Coronavirus, cosa è successo davvero all’ospedale di Codogno nelle 36 ore fatali per il “paziente 1”
La procura di Lodi ha aperto un'inchiesta per chiarire le circostanze in cui il 38enne di Codogno è stato trattato dai medici dell'ospedale. Il virus potrebbe essersi diffuso proprio mentre l'uomo attendeva i risultati del test
Coronavirus, cosa è successo a Codogno la notte in cui il paziente 1 è stato ricoverato
Mentre l’Italia continua ad affrontare l’epidemia di coronavirus, con 474 casi di contagio in 11 regioni e 14 morti, la procura di Lodi ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per chiarire le circostanze che avrebbero portato alla diffusione del principale focolaio italiano, quello del Lodigiano, dopo che il cosiddetto “paziente 1” è stato dichiarato positivo al test all’ospedale di Codogno.
In un discorso pronunciato la sera di lunedì 24 febbraio, il premier Giuseppe Conte ha dichiarato che una struttura ospedaliera “non ha seguito il protocollo”, favorendo così il contagio.
E si tratterebbe proprio di quella del paese “cluster”.
Le sue dichiarazioni hanno fatto esplodere la polemica tra l’esecutivo, il governatore della Lombardia Attilio Fontana e il segretario della Lega, che in queste ore concitate continua ad attaccare l’operato del governo “incapace di gestire l’emergenza” e a rimproverare il presidente del consiglio per l’uscita infelice contro i medici di Codogno che, invece, sono all’opera per evitare il contagio.
Viene da chiedersi, allora, quale sia stato il comportamento dei medici del Codogno e cosa è successo veramente nella notte tra il 19 e il 20 febbraio scorso, e cioè quando Mattia, il cosiddetto “paziente 1” risultato per primo positivo al Codivd-19, è stato ricoverato in attesa dei risultati del tampone.
Stando alla ricostruzione del Corriere della Sera, l’uomo in realtà si è presentato all’Ospedale di Codogno una prima volta domenica 16 febbraio, “senza presentare alcun criterio che avrebbe potuto identificarlo come caso sospetto o caso probabile d’infezione da coronavirus secondo le indicazioni della circolare ministeriale del 27 gennaio 2020”, dichiara Massimo Lombardo, direttore dell’Azienda sanitaria di Lodi. Questa infatti indicava di effettuare il tampone solo a chi avesse avuto legami con la Cina. Ma il paziente, secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, aveva negato in un primo momento questa circostanza.
I medici propongono un ricovero prudenziale, che però lui rifiuta, e il paziente viene dimesso con una terapia antibiotica.
Mattia si ripresenta al Codogno accompagnato dalla moglie dopo tre giorni, alle 3.12 di mercoledì 19 febbraio, perché le sue condizioni erano peggiorate. Ed è proprio la moglie che, in questo caso, cita la cena con l’amico manager appena rientrato dalla Cina.
Il tampone gli viene effettuato alle 16 del giorno dopo, alle 21.20 di giovedì 20 febbraio: dal momento dell’ingresso in ospedale a quello del test trascorrono 36 ore. Un periodo in cui il paziente, ricoverato nel reparto di Medicina, entra in contatto con il personale medico senza protezione e riceve varie visite.
E da quando verrà dichiarato positivo al test al momento in cui scatta la notizia e si diffonde l’allerta, trascorrono almeno altre due ore.
A quel punto il 38enne viene portato in rianimazione e intubato da due anestesisti che, pur avendo le protezioni idonee, risulteranno poi positivi al test.
In quelle ore la situazione si fa caotica: il personale presente va casa per auto-isolarsi ma poi viene richiamato insieme agli altri colleghi per decidere cosa fare e chi far lavorare.
L’ospedale sarà chiuso al pubblico solo a metà mattina del 21 febbraio. Sempre il Corriere della Sera riporta un messaggio inviato da un testimone che si trovava nella struttura durante la notte tra il 20 e il 21 febbraio: “E’ sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare dagli errori”, reciterebbe l’sms.
Sembra proprio che la “falla” nel sistema di prevenzione sia avvenuta durante le ore trascorse tra il ricovero del paziente e la dichiarazione dello stato di allerta, in cui non tutti erano muniti delle dovute protezioni e sono entrati in contatto con una persona già infetta.
Inoltre, viene da pensare che se il paziente 1 aveva contratto il coronavirus prima di recarsi in ospedale di Codogno la prima volta, avrebbe infettato altre persone anche nei giorni trascorsi tra il primo e il secondo ricovero.
L’ospedale di Codogno ha dalla sua lo storico delle circolari ministeriali diffuse per gestire i ricoveri durante i giorni precedenti all’esplosione del focolaio italiano: mentre le prime linee guida, diffuse il 22 gennaio, prevedevano che andava sottoposto a tampone anche “una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato”, le seconde, diffuse il 27 gennaio, avevano cancellato quella frase e prevedevano controlli solo per chi avesse avuto legami con la Cina. Legame che il paziente aveva in un primo momento negato.
In questo caso non si può dire che i medici abbiano “violato il protocollo”, come Conte ha affermato.
Ma il contagio potrebbe essere avvenuto, appunto, mentre il paziente attendeva i risultati del tampone durante il secondo ricovero, quando le sua situazione era peggiorata e il contatto con il collega manager era ormai noto.
Secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, le cartelle cliniche del paziente sono state sequestrate dai carabinieri del Nas di Piacenza mercoledì 26 febbraio. E adesso occorrerà aspettare i risultati dell’indagine per attribuire alla struttura l’eventuale responsabilità del contagio.