Quando la guerra era a casa nostra: Roma e i segni del secondo conflitto mondiale

Un programma per il riarmo dell’Europa, mentre a pochi chilometri dai nostri confini è in corso da tre anni una guerra. Sono affermazioni che più volte hanno fatto scaturire ricordi, suggestioni, paragoni, a volte arditi ma con quel passato bellico non troppo remoto che ha attraversato il nostro continente. In una società che per nostra fortuna è cresciuta abituata alla pace, la guerra è sempre stata vista come qualcosa di molto lontano nello spazio e nel tempo, qualcosa che oggi non può succedere proprio qui da noi e che possiamo trovare nel nostro occidente solo nei libri di storia e nelle memorie dei nonni.
Ma le nostre città, a ormai 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, portano ancora molti segni tangibili. Persino a Roma, la nostra capitale, per varie ragioni bombardata decisamente meno rispetto alle altre grandi città italiane (ma colpita ben 51 volte, e non solo nell’attacco su San Lorenzo del 19 luglio 1943), ci sono ancora molte testimonianze visibili di quando la guerra arrivò fino a questa città.
Se facendosi due passi per il quartiere di San Lorenzo si possono vedere ancora oggi palazzi che portano i segni dell’attacco aereo alleato che colpì la zona, così come le targhe che lo ricordano e la statua di Papa Pio XII con le braccia allargate a memoria della sua visita successiva all’incursione (per quanto la celebre foto che lo ritrae in quella posizione fu scattata a San Giovanni), la testimonianza bellica più frequente in cui ci si può imbattere per le strade di Roma è un’apparentemente anonimo cerchio con inscritta una lettera, la I. Senza conoscere la storia di questi murali, potrebbe sembrare l’opera di qualche street artist o la tag lasciata da qualche writer, ma in realtà hanno un profondo valore storico: durante la seconda guerra mondiale, infatti, segnalavano la presenza di un idrante da utilizzare in caso di incendio causato da un attacco aereo.
La I, seppur la più frequente, è solo uno dei tanti esempi della segnaletica a muro del periodo bellico arrivata ai nostri giorni. Se i segni degli idranti si trovano con relativa facilità in giro per Roma, da Via della Lungara alla Portuense fino ai vecchi edifici annessi alla Stazione Tiburtina, più rari sono gli altri: da un’enigmatica “S”, che secondo l’ipotesi più accreditata starebbe per “serbatoio idrico”, visibile sia in Piazza Verdi che lungo le Mura Aureliane. Nessuna testimonianza di altre lettere, come la P, che sta per “pozzo” o “pompa”, o la V, che indica il punto di ventilazione di un rifugio, presenti in altre città italiane ma non nella capitale. Dopo la guerra, infatti, queste testimonianze, in un Paese che voleva lasciarsi alle spalle le devastazioni belliche e cercava di guardarsi avanti, sono state gradualmente cancellate o lasciate deperire nel dimenticatoio, ma quelle sopravvissute fino a oggi rappresentano un prezioso reperto che merita attenzione e tutela. Tra le scritte ancora oggi visibili a Roma diverse, soprattutto tra i lotti della Garbatella, indicano in modo esteso e senza sigle un “rifugio antiaereo”: in tempo di guerra, infatti, scantinati e spazi comuni venivano usati per ricavare dei bunker per proteggere la popolazione in caso di bombardamento, ma parallelamente a questo vennero costruiti rifugi e gallerie antiaeree per offrire uno spazio più sicuro possibile.
A Roma esistono ancora numerose testimonianze di spazi del genere: i due bunker più famosi sono probabilmente quello di Villa Torlonia e quello di Villa Ada, durante la guerra residenze rispettivamente di Mussolini e di Vittorio Emanuele II, ma non sono certo gli unici. Si va da quello di Palazzo Venezia, che durante la Seconda guerra mondiale era la sede del governo, al vicino Palazzo Valentini, sede della Provincia, il cui bunker è stato recuperato e inserito nel percorso museale delle Domus Romane situate nei suoi sotterranei. Un altro, invece, è quello degli uffici dell’EUR, quartiere ancora in costruzione durante il conflitto. Ci sono poi i bunker che dopo la guerra hanno trovato una nuova vita, come quello sotto il Largo del Tritone, che per anni ha ospitato una libreria, fino a quelli che ancora oggi, a decenni di distanza, vengono casualmente scoperti, a volte negli scantinati di palazzi in vari quartieri di Roma, e meticolosamente censiti e studiati da persone come il giornalista e studioso Lorenzo Grassi e l’associazione Sotterranei di Roma che da tempo sono attivi nel raccontare e tutelare le testimonianze belliche. Ci sono poi casi di bunker in cui ci si può imbattere per caso, scambiandoli per qualche strana struttura o per una scultura eccentrica: esempio notevole è quella specie di funghetto in cemento di fronte a San Pietro in Montorio, che altro non è che lo sfiatatoio di un rifugio antiaereo scavato sotto il Gianicolo.
Durante le incursioni aeree sulle città italiane, a mettere allerta la popolazione era il suono delle sirene antiaeree, piazzate in punti strategici per essere sentite al meglio: immagini d’epoca le mostrano nei campanili di Trinità dei Monti e sulla cima di Castel Sant’Angelo, da cui sono state rimosse. Tuttavia, alcuni esempi, arrugginiti e non più in funzione, sono ancora posizionati sui tetti di vari palazzi, da Via di Santa Costanza fino al Circo Massimo, a testimonianza del periodo bellico.
Roma, dicevamo, è stata oggetto di ben 51 bombardamenti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, per quanto si ricordi soprattutto quello di San Lorenzo del 19 Luglio 1943. Se quest’ultima incursione è stata la più drammatica e causò centinaia di vittime, se è in questo quartiere che si possono notare ancora di più i segni tangibili delle bombe, ancora visibili in diversi palazzi, non è solo qui che si possono trovare testimonianze belliche. Partiamo da una testimonianza fotografica, alla base di un lungo fraintendimento storico: l’immagine simbolica di Papa Pio XII, notoriamente tra i primi a portare conforto alla popolazione di San Lorenzo dopo il raid, con le braccia spalancate di fronte alla folla, non risale al 19 Luglio 1943 come per anni si è pensato. Tale immagine, infatti, è stata scattata a San Giovanni in Laterano successivamente a un bombardamento che aveva colpito il quartiere il 13 agosto successivo: il fraintendimento, che già era stato notato da diversi anni, ha avuto nel 2017 un importante sviluppo con il ritrovamento da parte dello studioso Carlo Galeazzi di un settimanale francese del 1943 con un immagine di Pio XII a San Lorenzo. Spostandoci nella zona nord-est della Capitale, a Pietralata, in Largo Beltramelli è visibile un monumento composto dai resti di una bomba: commemora il raid del 3 marzo 1944 in cui gli aerei anglo-americani colpirono vari quartieri della zona sud e est e centrarono in pieno un edificio dove avevano trovato rifugio gli operai della fabbrica Fiorentini, sulla Tiburtina, uccidendo 186 persone.
Molti all’epoca dicevano che Roma non poteva essere colpita perché sede del Papa, e probabilmente il fatto che sia stata colpita meno di altre città è dovuto anche a questo, ma non solo come abbiamo visto le incursioni aeree non sono mancate, ma, fatto apparentemente sorprendente, non hanno risparmiato nemmeno il Vaticano. Il 5 novembre 1944, ad esempio, un primo attacco aereo colpì l’area, causando alcuni danni al Palazzo del Santo Uffizio e al Collegio di Propaganda Fide, un secondo il primo marzo 1944, compiuti entrambi da aerei non identificati (i tedeschi puntarono il dito sugli alleati, molte voci parlarono di repubblichini che volevano colpire la stazione radio vaticana che forniva notizie belliche agli anglo-americani). Nel secondo di questi bombardamenti, un’edicola sacra raffigurante la Madonna delle Grazie rimase sorprendentemente intatta: oggi è visibile in Piazza del Santo Uffizio, in una nicchia contornata da due angeli intenti a proteggere l’immagine con degli scudi e la scritta “Ab Angelis Defensa”, a ricordare come il fatto che sia rimasta indenne abbia, per chi è religioso, qualcosa di miracoloso.
Se ci spostiamo a Porta San Paolo, vediamo come intorno alla porta vi siano due brecce nelle Mura Aureliane che permettono alle automobili un passaggio più agevole. Se quella che guardando la porta dall’esterno si trova alla sua destra è stata realizzata proprio per esigenze di traffico, non si può dire lo stesso per quella che oggi porta il nome di Via Raffaele Persichetti: questo risale al raid del 3 marzo 1944, lo stesso che uccise gli operai della Fiorentini, danneggiando notevolmente quel tratto di mura che mai fu riparato e, anzi, fu adattato a strada.
Porta San Paolo, nell’ambito della guerra, è però per tutti un simbolo per ciò che rappresenta, il luogo dove vi fu il primo scontro dopo l’8 Settembre tra una popolazione affiancata dall’esercito fedele al Re che pur disorganizzata e abbandonata dal sovrano in fuga volle provare a resistere all’esercito della Germania nazista che entrava a Roma. Lo scontro non si svolse esclusivamente di fronte alla Piramide Cestia, ma ebbe inizio alla Montagnola, arrivò a Porta San Paolo e proseguì lungo la passeggiata archeologica fino a esaurirsi con l’ingresso delle truppe naziste nel centro di Roma, non senza che abbiano luogo gli ultimi scontri. E’ proprio in questo contesto che le cronache dell’epoca parlano del fatto che anche il Vittoriano sia stato colpito: potrebbe essere questa la causa dei lievi danni ancora oggi visibili nell’angolo sud-est del monumento, su Via dei Fori Imperiali.
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Ma spostiamoci in un’altra zona di Roma, nel Rione Trevi, a pochi passi dall’omonima fontana, in Via Rasella, strada che – sorte vuole – sia stata anche sede di una delle prime dimore romane di Mussolini, che prima di trasferirsi a Villa Torlonia fu ospite presso Palazzo Tittoni, ma che nell’immaginario collettivo di tutti è prima di tutto il luogo dell’azione partigiana dei GAP del 23 marzo 1944 che, con una bomba, uccisero 33 soldati tedeschi in un attacco che causò la morte anche di due civili italiani. In Via Rasella la testimonianza dell’accaduto è ben visibile dai fori di proiettile presenti sulla facciata di uno dei palazzi, colpi che furono sparati dai militari tedeschi mentre cercavano di scoprire gli autori dell’attacco. Come rappresaglia i tedeschi il giorno successivo uccisero 335 italiani in quello che rappresenta uno dei più grandi eccidi avvenuti in tutta Europa nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quello delle Fosse Ardeatine. La memoria di questa strage è visibile in tutta Roma attraverso le numerose targhe che in diversi quartieri ricordano le vittime che mostrano bene come in quell’occasione non vi sia stato segmento della popolazione romana a non essere colpita: nobili, operai, comunisti, monarchici, cristiani, ebrei, civili, militari e non solo. Il luogo dell’eccidio, quelle cave di pozzolana lungo l’Ardeatina, situate a poca distanza dalle Catacombe di San Calisto, oggi è divenuto il mausoleo delle vittime a memoria di quell’immane strage.
Ma non c’è solo la memoria fatta di targhe e monumenti, c’è in questa città una memoria di piccoli segni, sopravvissuti al tempo, che oggi rappresentano non solo testimonianze di un tempo passato, ma anche un modo per ricordarci che la guerra è stata anche qui in casa nostra e un monito perché non si ripeta.