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Esclusivo TPI – Coronavirus, lavoratori finiti in terapia intensiva e giovani ricattati: così la Dalmine in Lombardia ha tenuto aperte anche le attività produttive non essenziali. Gli operai: “Abbiamo paura di contagiare le nostre famiglie”

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Alla vigilia della Fase 2 e con la proposta della Lombardia di riaprire le attività produttive dal 4 maggio, il caso Dalmine è rappresentativo di come un’azienda come quella della Bergamasca - considerata strategica ai fini della produzione di bombole d’ossigeno - abbia tenuto aperto diversi reparti per la produzione di beni non essenziali. Perché la legge glielo ha consentito. Il bilancio finora: due operai deceduti e altri finiti in terapia intensiva, e giovani precari costretti a lavorare da volontari nella filiera più rischiosa

A proposito di ripartenze e di fase 2, la domanda che oggi dobbiamo farci è solo una: siamo davvero pronti a riaprire tutto? Dieci giorni fa il presidente degli industriali lombardi, Marco Bonometti, diceva a TPI: “Se le aziende non sono in grado di mettere in sicurezza i propri lavoratori non possono lavorare. Il codice di autoregolamentazione che ci siamo dati per salvaguardare la salute dei dipendenti è proprio quello di utilizzare i guanti, le mascherine e il distanziamento sociale”.

Bastasse solo questo saremmo a cavallo, in realtà sappiamo bene che sul tavolo oggi c’è anche il delicato tema dei test e di tutti quegli strumenti diagnostici necessari per ripartire con intelligenza. Anche per questo bisogna guardarsi in faccia e dirsi onestamente se le regole imposte siano sufficienti e si possano rispettare, se siano compatibili con un certo tipo di attività produttive e se le fabbriche nel tempo possano reggere il peso del contingentamento dei turni e del calo inevitabile della loro produttività. In una regione, la Lombardia, dove non si è stati in grado di proteggere adeguatamente medici e operatori sanitari, dove si sono lasciati morire centinaia di anziani in casa e negli ospizi, dove il Covid è stato fatto entrare nelle Rsa dalla porta principale, attraverso una delibera oggi al centro di una bufera giudiziaria, ecco, in una regione dove vige l’obbligo di coprirsi naso e bocca, ma ancora in troppi non riescono a reperire le mascherine, sembra logico chiedersi se potremo mai essere all’altezza di affrontare una ripartenza, parziale o completa che sia, soprattutto delle attività produttive, dal momento che questo prevede un cambio radicale di paradigma su tutti i fronti.

In questa regione, con il record mondiale di morti da Covid, dove le fabbriche non si sono mai fermate del tutto, dove ci si è aggrappati a qualunque cavillo che lasciasse spazio a una riapertura ante tempus, grazie alla meravigliosa narrazione che l’essenziale dell’essenziale potesse trasformare quasi ogni attività produttiva in necessaria e quindi titolata ad operare, anche durante una pandemia globale, proprio qui, in una regione così, oggi si vuole solo guardare avanti, senza ancora aver capito e analizzato le ragioni di questo triste primato. Ecco perché, a titolo esemplificativo, vorremmo ricostruire quello che è successo nelle ultime settimane e sta accedendo ora all’interno di una grande fabbrica bergamasca, simbolo della operosità tipica di questa terra, una azienda strategica con oltre un secolo di storia alle spalle, una società siderurgica che produce tubi in acciaio per l’industria petrolifera e dove lavorano 1300 persone suddivise in cinque reparti più gli uffici: tutti a Bergamo la chiamano “la Dalmine”.

Andiamo con ordine. Il 23 febbraio vengono accertati i primi casi di Covid19 in provincia di Bergamo, all’ospedale di Alzano Lombardo, ormai tristemente noto per la chiusura e la misteriosa riapertura del suo pronto soccorso. In serata Bergamo ha la sua prima vittima di Coronavirus. Il giorno dopo viene sospesa ogni attività formativa alla Dalmine. La produzione va avanti. All’entrata della fabbrica c’è un cartello che dice: “Se avverti sintomi di infezione respiratoria e/o febbre non entrare nello stabilimento, ma torna immediatamente a casa e contatta il tuo medico curante”. Nella settimana dal 9 al 13 marzo molti lavoratori si assentano per malattia. La paura è tanta. Il reparto dell’acciaieria deve chiudere per mancanza di personale (si produce al 50 per cento delle possibilità) e anche per pressioni sindacali. Il 16 marzo si ammala un primo lavoratore di Covid19 nel reparto FTM (Fabbrica Treno Medio). Andrà in terapia intensiva. Il giorno dopo si tiene in teleconferenza una riunione con i vertici aziendali, la Rsu e i segretari provinciali di Fim, Fiom e Uilm per parlare delle misure di sicurezza, ma tra i lavoratori serpeggia molta preoccupazione. Le perplessità sono tante, come ad esempio – si legge nel comunicato sindacale – “sull’efficacia dell’utilizzo delle mascherine, sul problema degli assembramenti negli spogliatoi e sulla sanificazione delle varie aree”.

Massimo Seghezzi lavora alla Dalmine da quasi vent’anni come operaio: “In acciaieria – ci racconta – che è il reparto più sindacalizzato, la paura si sente, anche per questo ci hanno lasciato una settimana in più rispetto agli altri reparti prima di riprendere, perché la gente è più arrabbiata. Molti si fanno la domanda: vado a lavorare e se poi porto a casa il virus?”. Chi lavora in fabbrica a Dalmine nei giorni del lockdown nazionale scrive su whatsapp ai colleghi messaggi come questo: “Le misure di sicurezza messe in atto dall’azienda nelle scorse settimane per salvaguardare i lavoratori sono, a mio avviso, insufficienti: un cubo di sapone di marsiglia posato su un lavandino lurido, una diluizione da alcol e acqua per disinfettare, diluita da loro in quale percentuale non si sa. Attenzione a riprendere ancora in queste condizioni.”

Già dal 17 marzo inizia il pressing dell’azienda sui lavoratori per riaprire e riprendere a lavorare. Il 20 marzo l’acciaieria è attiva grazie aI lavoratori volontari. Quel reparto non è indispensabile per la produzione di bombole. Il 24 marzo continua la campagna social della Dalmine per dire “noi ci siamo”. Vorrebbe ci fossero anche i lavoratori? La Tenaris Dalmine estende la volontarietà verso reparti considerati non essenziali. Il 25 marzo muore il primo operaio, si chiamava Salvatore Occhineri. Lavorava al magazzino tubi e per questo doveva girare nei reparti e venire a contatto con altre persone. Infatti due suoi colleghi finiscono in terapia intensiva alcuni giorni dopo, ma nessuno li aveva avvertiti. Si convoca una riunione dietro l’altra e i “volontari” vengono richiesti dall’azienda ben oltre le attività essenziali.

Inutile dire che i lavoratori volontari sono spesso quelli più ricattabili: neo assunti, giovani con contratti a scadenza, persone che non possono permettersi la riduzione dello stipendio. In questa fase la Dalmine (siamo al primo aprile) consiglia ai dipendenti, tramite una brochure, di praticare esercizi di attività motoria a casa, in modo da mantenere il corpo tonico e in salute per la ripresa. Sempre a inizio aprile l’azienda comunica di voler ripartire, seppur parzialmente, il 6 di aprile, sostenendo che le attività di Tenaris Dalmine legate al ramo energetico siano strategiche ed essenziali. I lavoratori, appoggiati dal sindacato, sostengono invece che in questa fase l’essenzialità sia riconducibile solo alla produzione di bombole medicali, confermando la contrarietà ad estendere la ripresa delle attività a produzioni non essenziali. In verità i decreti lasciano troppo margine alle aziende, che possono andare in deroga e continuare quindi a lavorare, rischiando di far ammalare i propri dipendenti. Basta chiedere una proroga al prefetto e la produzione può ripartire anche senza essere legati alla filiera delle attività essenziali. Ed è così che in Lombardia in molti sono già ripartiti, magari laddove i lavoratori sono più silenziosi. Laddove sono più sindacalizzati, invece, si rimanda di una settimana. Gli operai della Dalmine lo chiamano “il contentino”.

Il 4 aprile muore Sergio Bertino. Lavorava a Sabbio, il famoso reparto delle bombole d’ossigeno della Tenaris Dalmine. Quel comparto che il capo degli industriali lombardi, Marco Bonometti, dieci giorni fa rivendicava di aver tenuto aperto, aggiungendo che “le bombole per l’ossigeno sono una filiera che parte dall’acciaio, alla calandratura, dalla saldatura, alla meccanica. Per fortuna che sono rimaste aperte certe attività. Se non ci fossero state le imprese aperte con l’utilizzo e lo sfruttamento dell’ossigeno che diamo agli ospedali, la gente sarebbe morta”. Peccato che, a parte il reparto che produce le bombole d’ossigeno, gli altri reparti non siano essenziali, perché – come ci racconta Massimo Seghetti che è anche attivista del sindacato di base Flmu-Cub – con un paio di giorni di lavoro dell’acciaieria si producono migliaia di tonnellate di acciaio, con cui si possono fabbricare bombole per mesi interi”.

In pratica a Sabbio sarebbero autosufficienti. L’azienda, invece, vuole ripartire il prima possibile e comunica che nell’ultimo mese, a causa dell’emergenza Covid19, “sono state perse circa 20 mila tonnellate di produzione pari a circa 40-45 milioni di fatturato, in un contesto di crisi generale del settore oil & gas” – come riportato in un comunicato sindacale – “con le aziende concorrenti in Giappone, Usa e in Europa che stanno comunque producendo”. Per la fase 2 il tema centrale, oltre all’uso dei dispositivi di protezione individuale e la sanificazione delle aree comuni, è soprattutto quello di evitare gli assembramenti in azienda, il che si traduce nella conseguente riduzione dei turni. La Dalmine non è e non sarà l’unica grande fabbrica italiana (e probabilmente al mondo) a dover ripensare e riprogrammare il proprio regime dei turni e il contingentamento dei propri lavoratori, perché la loro tutela passa anche dai numeri e dalle presenze in fabbrica. La pressione dei lavoratori dell’acciaieria ha fatto in modo di ottenere lo spostamento della ripartenza di questo reparto al 20 di aprile, lunedì prossimo. Intanto questa settimana il sindacato di base ha rilanciato uno sciopero ad oltranza (nel settore metalmeccanico, industria e artigianato) come strumento dei lavoratori per salvaguardare la propria incolumità e quella delle proprie famiglie.

I dati della diffusione del Covid19 in Lombardia continuano ad essere allarmanti e la proroga al 3 maggio, relativa al fermo della produzione, lascia ancora la possibilità di proseguire le attività anche a settori non effettivamente essenziali, attraverso l’autocertificazione alle prefetture. Ma gli operai si interrogano: chi deve fare tamponi per i lavoratori che rientrano? Seghezzi non nasconde la sua preoccupazione: “nei reparti sarò molto difficile rispettare tutte le misure di sicurezza, perché siamo stressati, in particolare in acciaieria si lavora in un ambiente con temperature molto elevate e non ci sono le condizioni per tutelare i lavoratori. Negli spogliatoi siamo a mezzo metro di distanza gli uni dagli altri e quando torneremo a pieno ritmo come faremo a stare in cinque dentro a una cabina da tre metri per sei?”.

Oggi alla Dalmine sono aperti quattro reparti su cinque, da lunedì prossimo riapriranno tutti. Con la magistratura che indaga, l’opposizione sul piede di guerra, e una curva dei contagi ancora imprevedibile, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, vorrebbe riaprire tutto il 4 maggio. A dire il vero oltre 110mila fabbriche al nord l’hanno già fatto in autonomia, con l’autocertificazione consentita dal Dpcm “Chiudi Italia” del 22 marzo scorso. Eppure la fondazione indipendente GIMBE – che da mesi analizza a fondo i dati ufficiali e pubblica modelli predittivi sull’andamento dell’epidemia da Coronavirus – oggi ci ricorda che “il contagio non è sotto controllo”.

Questo è dovuto al fatto che con le misure di distanziamento “siamo partiti in ritardo, che il lockdown non è stato affatto totale e che l’aderenza della popolazione è stata buona, ma non eccellente. Non a caso il presidente del GIMBE, Nino Cartabellotta ci fa sapere che “nonostante il contagioso entusiasmo per l’avvio della “fase 2” serve la massima prudenza: se oggi, infatti, ospedali e terapie intensive iniziano a “respirare”, i numeri confermano che la curva dei contagi non è affatto sotto controllo ed il rischio di una nuova impennata dei casi è sempre in agguato”. Esiste infine un altro tema ancora confuso: chi si occuperà dei test sierologici da fare ai lavoratori? Lo Stato? Le aziende? Siamo davvero pronti alla fase due? E’ davvero possibile vigilare sul rispetto delle regole e garantire la tutela dei cittadini o tra qualche settimana saremo di nuovo punto e a capo?

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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