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Coronavirus, cos’è successo a febbraio in quella clinica di Piacenza? La vera storia di un boom di contagi

Immagine di copertina
Credit: ANSA / Andrea Fasani

Coronavirus a Piacenza: la vera storia del caso clinica Sant’Antonino

Clinica privata Sant’Antonino, Piacenza. Una clinica accreditata col servizio sanitario che con “Casa Piacenza”, sua “gemella” e della stessa proprietà (il direttore sanitario Mario Sanna), si trova al centro di un caso molto inquietante: pazienti, medici, caposala, oss, infermieri, donne delle pulizie che si ammalano di Coronavirus già a metà febbraio, o forse anche prima, e nessuna informazione esce da lì. Finché il Fatto quotidiano, il 18 marzo, scoperchia la pentola: una donna delle pulizie muore e si scopre che settimane prima un vecchietto col Coronavirus è stato portato via in fretta dalla struttura.

La Clinica privata Sant’Antonino, interrogata da me il 6 marzo, tace su tutto dicendo di chiedere alla Ausl, il direttore della Ausl di Piacenza Luca Baldino mi comunica che quello che succede lì non gli interessa e che ha cose più importanti di cui occuparsi. Il 13 marzo, la Ausl di Piacenza annuncia che il Sant’Antonino diventa clinica specializzata Covid e ringrazia la clinica per la sua “sensibilità” in un comunicato ufficiale. E quindi, è forse il momento di aggiungere tutti i particolari della storia, comprese le varie testimonianze raccolte e le nuove “risposte” della dirigenza della Casa Piacenza e Sant’Antonino, anche se ancora una volta sostanzialmente attribuiscono ogni responsabilità alla Asl di Piacenza.

La storia
A metà febbraio, quando il Coronavirus sembra non essere ancora arrivato in Italia, il paziente anziano Gino B., ricoverato alla clinica Sant’Antonino, si sente male. Comincia ad avere una febbre costante, che non scende. In clinica pensano che dipenda dal fatto che il suo letto è situato di fianco al calorifero. Quella febbre però non passa e a un certo punto si ammala anche il suo vicino di letto. Stanno male anche alcuni dottori. Il 24 febbraio, in clinica, arriva notizia che il dottor Cremonesi, un medico in pensione che svolgeva alcune operazioni presso la clinica Piacenza, è stato ricoverato a Tenerife mentre si trovava in vacanza: ha il Coronavirus. Ne parlano anche i giornali e i tg, ma il nome della Clinica Piacenza non viene mai associato al fatto.

Ufficialmente, lì dentro, non è successo nulla. Nessuna comunicazione ufficiale del proprietario Mario Sanna, nessuna comunicazione alle famiglie dei pazienti ricoverati, nessuna comunicazione ufficiale a tutto il personale. Gino, il vecchietto trovato positivo, viene portato via alcuni giorni dopo. Il 16 marzo, Monica Rossi, una donna delle pulizie di Casa Piacenza, viene trovata morta in casa. “Avrei potuto salvarla, non me lo perdonerò mai! Vivrò la mia vita con questa croce sulle spalle! Scusami se puoi Monica!”, scrive su Facebook la responsabile del personale di Casa Piacenza Laura Cappellano.

Dunque, cosa è successo da metà febbraio a quel 16 marzo, nelle cliniche private Casa Piacenza e Sant’Antonino? Molte cose, e tutte ben silenziate dalla dirigente assistenziale Nawal Loubadi, dalla figlia del proprietario Lidia Sanna e da tutti i responsabili delle strutture. Molti dipendenti hanno continuato a lavorare, da quel 24 febbraio, in una condizione di incertezza e paura, scoprendo sempre per vie traverse, per confidenze di medici, di infermieri, di oss, che la malattia stava girando nelle cliniche e che tanti di loro si stavano ammalando. Qualcuno era stato contagiato e “andava in ferie” o “veniva messo in malattia” in tutta fretta. La parola “Coronvirus” era tabù.

Dopo la morte della donna delle pulizie però, tutto cambia. I dipendenti iniziano a parlare. E mi contattano in tanti. Un oss della Sant’Antonino mi racconta, tra un colpo di tosse l’altro: “Qui ci sono decine e decine di persone positive da più di un mese. Tutto inizia con il paziente anziano Gino B., nella stanza 8, vicino al termosifone bollente. Aveva sempre la febbre altissima, dal 10 febbraio circa. Lo spostano nella stanza 15, una tripla. Dopo che scoppia il Coronavirus in Italia scoprono, credo con una lastra o un tampone, che è positivo. Lo spostano in una stanza singola, la 5. Riguardo i due pazienti che gli sono stati accanto, uno è deceduto giorni fa”.

“Io non lo so come ci è arrivato il Coronavirus qui dentro, ma sicuramente non dai pazienti ricoverati. Qui c’è un infermiere di Casalpusterlengo che ha la mamma che fa l’infermiera all’ospedale di Codogno, mamma che aveva il Coronavirus. Il primario del Sant’Antonino si è preso anche lui il Coronavirus a febbraio e a quanto pare la figlia era stata a cena con un’amica intima della moglie del paziente 1 di Codogno. Si è ammalato il medico F., il medico C., si sono ammalate l’infermiera S., la caposala C.,”, la fisioterapista F. e così via. “Il servizio di igiene dell’ospedale mi ha chiamato a metà marzo e aveva una lista di dipendenti parziale. Gli ho chiesto se nella lista c’era S., il dipendente di Casalpusterlengo e mi è stato risposto ‘La clinica non ci ha fornito questo nome’. Non avevano vari nomi di alcuni dipendenti malati o delle zone rosse che dovevano rimanere a casa”.

“Noi operatori del Sant’Antonino siamo distrutti. Lavoriamo solo per i pazienti. Non abbiamo avuto una mascherina FFP3 per fare l’ossigenoterapia per settimane, quindi ci saremo infettati tutti in quel periodo. Abbiamo visto il panico qui dentro, ma nessuno della dirigenza ha condiviso qualche informazione con noi mortali. A una riunione la mia collega N. ha detto che si sarebbe rivolta al sindacato, le hanno contestato che non era una persona seria. Il problema sanitario poteva accadere, questa omertà no”. “I Covid li hanno spostati tutti qui alla Sant’Antonino perché a Casa Piacenza c’è la sala operatoria. Potevano quindi continuare a operare e a fatturare, qui siamo stati trattati come spazzatura. Chi si era ammalato da noi ora è mescolato con pazienti Covid mandati dagli ospedali, quindi ora si possono confondere le acque. Se Luca Baldino della Ausl vuole iniziare a indagare, parta dal paziente Gino B.”. “I problemi iniziano da prima dell’emergenza. Qui non abbiamo sapone, garze, giuste pomate per le medicazioni. Ci viene detto, da anni, addirittura di riciclare le bavaglie dove mangiano i pazienti. Qui da sempre è tutto improntato al risparmio, con cazziatoni della dirigenza continui”.

Un’infermiera del Sant’Antonino mi racconta: “Io da un turno all’altro mi sono trovata qui 80 pazienti col Covid senza sapere come gestirli. In una settimana sono morte 20 persone. Una tizia della Ausl ci ha fatto una lezione veloce su come usare le tute, dicendoci: ‘Non dovete neppure guardarli i pazienti, sono tutte persone che moriranno'”. L’infermiera piange, mentre lo racconta. “Io li lavo, mi prendo cura di tutti, per me sono tutti come fossero mia mamma, se ne salvo uno sono contenta. Ma siamo troppo pochi qui, certe volte trovo i pannolini del giorno prima. Stamattina un paziente mi ha strappato l’anima. Mi ha preso la mano e mi ha chiesto: ‘Come sta mia moglie, per favore, dimmelo’. La moglie stava male, muoiono soli, come le mosche. Almeno farli morire con dignità. Se io mi lamento che serve personale, mi dicono: se non vuoi lavorare qui, quella è la porta”. “Abbiamo chiesto tamponi per settimane, si sono ammalati di Coronavirus pazienti che erano entrati a fine gennaio e poi hanno avuto sintomi a febbraio. Se avessero fatto il tampone a tutti, avrebbero chiuso perché sarebbero rimasti senza personale”.  “Io vedo pazienti morire come pesci senz’acqua, questo è solo un posto dove vengono i pazienti molto anziani a morire, almeno un po’ di dignità per loro e di sicurezza per noi. L’Ausl deve vigilare sul rigore con cui lavora il privato, quella di Piacenza cosa fa? Qui da quando non sono entrati più i parenti, si è fatto quel che si voleva, chi ha controllato?”.

Un’addetta alle pulizie, collega della donna delle pulizie morta, mi dice: “Io lavoro alla Casa Piacenza. Sono distrutta. A me fa male respirare, mi fa male la testa, ho tanta paura, ho famiglia. Lavoravo con Monica, quindi potrei aver preso anche io il Coronavirus. Lei aveva la febbre, si è fermata qualche giorno, poi è tornata al lavoro con la febbre e alla fine è morta in casa. Una mia collega è positiva, il marito se l’è preso anche lui da lei, è finito in ospedale. Qui il tampone lo hanno fatto a chi pareva a loro”. “Nel frattempo io andavo avanti da settimane con una mascherina che andrebbe usata 8 ore e che ho usato 1 settimana. Io non voglio morire, ho un figlio. Le mie colleghe sono tutte con le febbre, io vedevo tutti i giorni il primario e non sapevo che era malato, ho saputo che aveva il Coronavirus dopo una settimana. Idem il dottor C. e chissà quanti altri”.

Un’altra infermiera rivela: “Non so come sia entrato qui al Sant’Antonino il Coronavirus. Prendevamo emoculture senza sapere che girava il virus. Poi un giorno scopro che è morta la madre del primario. Che il primario ha il Coronavirus. La nostra caposala è di Codogno. Hanno fatto tamponi solo ad alcuni, poi ci hanno detto che i tamponi erano finiti, ma io li ho visti in un armadietto, c’erano. La mia collega L. aveva la polmonite interstiziale. Tutti ammalati. Qui ora ci fanno la tac, se non hai sintomi come febbre e tosse lavori anche con la polmonite. Non siamo dipendenti, siamo discarica”. “Si è ammalata ed è morta una paziente che stava nella stanza ‘Sollievo’ da 3.000 euro al mese a Casa Piacenza che non era positiva e si è presa qui il virus. Siamo due infermiere su 40 malati, non sappiamo dove girarci. Siamo carne da macello, noi e i poveri malati. Abbiamo la delibera per legare i polsi per il loro bene perché non possiamo guardarli tutti, sennò si levano l’ossigeno. Noi non possiamo fare niente, scarseggia pure l’Urbason per le terapie, alle volte lo prendo dal carrello delle urgenze. Se ci lamentiamo ci dicono che c’è la fila fuori dalla porta per lavorare lì, possiamo andarcene. Molti di noi hanno deciso di parlare e questo è un bene. I problemi qui sono esplosi col Covid, ma sono iniziati dalla gestione di Mario Sanna, prima col Dottor Agamennone qui si lavorava bene”.

Luisa racconta: “Mia suocera è stata ricoverata il 13 marzo al Sant’Antonino con febbre e tosse. Mio marito aveva la febbre altissima, ma la Ausl non ha voluto fare il tampone. Il sabato chiamiamo e non riusciamo a parlare con nessuno. Chiamiamo tre volte ma mi dicono che non conoscono ancora bene i pazienti. La sera mi buttano giù il telefono. La domenica dicono che mia suocera risponde alle cure e di portare un cambio. Il giorno dopo non ci rispondono. Alla fine mio cognato va in clinica col cambio il giorno dopo alle 13.00. Gli chiedono il nome della signora, arriva un dottore dopo 30 minuti e lo informano che mia suocera è morta durante la notte. Nessuno ci aveva avvisati! Non abbiamo mai avuto una diagnosi, nulla. L’avranno curata per il Covid? È una cosa oscena”.

Silvia Bettini, di Piacenza, aveva il papà al Sant’Antonino, ricoverato il 13 febbraio. “Io l’ho visto l’ultima volta il 23. Giorni dopo al telefono mi comunicano che è ventilato. Nessuno ci dice che lì gira il Coronavirus, ma io lo scopro per vie traverse. Una sera quindi mio fratello chiama la clinica minacciandoli, dicendo ‘So cosa succede lì dentro, portate mio padre subito al pronto soccorso di Piacenza!’. Dopo mezz’ora ci chiamano dal pronto soccorso e ci dicono che mio padre era arrivato malnutrito e disidratato. Stava morendo e gli avrebbero fatto la morfina. È morto poche ore dopo, di notte. Ci hanno detto che aveva sicuramente il Coronavirus, per via di una polmonite interstiziale gravissima. Lui non ha mai avuto le cure per il Coronavirus”.

Andrea, figlio di una donna che è stata ricoverata al Sant’Antonino, mi dice: “Mia madre era stata operata all’ospedale di Piacenza a fine gennaio e poi è andata al Sant’Antonino per la riabilitazione. Mi avevano sconsigliato tutti quella clinica. È entrata il primo febbraio ed è rimasta fino al 25, ci siamo ammalati di Coronavirus io e mia madre. Io mi sono ammalato il 26. Negavano che ci fossero casi di Coronavirus, mi arrabbiavo perché una signora che era nella stessa stanza di mia madre aveva badanti che cambiavano continuamente e venivano due volte al giorno, quando già era scoppiato il caso Codogno. Erano tutte con tosse e raffreddore, raccontavano di parenti malati. Io ci litigavo e andavo dalle infermiere a informare della situazione. Il 25 ho chiesto di dimetterla: mia madre torna a casa e resta con la badante. Il 26 io mi ammalo. La badante il 29 mi chiama e mi dice che mamma sta male, il 118 la vanno a prendere e scoprono la polmonite. Alla fine fa il tampone ed è positiva. Io dentro al Sant’Antonino ho visto un clima terribile di paura e omertà, i medici mi dicevano ‘Non parliamo qui per favore, ci sentono!’. Hanno lasciato sani e infetti insieme a lungo, non hanno informato noi parenti del fatto che gli stessi primari e medici con cui avevamo parlato erano infetti, siamo andati tutti in giro per Piacenza malati. Loro hanno fatto delle tac a febbraio a pazienti quando hanno capito cosa succedeva, me lo ha confermato un medico lì, ma hanno scelto di non dire la verità come andava fatto e subito a tutti i coinvolti”.

Dopo il mio primo articolo su Casa Piacenza uscito su Il Fatto il 18 marzo, alcune mie fonti nelle strutture mi hanno riferito che i responsabili delle cliniche hanno avuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dei dipendenti, minacciando licenziamenti se avessero scoperto le mie fonti. Riguardo la morte della donna delle pulizie Monica Rossi, la Ausl ha confermato alla sorella Marina la positività del tampone: “Ma il medico di base ha scritto che mia sorella Monica è morta di ictus e – sai cosa? – Senza aver mai visto la sua salma dopo la morte! Quando gli ho chiesto spiegazioni è stato vago e poi non mi ha più parlato”.

La risposta delle cliniche
Tramite l’avvocato delle due cliniche coinvolte, l’avvocato Sacchelli, ho posto alcune domande scritte alla dirigenza, che mi ha fatto arrivare le seguenti risposte.
1) Avete dipendenti delle zone rosse di Codogno? Se sì, vi risulta siano stati contagiati o abbiano parenti contagiati? L’ospedale di Piacenza, che aveva un infermiere di Codogno risultato positivo, ne ha dato comunicazione già a febbraio, per trasparenza. Come vi siete comportati voi? Sì, abbiamo dipendenti delle zone di Codogno. L’Organo preposto alla gestione delle comunicazione sulla positività di operatori o loro parenti (compresi quelli delle due case di cura) è il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.
2) Il vostro primario C., positivo, risulta avere un familiare, la figlia, che era stretta conoscente di un’amica della moglie del paziente uno di Codogno. Sarebbero state informazioni importanti da comunicare a parenti di pazienti e pazienti entrati in contatto col primario, per permettere di ricostruire la catena dei contagi, anche all’interno della clinica Sant’ Antonino e nelle zone di Piacenza e Codogno. L’avete fatto? L’Organo preposto alla gestione delle comunicazione sulla positività di operatori o loro parenti (compresi quelli delle due case di cura) è il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza. Abbiamo fornito al Servizio di igiene tutti i dati che ci hanno richiesto sul caso di specie.

3) Perché non è stata comunicata la positività del primario (senza specificare la sua identità, ma più genericamente di un dipendente) e di dottori e caposala? È stato fatto tramite il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.
4) Perché negli altri ospedali viene comunicato per trasparenza e nell’interesse di pazienti e cittadini il numero dei dipendenti e pazienti postivi per contagio avvenuto all’nterno e voi lo tacete? È stato fatto, in numeri dei pazienti sono quelli pubblicati 80 CCPSA e 90 CCPP, i dati sono quelli dell’Asl di Piacenza di cui noi facciamo parte come Struttura Privata Convenzionata.
5) Quanti sono ad oggi i dipendenti di Piacenza e Sant’Antonino contagiati? Sono dati che ha Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.
6) Come commentate il comunicato interno in cui invitavate i dipendenti a lavorare anche con tac positiva e che i tamponi erano terminati? La Tac è un esame non previsto nel protocollo ma lo è il tampone. La proprietà ha dato a disposizione la Tac gratuitamente come strumento di screening a maggior tutela dell’operatore. “Operatori con Tac positive ma in assenza di sintomi”: sono gli operatori che hanno in evidenze alterazioni strutturali del polmone non sicuramente riconducibili a polmonite interstiziali da virus, ma riconducibili a patologie virali (Rino virus), influenza virus avute in precedenza.
7) Come mai non avete fatto una comunicazione al personale tra infermieri, oss e addetti alle pulizie sui numeri del contagio all’interno dell’ospedale e li avete lasciati inconsapevoli e spaventati? Come mai avete fatto tamponi solo ad alcuni dipendenti? Abbiamo seguito il Protocollo Regionale

8) Il primo caso di paziente contagiato al Sant’Antonino risulta essere il signor Gino B., aveva la febbre già a metà febbraio, perché, pare, gli è stato fatto il tampone (positivo) solo a marzo? Da quel momento avete comunicato a tutti i parenti dei ricoverati, per esempio a quelli del paziente Gino B. e Bettini (ricordiamo che l’ospedale non era Covid ai tempi) la positività? Abbiamo seguito il Protocollo Regionale.
9) E avete comunicato ad altri parenti dei pazienti contagiati, tra cui alcuni della sezione Sollievo che erano lì da moltissimi mesi, la situazione? Subito appena ricevuti i Protocolli Regionali e le disposizioni Prefettizie.
10) Alcuni dipendenti dichiarano di aver avuto disposizione di legare i polsi ai pazienti e di averlo fatto. Volete commentare? Parla delle misure di contenzione previste da qualunque protocollo Ospedaliero.
11) Medici e Oss parlano di un personale risotto all’osso, due/tre infermieri per 40 pazienti. È un problema mondiale la carenza di operatori, il personale che c’è, sta lavorando al massimo per garantire un servizio alla comunità.
12) Come si è conclusa la vicenda dei ricoveri truccati, in cui è stata coinvolta la Clinica Piacenza? (avrebbe operato interventi in regime di ricovero seppur breve, anziché ambulatoriale, per ottenere rimborsi superiori dal servizio sanitario) C’è un procedimento in corso.

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