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Il Direttore scientifico dello Spallanzani a TPI: “I test sierologici non sono la soluzione”

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Giuseppe Ippolito. Credit: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Intervista a Giuseppe Ippolito, Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma: “Riapertura il 4 maggio? Inutile affannarsi, certo non si potrà tenere tutto chiuso, ma bisogna aspettare per la decisione finale. La situazione va meglio, ma non si può dire che l’epidemia sia finita, esiste anche il rischio di una seconda ondata. Le aree che ancora oggi crescono sono la provincia di Milano, Brescia, Torino e un pezzetto di Emilia Romagna. Tutto il resto è stazionario. I medici ed il personale sanitario hanno fatto miracoli Le mascherine? Sarebbe meglio portarle sempre, come in Giappone. Mi fa riflettere che i Pronto Soccorso italiani oggi siano tutti vuoti, sembra che il Covid abbia fatto guarire tutti. È necessaria una attenta valutazione dei bisogni di salute e soprattutto rafforzare la medicina del territorio, a partire dal ruolo e dal rapporto contrattuale dei medici di base. Ce ne sono di bravissimi ed altri che stanno troppo in tv”

Innanzitutto come sta?
Impegnato e stanco. Sono ormai tre mesi che viviamo sull’emergenza Coronavirus quindi vivere tre mesi di emergenza è una cosa veramente difficile da affrontare.

Come valuta i dati positivi forniti dalla Protezione Civile? Si parla di un calo netto dei ricoverati e di un numero di guariti mai così alto, dati certamente incoraggianti. Però i pareri degli esperti sono un po’ contrastanti: Walter Ricciardi, dell’Oms dice che una seconda ondata epidemica è certa mentre le parole di ieri del professor Locatelli sono state molto rassicuranti. Lei che cosa pensa?
Io credo intanto che dobbiamo valutare i dati giorno per giorno. Chi dice che l’epidemia è finita non si rende conto che venerdì 17 aprile abbiamo fatto ancora 575 morti. E più di 500 morti sono ancora un numero rilevante. E’ evidente che dovremmo essere in una fase discendente per molte parti dell’Italia, ma come in tutte le epidemie anche questa epidemia potrebbe ripartire. Le decisioni che il governo prenderà saranno certamente guidate da un lato dai numeri e dall’altro dalle misure che verranno messe in atto per fare progressive riaperture ma in grande sicurezza.

Quindi lei questa ipotesi di riapertura del 4 maggio come la vede? Un po’ affrettata?
No, non dico sia affrettata. Ritengo che i Paesi debbano fare un bilancio. Ci muoviamo in un contesto europeo dove i Paesi stanno decidendo che cosa aprire e quando aprire. Abbiamo ancora due settimane e due settimane serviranno a capire qual è la situazione. Se pensiamo alla situazione di oggi vediamo che le aree che crescono sono la provincia di Milano, Torino e un pezzetto di Emilia Romagna. Tutto il resto è sostanzialmente stazionario, ieri (venerdì 17 aprile, ndr) è cresciuta ancora un po’ Brescia ed è vero che a Brescia ci troviamo in una zona della Lombardia che di fatto è la Regione che spinge di più per riaprire in tempi più brevi. Io credo che bisogna evitare allarmismi ed evitare ottimismi. Bisogna guardare i dati giorno per giorno e cercare di capire qual è la soluzione migliore. E’ evidente che i modelli ci indicano che ci può essere una seconda ondata ma i prossimi 15 giorni guideranno e come lei ha visto ci sono Paesi che dicono che la decisione la prenderanno tre giorni prima. Io credo che anche il nostro governo sarà guidato dall’andamento dell’epidemia e dalla valutazione dei rischi e dei benefici.

Quindi lei dice che bisognerebbe prendere delle decisioni a stretto giro?
Bisogna guardare i numeri giorno per giorno. Credo che in situazioni di questo tipo siano sbagliate sia le posizioni che non considerano sufficientemente i numeri ma anche quelle di eccessiva esposizione. Bisognerebbe dare una calmata mediatica. Sembra che al mondo esista solo il Coronavirus. La gente muore di altre malattie, nessun per esempio si ricorda che abbiamo ancora un’epidemia di Ebola in Sierra Leone, ci sono persone con l’infezione da HIV, come anche pazienti che hanno il cancro ed altre gravi malattie. Poi ci sono anche le guerre civili. Tutto è come se fosse stato cancellato. Bisognerebbe provare a ragionare sul fatto che il mondo non è fatto solo di una malattia. Il mondo è fatto di povertà, il mondo è fatto di obiettivi non raggiunti. Il mondo è fatto di crisi umanitarie e politiche che sono solo apparentemente sopite.

E allora forse è proprio per la povertà crescente di cui lei parla che c’è una spinta alla riapertura. Proprio per evitare un collasso dell’economia
Infatti come le ho detto prima credo che bisogna capire che cosa sia sostenibile per il Paese. Ci sono Paesi che hanno fatto scelte di sottovalutare i rischi tipo il Regno Unito o gli Stati Uniti. Noi invece siamo un Paese che ha fatto scelte sin dalla fine di gennaio molto coraggiose. Siamo un Paese che ha messo in atto misure preventive. Non abbiamo bisogno di altri ma abbiamo bisogno di sentire come vanno giorno per giorno le cose. Le istituzioni stanno lavorando a questo e io credo che bisogna fare lavorare le istituzioni. Non le persone. Credo che uno dei grandi problemi sia che c’è poco parlare di istituzioni e molto di persone.

Lei prima citava la provincia di Milano che registra ancora un trend molto elevato
A Milano le riaperture si potranno fare solo con misure rigide. Milano ieri ha fatto il + 2,17 sui 15mila casi sono sempre 300 e rotti casi. Quando si leggono le percentuali bisogna leggerle sulla popolazione e sul numero dei casi. Sarebbe ben diverso il conto in una piccola aerea o in una piccola provincia o in una piccola Regione tipo il Molise. La Lombardia è sicuramente stata attraversata da un’epidemia difficilmente sostenibile. Una situazione come quella della Lombardia è una situazione difficile da contenere.

A proposito della Lombardia. Ieri in un’intervista al nostro giornale il professor Galli (direttore del Dipartimento di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, ndr) ha ribadito che secondo lui in Lombardia c’è stato un clamoroso fallimento della Sanità territoriale. E’ d’accordo?
E’ evidente però che quella è una scelta politica che è stata fatta nel corso di molti anni. La Lombardia in questi anni ha privilegiato gli ospedali ad alto livello di specializzazione e tanto privati. Questo lo deve dire. Ha spostato l’interesse sul privato che ha come obiettivo fare profitto, trascurando il modello di gestione territoriale e investendo meno sulla Sanità pubblica. Vorrei dire però che questo non è solo il modello della Lombardia. Anche altre regioni si avviano a dare al privato fette importanti di Sanità. Incluso il Lazio. Io, però, sono per gli ospedali pubblici e per un centralismo della gestione delle Malattie infettive.

Restando sulla Lombardia. Il nostro giornale ha condotto una lunga inchiesta sul focolaio lombardo e sulla mancata chiusura di Alzano Lombardo e Nembro. La decisione secondo lei doveva essere presa a livello centrale o regionale?
Non entro in queste dinamiche perché io credo che le Regioni in una situazioni quale quella sulla modifica del titolo V abbiano gestito questa situazione in grande autonomia. E’ evidente che ci sia stata una ritardata valutazione della situazione in quelle zone.

E quindi possiamo dire che la mancata decisione sulla chiusura di Alzano e Nembro ha determinato l’alto numero di morti e di contagi?
Sicuramente quel ritardo ha favorito in maniera drammatica la circolazione del virus. Ma se lei legge i dati che l’Eco di Bergamo ha dato dei morti per quell’area si rende conto come questa situazione sia una situazione totalmente diversa.

Tornando alla Fase 2? Siamo pronti oggi?
Oggi è il 18 parliamo ancora di una cosa per la quale abbiamo ancora 15 giorni di ragionamento. Dobbiamo far sì che questo ragionamento sia sereno senza che si determinino eccessive pressioni. Io credo sinceramente che non sia possibile tenere un Paese totalmente chiuso. Bisognerà arrivare a un modello di riapertura progressiva sulla base dei dati epidemiologici e con misure ben definite e scrupolosamente applicate dai cittadini. Tenendo presente che ci sono alcuni pilastri che oggi sono essenziali. Primo è che la gente possa lavorare da casa e per questo è necessario che si aumenti la potenzialità di internet, far sì che si forniscano strumenti potenti per poter permettere alle persone di lavorare da casa, che si creino piattaforme di condivisione e che si creino sistemi di controllo per verificare se la gente lavora o non lavora, perché dobbiamo anche considerare questo. Poi dobbiamo capire anche altri aspetti e capire quali saranno le misure. La misura sulla quale si dibatte di più sono le mascherine sul quale si è aperto l’ampio dibattito ‘Mascherine sì, mascherine no?’ Io sono favorevole all’utilizzo delle mascherine anche in assenza di una provata efficacia, perché in ogni caso bloccano almeno in parte l’emissione di particelle. Questo farà bene a tutti. Non ci dimentichiamo che il Giappone ha un programma di uso delle mascherine in tutto il periodo invernale e insieme al trattamento con gli antivirali, altra cosa di non comprovata efficacia, ha una struttura di popolazione anziana come la nostra che è andata sostanzialmente meglio rispetto a noi. E il terzo pilastro sarà come evitare che si infettino gli ospedali. Il quarto che cosa fare degli anziani. Perché è facile dire teniamo a casa tutti gli anziani, questo significa non conoscere la struttura della popolazione italiana. Se uno dice prendiamo le persone che hanno più di 55 anni e le teniamo a casa significa che non abbiamo idea di come è fatta la popolazione italiana. E la struttura della popolazione italiana è composta da una popolazione prevalentemente anziana. Cercare di tenere tutta questa gente a casa ha anche altri effetti: a queste persone gli si riduce la massa muscolare, peggiorano le condizioni, compare la depressione e via dicendo. Quindi dobbiamo pensare che ad ogni azione c’è un rischio. Ma anche non fare niente è un rischio. Anche pensare che la gente possa stare dentro casa pensando che non faccia niente è un problema. Se non riusciamo a capire che ci vuole una valutazione dei rischi e dei benefici non ne veniamo assolutamente fuori.

Quindi dobbiamo imparare a convivere con questo virus?
Dobbiamo imparare a conviverci perché dovremo conviverci a lungo. Quindi se uno deve fare una cosa di questo tipo deve decidere cosa vuole fare, in che maniera e come la gestisce.

E le nostre vite con la fase 2 come cambieranno a questo punto?
Le nostre vite sono già cambiate, bisognerebbe dire come cambieranno ulteriormente. Non credo che si possa pensare che il mondo possa stare chiuso sempre. Dobbiamo capire che cosa possiamo fare e penso che per questo ci siano gli scienziati che debbono fare gli scienziati e che debbono dire chiaramente qual è la situazione e che i politici debbano tenere in debita considerazione quello che dicono gli scienziati. Devono anche pensare anche che un errore potrebbe essere pericoloso ma anche non fare niente nell’attesa che succeda qualche cosa potrebbe essere ugualmente pericoloso. Bisogna fare delle scelte, la vita è fatta di scelte. Ogni volta che si fa una scelta sappiamo che ci prendiamo dei rischi. Bisognerà capire quanti letti avremo, che cosa succede con l’utilizzo delle terapie intensive, come si tengono liberi gli altri ospedali per evitare di non curare il cancro. Se andiamo a vedere i Pronto soccorsi del Lazio ora notiamo che adesso sono di fatto vuoti. Abbiamo detto per anni che non c’era sufficiente recettività dei Pronto Soccorsi e ora sono vuoti? Che cosa è successo? Le persone sono tutte morte? Le persone non hanno più bisogno? Sto scorrendo i codici rossi di adesso. C’è un codice rosso al Sant’Andrea, al Santo Spirito invece non c’è nemmeno un codice rosso. Al San Camillo non c’è nessuno codice rosso. Al Policlinico non c’è nessuno codice rosso. Che cosa è successo? Al Bambin Gesù in questo momento ci sono solo 4 bambini al Pronto Soccorso. Sono guariti tutti? Il Covid ha fatto guarire tutti?Lei pensi solo a che cosa c’era qualche mese fa. E’ cambiata la domanda di Salute e allora dobbiamo riflettere su che cosa significa questo cambiamento. Dobbiamo ridefinire un modello di gestione perché sennò così non ne veniamo fuori. Per anni abbiamo detto che il sistema implodeva che non si poteva fare niente e che c’era bisogno di chissà che cosa e ora ci troviamo con il Pronto Soccorso vuoto.

Perché si è ridotta la circolazione con il lockdown
Sì, perché si è ridotta la mobilità e si sono ridotti gli incidenti. Però se lei pensa che in posto come il pronto soccorso del San Camillo in questo momento ha solo 31 persone. Lei in un altro momento avrebbe detto che dentro al San Camillo c’erano 100 persone. Questa è una cosa sulla quale riflettere. Com’è cambiata la richiesta di salute? I medici di base in questa epidemia hanno avuto difficoltà a raggiungere i pazienti. Un po’ per paura e un po’ perché si è creata la situazione di dovere delegare la valutazione al 118. E un po’ perché se i medici di base nei piccoli centri hanno una grande interfaccia con la comunità nelle grandi città questa interfaccia rischia di perdersi. In Italia ci sono un po’ medici di base bravi, medici di base bravissimi poi ci sono quelli che vanno in televisione e questo significa che i malati non li vedono mai.

Ma in questo senso è vero che il Veneto ha saputo mantenere una struttura un po’ più capillare nella Sanità e quindi che ha un intervento dei medici di base più incisivo?
Non solo il Veneto mantiene la struttura del medico di base ma mantiene una struttura di controllo perché i medici di base lavorino. I medici di base sono liberi professionisti quando vogliono essere liberi professionisti e sono incaricati di pubblico servizio quando gli fa comodo. Io sono dell’idea che debbano diventare dipendenti e che debbano venire pagati come dipendenti e ci vuole chi li controlla. L’Inghilterra, che non è più un modello di servizio sanitario, ma dal quale noi abbiamo copiato tutti gli errori nel corso degli anni, i medici di base sono controllati, sono il mediatore tra l’ospedale e il territorio, seguono i pazienti anche quando vanno in ospedale ma perché li controllano e vengono pagati in funzione di quanto lavorano. Noi abbiamo un sistema invece in cui i medici di base sono pagati a forfait, è sicuramente non è facile valutarne le performances. Secondo me bisogna tornare a un sistema di controllo e il Veneto ha dimostrato che chi ben controlla va meglio.

E di questi test sierologici cosa pensa? Quanto sono efficaci? Quanto sono accurati questi test?
Sui test sierologici c’è un programma nazionale che sta per partire. I cosiddetti test rapidi non sono una soluzione, non hanno dimostrato alla prova dei fatti di avere una validità sufficiente a potere essere considerata un’alternativa al tampone. Hanno la finalità di capire quanto è la circolazione di virus in Italia. Ci viene data un’informazione sulla struttura della popolazione perché l’Italia fa un grande investimento per capire quanto è esattamente la quota di persone che hanno contratto l’infezione nella popolazione per fasce di età, per categorie lavorative e così via.

Quindi non saranno la soluzione?
Ma sei le pensa che ci saranno 150mila test sierologici nel Paese perché è un campione statisticamente rappresentativo della popolazione italiana. Quindi fornirà un’informazione valida a livello Paese. La mia speranza è che le Regioni poi scelgano le procedure, le modalità e le tipologie di test in linea con questo per arrivare ad allargare la copertura sui territori. Finora le Regioni sono andate in ordine sparso e molte si sono affidate a test rapidi ma va anche considerato che in situazioni di emergenza i cittadini vogliono interventi. E anche interventi non precedentemente validati. Purtroppo dietro la faccenda dei test e dei test rapidi c’è anche tanta gente che ci fa il business o che li pubblicizza come se fossero la soluzione al problema. E ancora una volta c’è un problema di controllo, perché questo è. Qualche giorno fa il New York Times ha aperto con un titolo “il Far West dei test sierologici dei test Covid”. C’è lo stesso Far West sui test anche in Italia. Questo quindi dimostra che tutti i Paesi hanno avuto il problema della pressione. L’articolo dice che i governatori degli Stati pressati dall’opinione pubblica hanno acquistato test non validati dall’agenzia federale, che è responsabile della validazione dei test, creando anche un disallineamento rispetto a un modello di risposta.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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