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Genova un anno dopo: la resistenza di una città ancora appesa, tra detriti da smaltire e ricordi da salvare

Immagine di copertina
L'entrata del cantiere del Ponte Morandi. Credit: Cristiana Mastronicola

Siamo tornati a Genova a 365 giorni dal crollo del Ponte Morandi, che ha provocato la morte di 43 persone. La città oggi è alla prese con la demolizione del viadotto e con una ricostruzione che fa del quartiere Certosa un cantiere a cielo aperto. A pagarne le conseguenze sono gli abitanti della zona arancione, costretti a vivere tra la polvere e i detriti, il cui smaltimento resta ancora un punto interrogativo

Crollo del Ponte Morandi, l’anniversario

 

Polvere

Quando arrivi in via Porro, l’odore del mare che impregna Genova scompare e lascia spazio a quello della polvere. Si attacca alle narici con prepotenza e non va via. È il benvenuto a chi lascia il centro della città e si spinge giù fino a Certosa. È il benvenuto a chi entra nel cantiere, quello del ponte crollato e del ponte che nasce.

Via Porro è stata riaperta al traffico due giorni prima dell’anniversario del crollo del Ponte Morandi. Percorrerla ora significa girare attorno al mostro caduto, osservarlo da vicino fatto a pezzi: una montagna di cemento e acciaio contorto. Tutt’intorno danzano le ruspe, che, veloci, si danno da fare per ammucchiare il vecchio e preparare al nuovo, al ritmo scandito dal via vai dei camion che si allontanano da Certosa. Il nuovo ponte, quello di Renzo Piano, nascerà proprio qui, come a esorcizzare un dolore che difficilmente sarà lavato via da questo incrocio di strade.

Credit: Cristiana Mastronicola

Giù in città la vita continua in una normalità quasi del tutto riacquistata e guastata, al massimo, da problemi di viabilità mai del tutto risolti, nonostante gli sforzi del comune di creare strade alternative, che non hanno sopperito fino in fondo al problema del crollo di un ponte che alleggeriva di molto il traffico cittadino. Ma qua, tra Certosa e Sampierdarena, la situazione è ben diversa e gli abitanti hanno iniziato a rassegnarsi all’idea di vivere in un cantiere. Quello della ricostruzione, sì, ma pur sempre un cantiere.

La croce della zona arancione

Se gli sfollati della zona rossa hanno sofferto l’effetto diretto del crollo del ponte, gli abitanti della zona arancione subiscono oggi quello della ricostruzione. Ci sono i morti, gli sfollati, chi non ha ancora ripreso in mano la propria vita dopo la tragedia del 14 agosto 2018, ma a pagare le conseguenze peggiori del crollo del ponte, oggi, è chi è costretto a vivere dentro il cantiere. Quello del ponte che rinasce, quello che mette in ginocchio un quartiere.

“Abito in quel palazzo laggiù, le finestre affacciano praticamente sul ponte demolito. Le polveri entrano dappertutto, è estate e dobbiamo vivere con le finestre chiuse”, dice una delle abitanti della zona arancione, che passeggia col cane poco distante dall’entrata del cantiere e osserva il camion che lento getta acqua sull’asfalto. “Quell’acqua serve ad abbassare la polvere, a fare in modo che non arrivi dappertutto. Ma farlo due volte al giorno non è sufficiente, con queste temperature l’asfalto asciuga velocemente: la polvere torna ad alzarsi e noi a non respirare”.

Sui palazzi che circondano il cantiere e costeggiano via Porro si stendono lenzuola di protesta che reclamano il rispetto della salute dei cittadini che da mesi sono costretti a ingoiare polvere. Per loro il comune, insieme ad Autostrade, ha pensato a un risarcimento: una sorta di indennizzo per il disagio subito. A cerchi concentrici, si è stabilito un tot da destinare alle famiglie che abitano a ridosso del cantiere. Fino a 10mila euro per quelle case che si affacciano sulle ruspe che lavorano: un risultato importante, vanto dell’amministrazione. “Abbiamo ottenuto che nel decreto crescita venissero destinati 7 milioni alle famiglie, indennizzando così per le interferenze del cantiere”, risponde l’assessore al Bilancio Pietro Piciocchi.

Cristiana Mastronicola

Tutti lo sanno e tutti lo denunciano: vivere nella zona arancione, oggi, significa vivere in un inferno di polvere. L’emergenza abitativa, quella che un anno fa era il problema più grande per Genova, oggi è pressoché risolta. Chi non poteva più vivere sotto i monconi del ponte ha trovato una sistemazione. Il dramma lo vive chi qui è costretto a restare. E gli indennizzi a volte non bastano: “Vivo nella zona gialla. Lì nessuno ha diritto a nessun tipo di aiuto, eppure anche noi subiamo il disagio pesante del cantiere”, afferma una donna che ha poca voglia di parlare e tanta rabbia per una vita ormai stravolta.

Che fine fanno i detriti

I lavori continuano ininterrottamente e il cumulo di detriti aumenta, come aumenta il cumulo di problemi che comporta lo smaltimento di quel tipo di rifiuti. Un nodo che il comune sta cercando di sbrogliare, ma che resta, ad oggi, un disagio enorme per chi è costretto a convivere con le polveri che si infilano nei polmoni.

Piciocchi assicura che è stato aperto un tavolo tecnico a Roma, a Palazzo Chigi, per risolvere il più velocemente possibile la situazione detriti, ma le risposte tardano ad arrivare. A rimetterci è la comunità, che soffre sotto i colpi delle ruspe e della burocrazia.

Credit: Cristiana Mastronicola

“Ci sono due opzioni: destinare i detriti nel ribaltamento a mare di Fincantieri, perché nella costruzione del bacino si ha bisogno di terra oppure tritare i detriti e lasciarli nell’area del cantiere per nuove costruzioni”, afferma Alberto Pandolfo, consigliere Pd, che ci tiene a sottolineare come questo, ad oggi, sia il problema più grande, un interrogativo a cui l’amministrazione e il governo non riescono a dare risposta.

I commercianti in ginocchio, ancora

A patire dopo un anno le conseguenze del crollo del viadotto sono i commercianti della zona, che arrancano nel migliore dei casi e abbassano le saracinesche definitivamente sempre più spesso. Via Walter Fillak e via Porro sono state chiuse al traffico fino al 12 agosto. Qui per un anno hanno transitato solo i mezzi della protezione civile e quelli diretti al cantiere. Se prima del crollo del ponte quella era una via di passaggio, dopo il 14 agosto è diventata un col de sac, inaccessibile se non a piedi. Penalizzati, i commercianti hanno alzato la voce, ma le risposte sono state per lo più insufficienti.

Credit: Cristiana Mastronicola

Secondo Pandolfo non si è trovata una soluzione vera al problema: “Manca un sostegno concreto a chi si ritrova a dover pagare tasse e spese che sono comunque fisse. Qua non parliamo di attività devastate, ma di una domanda completamente cancellata. Il problema in questo caso è di ricostruzione del tessuto”.

A rispondere per il Comune è Piciocchi, che spiega che c’è stato un supporto al tessuto commerciale, provato dal crollo del ponte, ma sicuramente c’è ancora tanto da fare. La sfida è ancora tutta aperta, ma tanto si è già fatto, secondo Piciocchi: “Certamente ci sono alcune cose da modificare: ad esempio ci sono delle aziende i cui fatturati sono rimasti gli stessi ma hanno dovuto incrementare i costi. Ci stiamo impegnando affinché venga riconosciuto loro un sussidio”.

Le vittime fantasma: i lavoratori licenziati

Tutte le anime del quartiere che viveva sotto al ponte Morandi sono state segnate dal crollo del viadotto. Ognuna di queste ha trovato il conforto della comunità e il riconoscimento del danno subito. Tutte, tranne una: quella dei lavoratori delle aziende situate nella zona rossa. Al contrario degli sfollati, non sono stati buttati fuori di casa da un momento all’altro, ma dal 16 agosto non hanno potuto più metter piede nel posto in cui lavoravano. Licenziati in tronco.

Dopo la tragedia del 14 agosto 2018, tre aziendehanno deciso di chiudere i battenti, lasciando a casa 19 lavoratori. Si tratta dell’autorimessa Lamparelli e delle imprese di vendita di materiale edile Vergano e Piccardo.

Vivono quasi nell’oblio, i licenziati della zona rossa, che, per farsi ascoltare, si sono riuniti nel Comitato Lavoratori Zona Rossa. “Erano ditte sane: fatturavano e pagavano regolarmente, ma hanno dovuto chiudere dopo il crollo del ponte, decidendo di non aprire in nessun’altra zona”, spiega Marco Trucco, portavoce del Comitato.

Tutti e 19 hanno incontrato il sostegno del Comune di Genova e oggi lavorano nelle partecipate del Comune di Genova, almeno fino a dicembre. Poi, a causa dei limiti del decreto dignità, spiega ancora Piciocchi, torneranno a casa.

“Li abbiamo assunti per un anno, perché per il decreto dignità non possiamo prenderli a tempo indeterminato, ma abbiamo chiesto l’emanazione di una norma per stabilizzare la situazione a fare in modo che restino nelle partecipate”, ha spiegato l’assessore.

La battaglia dei lavoratori della zona rossa si combatte su due fronti: da una parte un contratto a tempo indeterminato, come lo avevano prima, e dall’altra un riconoscimento, come è stato per gli sfollati e per tutte le altre categorie colpite dal dramma del crollo. Riconoscimento che, però, tarda ad arrivare.

“Quello che chiediamo è un ‘aiuto’ da parte di Autostrade per avere per riparare a un presunto danno che abbiamo subito”, spiega ancora Truppo, che non si capacita di come, in un anno, la posizione sua e degli altri 18 lavoratori sia stata completamente ignorata da Autostrade. Uno spiraglio pare essersi aperto solo negli ultimi giorni, ma quel che più pesa è quel contratto lavorativo in scadenza a dicembre e poi l’ignoto.

“Ho 57 anni e la mattina mi sveglio alle 5 per andare a fare un lavoro che non era il mio. Non pretendo di avere lo stesso lavoro di prima, ma qualcosa di simile nelle partecipate”, continua il presidente del Comitato dei Lavoratori della Zona Rossa.

“Autostrade ha fatto accordi con tutti, ora ci aspettiamo che arrivi un’offerta anche per noi e non una presa in giro. Siamo pochi rispetto a sfollati e commercianti, non chiediamo chissà cosa”, spiega Trucco, che continua ricordando come la comunità, invece, si sia attivata, insieme al Comune. Oltre al lavoro – temporaneo – il sindaco Marco Bucci e l’assessore Piciocchi hanno fatto sì che ai 19 lavoratori della zona rossa venisse destinata parte delle donazioni arrivate all’indomani del crollo del ponte. Ma dicembre si avvicina e promesse e donazioni non bastano per ricominciare a vivere con dignità.

La rinascita degli ex sfollati

All’indomani del crollo del viadotto, la situazione di emergenza più grave era quella di chi sotto al ponte aveva costruito una vita intera. Buttati fuori dalle loro case nel giro di una manciata di minuti, gli sfollati hanno trascorso gli ultimi 12 mesi cercando di rimettere insieme i pezzi delle loro esistenze, radicalmente cambiate dopo il 14 agosto 2018. “È cambiato tutto in un anno”, ripetono con lo stesso tono mesto tutti gli sfollati.

L’emergenza abitativa, un anno dopo, si può dire risolta, come assicura anche l’assessore Piciocchi, che, numeri alla mano, tranquillizza in merito alla loro situazione. “Su 258 nuclei familiari, 86 sono oggi in case pubbliche, quelle che il comune ha messo loro a disposizione; gli altri hanno scelto l’autonoma sistemazione”.

Gli sfollati sapevano sin dall’inizio che quella nella casa del comune sarebbe stata solo una parentesi della loro nuova vita e hanno speso gli ultimi 12 mesi a cercare un’alternativa. Per tanti è coincisa con l’opportunità di acquistare una nuova abitazione, magari tornando proprio a Certosa. L’opportunità è arrivata per via dell’indennizzo che Autostrade ha concesso agli sfollati sulla base di un calcolo preciso.

L’indennizzo si è quantificato partendo dal valore di stima degli immobili, a cui si è applicato un coefficiente di rivalutazione (perché gli immobili oggi hanno un valore decisamente inferiore rispetto a prima del crollo del ponte), dopodiché si è applicata la legge del PRIS (Programmi regionali di intervento strategico, ndr).

Candida sorride quando qualcuno le chiede a che punto è con la casa nuova. Insieme al marito Sergio per un po’ sono stati in affitto in un’altra casa, ma subito si sono attivati per cercare di comprarne una. Intanto, la loro vecchia abitazione, quella in via Porro in cui si erano trasferiti 44 anni fa, il giorno delle loro nozze, è ancora lì, in piedi.

Candida e Sergio. Credit: Cristiana Mastronicola

La palazzina numero 12, infatti, non è tra quelle abbattute. “È lì, e io non so se essere felice o triste. La vedo sempre, perché è la palazzina più esterna, quella più vicina alla zona arancione. A volte spero che venga giù per non doverlo vedere ancora”, dice sorridendo e dietro gli occhiali scuri gli occhi le brillano di ricordi.

Dopo un anno, però, Candida e Sergio stanno per trasferirsi nella loro nuova casa. La terza, l’ultima: “Ormai abbiamo una certa età, dopo tutto quello che è successo vogliamo stare tranquilli”. Sergio abbraccia la moglie e tra i denti confessa di essere stanco. “All’inizio tutto questo mi pesava di meno, sapevo di dovermi dare da fare per trovare un’altra sistemazione e ho fatto tutto il possibile. Ora che è passato un anno, ora che l’80 per cento è stato fatto, mi sembra di non farcela”. Candida sorride e tira corto: “C’è gente che ha perso la vita”. Loro, in fondo, si sentono fortunati.

Bruna viveva in via Porro insieme alla sorella e alla madre di 80 anni: “A un certo punto, 16 anni fa, eravamo rimaste tutte e tre vedove e abbiamo deciso di andare a vivere insieme. Dopo il crollo del ponte siamo andate a San Biagio, in una casa del comune, ma non è messa bene e così abbiamo trovato un’altra sistemazione, in affitto, sempre qui a Certosa”, racconta.

Annerita, invece, ha scelto di andare a vivere in centro, in un appartamento insieme alla sorella in un palazzo storico. Mostra la foto della sua vecchia palazzina squarciata: “Si vedono i colori con cui erano dipinte le stanze di tutto il palazzo, a vederla così sembra un murales”, dice col sorriso sulle labbra e gli occhi velati di tristezza.

“Abitavamo in via Porro dal 1960, una vita passata lì. Abbiamo vissuto tutte le fasi del ponte e abbiamo raggiunto la consapevolezza dei problemi ambientali solo negli ultimi decenni. Nel ’92 ci sono stati i primi interventi sul viadotto e lì abbiamo capito che qualcosa non andava”, racconta.

Ad ascoltare il racconto degli sfollati, raccolti attorno a un ponte che non c’è più, sotto alle loro non-case e davanti al vuoto triste sopra le loro teste, si avverte il senso di una comunità riscoperta nella tragedia.

Tutti gli sfollati un anno dopo si aggrappano a quello che a vederlo da fuori appare come un piccolo miracolo: il crollo del ponte ha spaccato la città in due – Levante da una parte e Ponente un po’ più lontana di prima – ma ha unito la comunità che viveva sotto al viadotto.

Una comunità oggi spalmata su tutta la città, ma viva e più forte di prima. “Abitavo da 15 anni nella palazzina al civico 11, quella che è ancora in piedi, e conoscevo al massimo dieci persone, in una zona che ne contava 600. Da quel 14 agosto ho iniziato a conoscere tantissime persone e questa è stata una cosa molto positiva. Ci siamo ritrovati nelle riunioni e ci siamo ritrovati anche dopo”. Nella tragedia, Paolo Tosa ha riscoperto il valore della collettività: “Le persone che ho conosciuto, me le porto dietro anche se vivo da tutt’altra parte, restano nella mia vita e questa è una cosa bellissima”.

Paolo Tosa sotto la palazzina in cui viveva in via Porro. Credit: Cristiana Mastronicola

Le storie si sovrappongono, tutte diverse e tutte uguali. Il trauma del crollo e quello di dover abbandonare la propria casa hanno lasciato spazio, in un anno, a un sentimento diverso, quello di non rassegnazione.

Tutti stretti attorno alla ferma volontà di pretendere la verità sui responsabili del crollo e altrettanto convinti di voler restituire dignità al posto da cui sono stati strappati via.

Uniti in una comunità che è confluita, tutta, nel Comitato Quelli del Ponte Morandi, che da subito si è attivato per le vite sfregiate degli sfollati. Non solo negli attimi successivi al crollo del ponte: i mesi successivi sono stati quelli delle trattative col governo per un decreto che tardava ad arrivare e che, una volta arrivato, era monco, pieno di falle che il Comitato si è impuntato a risolvere.

L’impostazione coesa, puntuale, precisa, tenace del Comitato ha permesso di modificare un decreto legge che inizialmente non diceva nulla. “La cosa di cui mi sono lamentato con i ministri è che non dovevano venire a dirci bugie”, ha detto Franco Ravera, portavoce del Comitato. “Solo tramite un lavoro con i gruppi parlamentari – di tutti i colori, perché nel dolore di questa tragedia tutti erano uniti – siamo riusciti a modificare il decreto. Su alcuni punti non siamo riusciti a cambiarlo e ne abbiamo pagato le conseguenze nei mesi successivi. Ad esempio, gli indennizzi sarebbero dovuti spettare al proprietario di casa, ma anche all’inquilino e questo non è stato riconosciuto”. Ma non solo: a non essere riconosciuta è stata anche tutta la realtà abitativa attorno al ponte, che lì restava nonostante il viadotto crollato e che oggi è costretta a fare sacrifici enormi: “Anche su questo il decreto non ha dato risposta”.

I sentimenti si mischiano sotto alle sparute palazzine che restano ancora in piedi in una via Porro che sembra nuda senza il suo ponte. Giusy viveva qui da 59 anni. Era una bambina quando al padre ferroviere era stato affidato un appartamento in via Porro: “Il ponte non c’era ancora. Ricordo l’orgoglio del mio papà quando hanno iniziato a costruirlo”. Poi quell’enorme striscia di cemento è stata una presenza costante, un’ombra amica, tutt’altro che una minaccia.

Giusy fa parte del Comitato Quelli del Ponte Morandi. È tra quelli che si sono spesi di più per gli altri, lasciando spesso indietro la propria situazione, pure a pezzi.

“Oggi quel ponte è sporco di sangue, ma per noi è stato un ponte amico”, spiega ancora Giusy. Sotto al ponte si rincorrono i ricordi di una giovinezza spensierata, di una vita che scorreva tranquilla, fino a quel 14 agosto. Oggi Giusy passa per la prima volta sotto casa sua, dopo un anno. “La sensazione è stata quella di non ritrovare più la tua via. Hai dei punti di riferimento, ma sembra una cosa estranea, non tua, e allo stesso tempo troppo tua”, dice con la voce appannata dall’emozione.

Ma come tutti gli altri sfollati, Giuy sa che bisogna guardare avanti. “La città si deve rialzare e deve ricominciare a pensare alla grande”, dice ancora.“Noi abbiamo avuto una seconda chance, dobbiamo ripartire da questo”.

Per gli sfollati, via Porro resterà sempre la via dei ricordi. In un anno è cambiato tutto, concretamente e, soprattutto, psicologicamente. “In un anno è cambiato che non sappiamo ancora la verità, siamo ancora qui a chiedere giustizia per chi è morto e in un paese civile la verità dovrebbe essere immediata”, continua Giusy, che lucida prega perché quello che è successo un anno fa non si ripeta: “Abbiamo una memoria collettiva da trasmettere, perché non ci sia mai più un Morandi che porta via vite”.

Ora il quartiere sotto al ponte crollato è destinato a diventare qualcos’altro. Un parco, un luogo felice, promette il sindaco-commissario Marco Bucci. “Spero di vederlo, di vedere grandi cambiamenti. Per ora ci sono solo macerie e fanno male”, conclude amara Giusy, che racchiude in poche parole il problema più grande che Genova è chiamata ad affrontare: le macerie, quelle dentro gli animi squarciati dei genovesi e quelle concrete del ponte. Che restano lì, ferme, per ora, a ricordare gli sforzi fatti e, soprattutto, quelli che ancora restano da fare.

Un anno dopo

Dopo un anno, il bilancio è quello di una città ancora appesa. L’azione di demolizione e ricostruzione ha visto l’impegno energico e tempestivo tanto dell’amministrazione quanto della comunità. Ma Genova resta a metà, con troppi interrogativi a cui sono state date risposte insufficienti o del tutto inesistenti. La questione del commercio ancora schiacciato dal peso del vuoto che il crollo del ponte ha lasciato nelle vie che si stendevano sotto al viadotto da una parte e dall’altra quella delicata dello smaltimento dei rifiuti.

La tutela dell’ambiente risente tanto, troppo di lentezza e macchinosità nell’affrontare il problema. I resti del ponte rimangono ancora lì a sotterrare un anno di malinconia e sacrifici. La Genova lontana dal centro, quella della periferia di Certosa si trasforma in un cantiere e soffre silenziosa. Dilaniata da un anno, si ritrova a ricucire tenace uno squarcio che tarda a cicatrizzare, ma lo fa con la dignità di chi non si arrende al dolore e rinasce, fenice, dalle ceneri di detriti e ricordi.

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