse occupato, esattamente, il suo gruppo. «Noi italiani eravamo parte della Brigata bersaglieri Garibaldi, inglobava cioè più reparti come il nostro. Ci occupavamo di fare checkpoint, sminare ed esplorare: dovevamo trovare armi e munizionamento vietato per il mantenimento degli accordi di Dayton. Quando siamo arrivati noi, Sarajevo era buia ma di notte si illuminava con i traccianti dell’artiglieria pesante», illustra Matteo durante il suo doloroso scavo nella memoria.

«Per normativa, indossavamo la bandiera dell’Italia per essere riconosciuti. Perciò gli abitanti ci avvicinavano per manifestarci la loro rabbia: le mine nelle loro case erano per larga parte di provenienza italiana e spesso ci chiedevano di bonificargliele. In Bosnia sono state piazzate milioni di mine: non ci sono mappe delle loro posizioni. Per cercarle e disattivarle, si è costretti ad operare al buio. Quando giravamo tra i quartieri, oppure, accadeva che i bambini ci fermassero e ci ripetessero una frase: “Italia Viva Mafia”. Ci ringraziavano per la mafia, come se avesse contribuito a far avere le armi a chi avesse subìto l’assedio. Forse era nato qualcosa, ma a noi non era dato sapere», riporta lucidamente Matteo.

«Le madri delle vittime di Srebrenica, pur di avere protezione, erano disposte a tutto. Nonostante fossero state stuprate da alcuni militari, cercavano il loro aiuto. Aiuto dai loro stessi carnefici. È paradossale, lo so. Una situazione di disagio psichico. Io ero solo un ragazzo di 26 anni, il compagno più piccolo aveva 19 anni. S’immagini cosa possa significare affrontare situazioni similari per sei mesi. Un giorno siamo stati mandati in un deposito per rimuovere dei container. A un certo punto troviamo una fossa comune. “Cosa faccio adesso?”, avevo chiesto, presagendo la risposta: “Dovete svuotarla, vedete voi come”. Perciò avevamo dovuto procedere a mani nude, afferrando quei morti e gettandoli in dei camion… dell’immondizia. Si, ci avevano mandato dei camion dell’immondizia. Per chi arriva dal mondo civilizzato, questi scenari sono impossibili. Quei visi e quegli odori sono rimasti scolpiti nella mia memoria», racconta visibilmente toccato l’ex soldato, segnato per sempre. «Abbiamo una chat fra tutti quanti noi commilitoni, ma di tutto questo non parliamo mai. Tanti altri miei colleghi non li ho ritrovati mai più, né sull’elenco telefonico, né sui social, né da nessun’altra parte. Non so cosa pensare».

Imbarazzo istituzionale
Mentre in Gran Bretagna e Stati Uniti il tema dei traumi psicologici indotti dall’esperienza bellica è molto dibattuto, in Italia vertici politici e militari hanno sempre provato imbarazzo ad affrontare l’argomento perché mal si adatta alla retorica delle “missioni di pace”. Solo nel 2013, infatti, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il ministero della Difesa ha reso noti, per la prima volta, dati ufficiali – casi di suicidio compresi – e ammettendo di argomentare numeri probabilmente sottostimati, a causa di mancate segnalazioni o della tendenza a nascondere la patologia.

Un importante lavoro di ricerca e di denuncia è stato portato avanti, negli anni, dall’Osservatorio Nazionale dei Suicidi nelle Forze dell’Ordine (Onsfo) dell’organizzazione non governativa Cerchio Blu che raccoglie e analizza i suicidi e gli eventi di omicidio-suicidio degli operatori di polizia italiani. Gli ultimi dati elaborati sono tragici: dal 2014 al 2022, l’Onsfo ha registrato un totale di 406 casi di suicidio tra gli appartenenti alle forze di polizia italiane. Il numero più alto di suicidi si è verificato nei carabinieri – l’unica ad appartenere alle forze armate italiane – con 125 casi, seguiti dalla polizia di Stato con 117 casi, dalla polizia penitenziaria con 57 casi, dalla polizia locale con 55 casi e dalla guardia di finanza con 52 casi. Inoltre, sono stati registrati 20 casi di omicidio-suicidio.

«A 20 anni dal conflitto, ho visitato Sarajevo. A un tassista avevo chiesto come stesse andando il processo di pacificazione. Mi aveva risposto di avere una borsa pronta e il passaporto già in tasca per scappare non appena avrebbe avvertito l’avvisaglia di un disordine. C’è come una psicosi di massa, specie per via del sempre più evidente ritorno verso il nazionalismo. È una polveriera, perciò i giovani bosniaci stanno andando via», illustra il romanziere giunto alla sua terza pubblicazione, dopo aver collaborato con Alda Merini per la prefazione, nel 2008, de “L’età ingiusta”.

«A Sarajevo non esiste più gran parte degli archivi storici. Durante la guerra, le biblioteche erano state tra le prime strutture bombardate perché si cancellasse la memoria storica del Paese, compreso il ricordo di una convivenza pacifica con i musulmani. A ben guardare la carta geografica prima e dopo le guerre dei Balcani, non è cambiato nulla. Nessuno ha ottenuto niente e tutto si poteva evitare. Quando si sono siglati gli accordi di Dayton, si pensava che tutto si fosse sistemato ma si è solo arrivati ad accettare delle follie. Ad esempio, nella Bosnia che conosciamo oggi esiste una specie di governo federale dove a turno il presidente cambia a seconda dell’etnia e le province hanno piccole costituzioni differenti. Le scuole separano i musulmani dagli ortodossi e dai cristiani: l’unica materia in comune, fra loro, è la matematica. Se non si comincia dall’educare alla civile convivenza i bambini, come pensiamo che possa finire questa storia?», conclude Navicello.

«Dopo i sei mesi trascorsi a Sarajevo, avevo diritto a 10 giorni di ferie. Dieci svelti giorni prima di ripartire per un nuovo fronte, la guerra del Kosovo, senza alcuna gestione delle dinamiche psicologiche. Così, la notte prima, ho scritto la lettera delle mie dimissioni e l’ho consegnata all’ufficiale di picchetto della mia caserma. Quando ho detto ai miei genitori che avrei lasciato l’Esercito, non l’hanno presa bene. Loro non conoscevano tutte quelle esperienze fortemente traumatiche, avevano visto soltanto che avessi ottenuto un posto fisso. Mio padre, in particolare, si vantava che fossi un ufficiale dell’Esercito e quando l’ho lasciato, e al paese s’è saputo, ha fatto una figuraccia», termina amaro Matteo, non prima d’aggiungere un particolare fondamentale. «Una volta tornato dal fronte, ho avuto la grazia di incontrare la donna della mia vita. Una donna speciale che da subito si è fatta carico dei miei stress. Mia moglie mi ha salvato la vita».

Per citare un grande pensatore critico, Raoul Vaneigem, «siamo i figli di un mondo devastato, che cercano di rinascere in un mondo da creare. Imparare a diventare umani è la sola radicalità».

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