Sopravvissute al patriarcato: storie di donne contro il femminicidio
Marta ha denunciato il partner violento. Ma ora lui fa il volontario dove lavora. Fatima cambia spesso impiego per evitare molestie nei campi. Maria ha combattuto anni per riavere la sua casa occupata dal marito manesco. Ecco i racconti di chi ha sfidato gli abusi. E non è stata creduta. A volte, neanche dai giudici
Silvia (il nome è di fantasia per tutelarne la privacy) è una donna che lavora come hostess per una compagnia aeroportuale. Un giorno chiede un appuntamento a un sindacalista del settore perché vorrebbe chiedere, anche per le sue colleghe, informazioni sulla possibilità di essere esonerate dal lavoro notturno in aeroporto. Silvia è in un ufficio, per chiedere al rappresentante sindacale una consulenza, un parere tecnico su una questione lavorativa. D’improvviso, però, l’uomo le palpa il seno, poi le infila una mano nei pantaloni. La donna è attonita, resta inerme per dieci secondi, prima di urlargli contro e uscire da quella stanza. Non si aspettava questo comportamento, una molestia da un collega, per di più in un contesto formale ed ufficiale. Poi però ha denunciato il suo molestatore. Per il tribunale di Busto Arsizio (Varese), quei dieci secondi sono bastati per assolvere l’uomo dall’accusa di molestie sessuali, perché il giudice ha ritenuto che in quei brevi istanti l’uomo non avesse compreso l’assenza di consenso da parte della donna. Come dire che se alla molestia la donna non reagisce entro dieci secondi, lì vi è la prova del consenso prestato. «Una sentenza che cancella trent’anni di giurisprudenza e condona la violenza sessuale e sessista», denuncia a TPI Teresa Manente, avvocata penalista responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, da trent’anni impegnata nella difesa dei diritti delle donne che denunciano la violenza maschile.
E, purtroppo, quello del caso della hostess non è l’unico magistrato a pensarla così. Qualche tempo fa un giudice di Roma ha assolto un bidello, giudicando «palpata breve» la molestia commessa nei confronti di una studentessa minorenne. Anche in questo caso è stato detto alla giovane donna che poi lo ha denunciato che avrebbe dovuto reagire in un tempo brevissimo. È una sorta di inversione dell’onere della prova della molestia che, in casi come questi, è a carico delle donne. Tant’è.
A processo per aver denunciato
C’è anche chi, per aver raccontato al proprio capo delle molestie subite dal manager dell’impresa in cui lavorava, ha subito una denuncia per diffamazione, che poi è stata archiviata. È il caso di una ventenne romana che all’inizio non voleva denunciare il molestatore, ma poi ha raccontato tutto soltanto al proprietario dell’azienda, che lo ha licenziato in tronco. Il manager, si scoprirà nel corso del dibattimento a suo carico, era «abituato» a maltrattare le dipendenti donne e a molestarle con battute a sfondo sessuale. Così ora il processo in corso è soltanto uno, a carico dell’uomo, accusato di maltrattamenti. Ma come è possibile che spesso sia la donna a dover provare le accuse, oltre che a non essere creduta? «L’assoluta aspettativa di impunità che vive l’uomo violento, l’arroganza che arriva persino a puntare il dito contro la donna che maltrattava e molestava, è un elemento che spesso emerge nelle aule dei tribunali», ci spiega l’avvocata. «Si sentono legittimati a utilizzare il corpo delle donne come fossero prede».
Teresa Manente ha difeso centinaia di donne vittime di violenza. Il suo primo caso, nel 1997, fu una donna vittima di maltrattamenti da parte del marito, che aveva trovato rifugio in una casa gestita dall’associazione Differenza Donna: una decina di querele ma nessun giudice aveva pensato di riunirle querele e configurare l’abitualità dei maltrattamenti. Non c’era la cultura giudiziaria per far emergere questo tipo di reati, tutti venivano trattati come singoli episodi. E così ogni volta che prendevano le botte, una denuncia, e in teoria un processo, per lesioni, o per le urla, o per quello che era successo.
«Non esisteva una cultura giudiziaria attenta e sensibile alla violenza del partner durante e dopo la convivenza, in particolare quando la donna decide di chiudere la relazione con quell’uomo. Non erano previste misure cautelari quali gli ordini di allontanamento dalla casa di convivenza o il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalle donne che denunciavano. Queste misure sono state introdotte nel 2001 su richiesta delle avvocate dei centri antiviolenza così come il reato di atti persecutori, introdotto solo nel 2009 sempre sulla base dell’esperienza dei Centri antiviolenza. Far emergere i diritti delle donne all’interno dei processi penali è stata una battaglia dura. Insieme alle operatrici dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio chiamate a testimoniare nei processi abbiamo promosso una cultura giudiziaria che tenesse conto della dimensione di genere, dando ai giudici una lettura dei fatti avulsa da pregiudizi e stereotipi di genere che ancora oggi sono il maggior ostacolo all’accesso alla giustizia delle donne», ci spiega Manente.
Il finto regista
Quando TPI ha incontrato l’avvocata nel suo ufficio, dove spiccano le targhe e i riconoscimenti per il lavoro svolto, tra cui l’onorificenza di commendator al merito da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in quegli stessi giorni, si celebrava una vittoria giudiziaria importante. Il 1° dicembre scorso, infatti, il finto regista Claudio Marini è stato condannato a 11 anni e 9 mesi di reclusione, in primo grado, perché considerato colpevole di violenza sessuale aggravata. Un’accusa per cui Marini non si è mai pentito, né ha chiesto scusa, nel corso del dibattimento che lo ha visto contrapposto alle dodici donne, tutte giovani, aspiranti attrici che non si conoscevano tra di loro, e che lo hanno denunciato in maniera autonoma, in momenti e luoghi diversi.
Infatti, in questo caso, i procedimenti sono stati avviati tutti in maniera separata, per poi riunirsi man mano che gli inquirenti constatavano le similitudini. È poi nato il processo in cui “Alex”, così si faceva chiamare il finto regista, è stato condannato a oltre dieci anni di carcere. Per aver promesso la partecipazione a film come “Miele Amaro”, che non si sono mai fatti, mentre secondo i giudici le molestie sono avvenute. Eccome. Lo hanno raccontato ai magistrati del tribunale di Roma dodici donne che hanno subito gravi ripercussioni, psicologiche e sociali, ma anche lavorative, dato che non hanno mai più voluto fare provini, soffrendo da allora di panico e di ansia, vivendo tutta la sofferenza che segue a una violenza. Lo sa bene l’associazione Differenza Donna, di cui l’avvocata Manente è responsabile legale, a capo di un gruppo di venti avvocate. Associazione che gestisce il numero telefonico antiviolenza 1522, insieme a 23 centri e sportelli antiviolenza in tutta Italia, e che si è costituita parte civile anche nel processo contro Marini.
«Questa sentenza – ci dice Manente – parte dalla forza delle donne del mondo dello spettacolo, dalla consapevolezza dei loro diritti negati da molestie e violenze sessuali che ancora oggi restano invisibili, perché giustificati o normalizzati da pregiudizi sessisti. Se vuoi fare l’attrice devi essere disponibile a fare tutto. È stato un processo complesso ma giustizia è fatta, resta l’amarezza per il fatto che l’imputato è libero, la misura della custodia cautelare in carcere è cessata per decorso dei termini durante il dibattimento. La celerità dei processi invocata dalle norme attuali non viene quasi mai attuata. Ma procederemo con la richiesta di una misura di prevenzione, come previsto dalla legge».
Violenza domestica
Già, perché la violenza lascia strascichi e ferite profonde, forse ancora di più nelle giovanissime donne. È il 2018, siamo a una festa, in provincia di Roma, una festa di minorenni, liceali, con alcol, musica. Una ragazza è ubriaca. Ha sedici anni. Un suo coetaneo la violenta. Denuncia, viene sentita tre volte, gli amici e le amiche non hanno parlato né dimostrato alcuna solidarietà. Ma, grazie al suo coraggio, e nonostante l’omertà di chi doveva esserle vicino, ha ottenuto da parte del Tribunale dei minorenni la condanna del ragazzo che l’ha costretta a subire un rapporto sessuale contro la sua volontà.
È quasi sempre nelle case che succedono le violenze, tra le “mura domestiche”, in quei nidi che nidi non sono. Come racconta Maria (nome di fantasia). Una donna gravemente malata, vittima di violenze da parte del marito fin dal 2013. Hanno due figli, per paura di ritorsioni e che lui se la prenda coi bambini, non denuncia. Fino al 2017, quando appunto il compagno non solo si scaglia contro la madre, ma anche contro la figlia, che finisce in ospedale. Esasperata, la donna denuncia il marito, che nel frattempo l’aveva anche minacciata di morte, in uno dei tanti episodi di violenze e maltrattamenti.
Dopo la denuncia, Maria se ne va di casa – dalla sua casa, di cui ha pagato interamente il mutuo e che è intestata esclusivamente a lei: è lei che abbandona il tetto coniugale, trasferendosi in un appartamento in affitto, a sue spese. Tutto pur di stare lontana da lui. Inizia la battaglia in sede civile per rientrare in possesso dell’abitazione che le spetta di diritto. Cerca di trovare un accordo. Impossibile: lui vuole che lei gli intesti la casa e continua con le intimidazioni, le minacce, i comportamenti violenti. Minaccia di farsi saltare in aria con tutta l’abitazione. Dopo due anni, il Tribunale di Roma emette nei confronti dell’uomo la misura cautelare del divieto di avvicinamento a luoghi frequentati abitualmente da Maria. È poi rinviato a giudizio. Sul piano civile, sempre a distanza di due anni, i giudici decidono che l’uomo deve lasciare la casa e che l’abitazione deve tornare alla sua proprietaria e ai figli della coppia. Pochi mesi dopo, nonostante il divieto di avvicinamento, lui si presenta nuovamente sotto l’abitazione. Vista l’escalation, il Tribunale della Capitale dispone per l’uomo anche l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria. Prosegue l’iter giudiziario, ci sono due procedimenti a carico dell’imputato. Siamo alla fine del 2023 e il processo è ancora pendente.
Chi non fa notizia
Fanno notizia, purtroppo per loro, le donne che vengono ammazzate. Come Saman Abbas. Differenza Donna si è costituita parte civile, insieme ad altre associazioni, al Comune di Novellara e al fratello della vittima, anche in questo processo. Non aveva nascosto nulla di quello che le stava accadendo, la ragazza di origine pakistana. I servizi sociali, dunque le istituzioni, sapevano tutto. Che le era stato proibito di andare a scuola, che non aveva alcuna relazione sociale, che stava sostanzialmente chiusa in casa, e che non voleva sposarsi col cugino di undici anni più grande di lei, sottraendosi al matrimonio combinato. Era anche scappata, una volta, in Belgio ed era tornata a casa della sua famiglia solo perché lì tenevano i suoi documenti. Voleva prendere la patente, studiare, vivere con un ragazzo conosciuto sui social. Come è andata a finire lo sappiamo tutti.
È attesa per il 19 dicembre la sentenza di primo grado nei confronti dei genitori, dello zio e dei due cugini che sono tutti imputati per l’omicidio di Saman Abbas, che aveva 18 anni quando è stata ammazzata, e il cui cadavere è stato nascosto in un campo e ritrovato mesi dopo la sua scomparsa. «Saman – afferma Teresa Manente – è stata uccisa perché era una ragazza forte, coraggiosa, ribelle alle consuetudini della sua famiglia che trovano radici nella cultura patriarcale che non ha confini geografici. La sua uccisione è stato un atto punitivo: aveva offeso l’onore del padre e della famiglia. Non dimentichiamo che l’onore era nel nostro Codice penale fino al 1981, è stato abrogato solo grazie al coraggio di una ragazza allora sedicenne che rifiutò il matrimonio riparatore. Saman aveva chiesto aiuto alle istituzioni, raccontato la sua storia di maltrattamenti, che è stata sottovalutata e di conseguenza nessun provvedimento contro il padre è stato emesso. Forse, se si fosse proceduto con una misura cautelare nei confronti del genitore, avrebbe potuto essere salvata. Ma le donne non sono credute, nonostante il numero di femminicidi che rappresentano solo l’ultimo atto di soprusi che il partner violento agisce nei confronti della donna. I maltrattamenti a cui le donne si ribellano e denunciano vengono confusi troppo spesso con conflitti di coppia, pregiudicando non solo i diritti e la libertà delle donne ma anche i diritti dei bambini e delle bambine. Così anche nei tribunali civili le donne non sono credute quando chiedono l’affidamento dei figli. Introdurre nuove norme, inasprire le pene è un passo importante ma da solo non è un deterrente efficace. Occorre investire in una formazione obbligatoria e continua per tutti gli operatori a contatto con le donne vittime di violenza maschile: forze dell’ordine, assistenti sociali, consulenti tecnici, psicologi, magistrati, avvocati. E lavorare sulle cause culturali del fenomeno, contro stereotipi e pregiudizi di genere che pretendono la subordinazione del ruolo della donna al potere e al controllo maschile specie in ambito familiare».
Le molestie come sistema
Ma ci sono dei contesti in cui è più complicato per le donne liberarsi. In una parte del mondo agricolo, per esempio, dove alle situazioni di assoggettamento lavorativo, poi, spesso si accompagnano quelle di condizionamento sessuale. C’è chi come Layla, ad esempio, ha raccontato che il suo datore di lavoro ha avuto rapporti in magazzino con alcune delle operaie agricole con cui lavorava e che, in generale, non perde mai occasione per fare battute o toccare le donne che lavorano lì con lei. Parole che fanno il paio con quelle di Fatima che conferma di aver ricevuto palpate e molestie. «Sempre, da tutte le parti. Sia dai padroni che dagli altri operai. Più sei straniera e più si azzardano a toccare. Ma io ho sempre reagito contro questa cosa. Non mi sono mai stata zitta. Ma succede sempre. E questo è un motivo per cui cambiavo lavoro», ha raccontato a TPI. «Le parole di queste donne sono un po’ la cartina di tornasole dei modelli lavorativi della Piana del Sele, dove la violenza sistemica dello sfruttamento non viene esposta allo sguardo esterno. Di un luogo produttivo in cui l’iper-meccanizzazione del processo di raccolta e i grandi volumi di merce da consegnare entro i tempi dati richiedono spesso gli straordinari come norma nei magazzini», ci ha spiegato l’antropologo Giuseppe Grimaldi, che ha raccolto le storie delle braccianti molestate, malpagate e sfruttate nella provincia di Salerno e le ha inserite nella ricerca “Lavoro e sfruttamento femminile nella Piana del Sele”, che è il titolo dello studio, nato nell’ambito del progetto Our Food Our Future finanziato dalla Commissione europea e promosso da WeWorld insieme ad altre 15 organizzazioni per favorire nuovi modelli di consumo alimentare che garantiscano, tra le altre cose, il rispetto dei diritti umani dei lavoratori e delle lavoratrici.
«Le molestie sessuali sono una questione di potere», è una frase, questa, che abbiamo ascoltato più volte nelle scorse settimane seguite alla morte di Giulia Cecchettin. È risuonata più volte anche alla Camera dei Deputati durante la conferenza stampa organizzata pochi giorni fa dalla Federazione delle Donne Evangeliche in Italia per presentare il fascicolo “16 giorni contro la violenza”. E che viene in mente a leggere gli ultimi dati dell’Inail, relativi al 2021, per ciò che riguarda la violenza contro le donne in ambito lavorativo. Nel report si fa riferimento a 1.404.000 donne tra 15 e 65 anni che hanno dichiarato di aver subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di datori di lavoro, capi o colleghi. Si tratta di una cifra enorme che rende questo fenomeno odioso in un fenomeno endemico, violento, basato sulla convinzione di impunità di datori di lavoro, capi o colleghi. È un’impunità che si trasforma in diritto e che autorizza gli uomini ad esercitare violenza sulle donne in quanto padrone, capo o solo anche maschio.
È il patriarcato che funziona così, un sistema a cui le donne a cui abbiamo dato voce in questo articolo si sono ribellate e spesso non sono state ascoltate, credute, a volte neppure dai giudici e dalle forze dell’ordine. E che per questo non riescono sempre o del tutto a liberarsi. Come Marta (altro nome di fantasia) che si è rivolta alla sua delegata sindacale perché cinque anni prima aveva denunciato il proprio compagno che le aveva fatto violenza in modo grave, ed ora, dopo che il compagno ha scontato la sua condanna a cinque anni, se lo ritrova a fare volontariato nell’ente pubblico in cui la donna lavora e quindi è costretta a vederlo ogni giorno. Marta oggi è disperata ed incredula, così la delegata sindacale, che ha consigliato a Marta di contattare il Centralino per l’assistenza antiviolenza, offrendosi di accompagnarla anche dal Questore di competenza. Ma Marta, nel frattempo, sta cercando una nuova occupazione, anche se la sua paura di essere perseguitata resta. Sono le storie di chi ha coraggio, di chi si è ribellato al patriarcato, ma resta ancora senza potere.