“Noi operatori del call center costretti a lavorare nonostante Conte abbia chiuso tutto: senza mascherine e ammassati in una stanza”
"Non ci permettono lo smartworking, temiamo il contagio di massa": la denuncia dei lavoratori del call center Distribuzione Italia
“Domani andremo ancora in ufficio, in 70 in una stanza”: un lavoratore del call center Distribuzione Italia (che preferisce restare anonimo per paura di ripercussioni) è molto preoccupato, gli trema la voce. Il paese si ferma per contrastare il Coronavirus, dopo l’ultima conferenza di Giuseppe Conte anche la produzione si arresta. Ma la regola non vale ancora per tutti: tra le situazioni più a rischio ci sono proprio i call center, ai quali non è consentito ancora lo smartworking. Sono i dimenticati, quelli che mandano ancora avanti l’Italia rischiando tantissimo.
Coronavirus call center, le condizioni di lavoro
L’azienda è una outsourcer con sede in via Faustiniana 28 a Roma, tra le varie commesse ha grandi clienti come Poste italiane (per la quale lavorano 110 persone nello stesso edificio) e 060606. “Siamo ammassati in una stanza chiusa con pc e cuffie condivise e senza protezioni obbligatorie – spiega G. a TPI – Vogliamo davvero credere che mantenere la distanza di 1 metro ci protegga in queste condizioni?”.
È vero che sono state incrementate le pulizie ma, come racconta il lavoratore, “la sanificazione è stata fatta una sola volta“. Le mascherine e i guanti non sono obbligatori e i responsabili di sala fanno su e giù tra le postazioni senza alcuna protezione. Molti dei lavoratori prendono anche tre mezzi pubblici per arrivare in sede e continua dunque ad essere esposti ai contatti sociali.
“È assurdo che siamo gli unici a non poter fare il televoro – denuncia G. – Dai pop-up che vediamo a terminale, l’azienda pare mostrarsi disponibile al telelavoro. L’ostacolo pare sia da parte del committente Poste Italiane che non concede l’autorizzazione. Ignoriamo tutti il motivo”.
La morte di un ragazzo spaventa tutti
La situazione era già complessa, ma a peggiorarla c’è stata una bruttissima notizia di domenica 22 marzo: è morto per Coronavirus a Roma un giovane di 34 anni di Cave. Emanuele Renzi lavorava nello stesso call-center di G. Lo confermano a TPI i sindacati CGIL, CISL e Uil, l’azienda preferisce invece restare in silenzio su questo decesso. Ricoverato venerdì scorso in un ospedale romano dopo aver scoperto di essere positivo, Emanuele è morto appena due giorni dopo in seguito a un peggioramento delle sue condizioni. Il panico corre veloce nelle chat dei lavoratori, ma dall’azienda nessuna risposta.
“Più di una morte, cosa deve succedere? I miei colleghi sono preoccupati tanto quanto me ma siamo entrati in questa azienda i primi del mese in seguito a una clausola sociale. Come me tanti non possono prendersi né malattia, né ferie anticipate. Siamo obbligati a andare al lavoro e abbiamo paura di contagiare o essere contagiati”, spiega il centralinista.
Il decreto è rispettato, ma i rischi sono comunque alti
Il decreto non si occupa nello specifico della categoria dei call-center, quindi le aziende si attengono al metro di distanza e alle protezioni in caso questo metro non sia possibile rispettarlo. Dunque, come ricorda a TPI Distribuzione Italia, “la legge è stata finora rispettata, fino a ulteriori norme”.
Ma G. sottolinea: “Penso che sia l’azienda per la quale lavoro sia Poste Italiane possano fare molto più che attenersi rigidamente a ciò che è previsto nel decreto che mi sembra chiaro non prenda in considerazione situazioni come la nostra. Quel metro di sicurezza non è sufficiente se comunque stiamo ammassati in 70 senza protezioni”.
Domani è un altro giorno, si torna a telefonare e a rispondere ai clienti: quei milioni di italiani che stanno a casa per il Coronavirus, mentre G. è costretto a stare seduto alla sua postazione.
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