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Il vero paziente 0, quella RSA chiusa e riaperta dalla Regione, malati lasciati da soli in casa: così è avvenuto il contagio a Brescia

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Coronavirus Brescia: storia di un contagio. Il vero paziente 0 e quella RSA riaperta dalla Regione

Orzinuovi è un comune di circa 12mila abitanti nella bassa bresciana oggi tristemente conosciuto per essere diventato in pochi giorni uno dei maggiori focolai del Covid19. In quest’area a vocazione agricola, fulcro di scambi commerciali nel settore zootecnico, l’ultimo Mercato del fieno si è svolto il 28 febbraio, con agricoltori che arrivavano tra l’altro da Lodi, Codogno e Cremona. Qualche giorno prima, dal 14 al 16 febbraio, a Montichiari si teneva l’annuale Fiera Agricola Zootecnica. Credo diventeranno, nei racconti post pandemia, capitoli importanti per ricostruire lo sviluppo massiccio del virus nella nostra regione. A Orzinuovi i cittadini sono arrabbiati, come del resto in tutta la provincia bresciana, perché non c’è famiglia che non abbia subìto un lutto. E ad essere arrabbiati sono anche i parenti di quella moltitudine di persone che è corsa in ospedale con sintomi sospetti e che è stata rimandata a casa senza tampone per curarsi con il fai da te.

Famiglie intere che hanno cercato sollievo ai dolori con Aulin e Tachipirina, e tra queste c’è a chi è stato diagnosticato il Covid-19 al terzo ricovero. Ma l’incongruenza è che ai loro parenti, ai conviventi, a chi li ha frequentati mentre erano malati nessuno ha fatto alcun accertamento, con medici di base che non uscivano e che davano istruzioni al telefono, talvolta affidando ai figli tutte le competenze nell’assistere i genitori senza gli strumenti idonei. Una mosca bianca è però il Dottor Micheli che a Orzinuovi è stato soprannominato “l’eretico in tuta” in quanto, munito di quella che somiglia ad un’armatura ospedaliera, fa visita ai suoi pazienti spostandosi anche nei comuni limitrofi. Mi conferma che il primo paziente, morto purtroppo qualche giorno dopo, risale al 25 febbraio, ma che era già gravemente malato da una settimana. E’ dunque possibile che il virus circolasse già da molto prima e non è escluso – anche se per ora restano ipotesi – che il contagio sia partito proprio da questa zona.

Nessuna delle persone con le quali ho parlato per realizzare questo articolo ha acconsentito a pubblicare le proprie generalità, forse intimoriti da quanto successo a Milano, dove alcuni dipendenti dell’RSA Palazzolo sono stati sospesi dal lavoro per aver rilasciato dichiarazioni ai giornalisti. Non è stato divulgato nemmeno dalla trasmissione Rai “Chi l’ha visto?” il cognome di Liliana, il cui caso è l’emblema di come sia stata affrontata l’emergenza in Lombardia. Per tre settimane Liliana ha dovuto assistere in casa la madre malata seguendo le indicazioni telefoniche del medico, fino all’aggravarsi delle sue condizioni. I sanitari del 112 decidono di portarla in ospedale, ma l’anziana muore un’ora dopo il ricovero. Sul certificato ospedaliero si legge, come causa del decesso, “Covid sospetto”. Alla tragedia per la perdita della mamma si aggiunge per Liliana la rabbia per la mancanza di chiarezza da parte degli organi preposti.

La donna, insieme alla famiglia, si mette in auto isolamento, trascorso il quale, preoccupata di poter essere ancora contagiosa e dato che il protocollo regionale non prevede che venga sottoposta a tampone, si organizza per conto suo. Si affida ad un laboratorio certificato per effettuare il test a domicilio a sue spese. Di fronte a casa però c’è la sede dell’Ats Bresciana, l’ente preposto a decidere chi debba essere sottoposto a tamponi, e un’addetta, dopo l’arrivo della dottoressa, chiama i carabinieri. La biologa viene addirittura portata in caserma, per essere rilasciata dopo aver constatato che è tutto regolare. Sconcertante la reazione della consigliera leghista Federica Epis, che ha l’ardire, in un lungo post, di formulare farneticanti accuse di irresponsabilità che metterebbero in crisi la salute pubblica di quei cittadini che cercano di capire se sono infetti o meno. Davvero uno strano quanto incomprensibile atteggiamento quello degli esponenti della Regione lombarda: decine di cittadini, per poter riprendere a lavorare, si stanno volontariamente sottoponendo ai test sierologici a proprie spese, mentre arrivano dichiarazioni da parte di medici del lavoro che tali test non verranno ritenuti validi dall’ATS.

Lidia Liotta, poco più che cinquantenne, era caposala nella RSA di Predore, dove in un mese sono morti 10 anziani su 25. Il 26 febbraio dichiarava ai famigliari di essere preoccupata per l’alto numero di casi di polmonite. Poi ha cominciato a star male anche lei, ma dopo qualche giorno a casa ha dovuto rientrare per mancanza di personale. L’11 marzo ha avuto un tracollo, non riusciva più a respirare. Qualche giorno dopo è morta. La RSA di Iseo il 22 febbraio chiude l’accesso ai parenti per le visite. Il 29 però arriva una circolare della Regione che invita a riaprire, consentendo di farne entrare uno alla volta. E questo va avanti fino al 2 marzo, data nella quale si richiude nuovamente l’accesso agli esterni. In quel lasso di tempo, per stessa ammissione del Dirigente, a causa dell’emergenza mancavano mascherine e dispositivi di protezione. I primi test vengono effettuati solo nella settimana di Pasqua, quando ormai i decessi, in un solo mese, coinvolgono oltre un terzo dei pazienti. Ora la situazione è rientrata, i dispositivi ci sono, i tamponi sono stati fatti e i reparti isolati, ma le perdite sono state gravissime: 40 su 114.

Sempre a Iseo abbiamo un ospedale dove non si può più nascere da quando pediatria, ginecologia e sale parto sono state destinate alla cura dei pazienti Covid e spostate ad una trentina di chilometri. Qui si apprende che sette ginecologi della zona sono a casa perché risultati positivi. Si è salvata invece dall’ondata di contagi la Nuova Cordata, la cooperativa nata dalla volontà di alcuni genitori di ragazzi disabili, grazie alla tempestiva ordinanza di chiusura da parte del Sindaco il 25 febbraio. Intanto è notizia di poche ore fa che all’ospedale di Chiari solo 15 delle 200 persone interpellate telefonicamente dall’ATS hanno acconsentito a presentarsi per il prelievo di sangue, fondamentale per accertare sia un eventuale contagio asintomatico che un’immunità acquisita dopo la malattia e tracciare un quadro della situazione epidemiologica del territorio. Le persone temono di essere contagiate proprio in quelle strutture che dovrebbero preservarne la salute. Giorni fa la vice sindaca di Brescia Castelletti ha comunicato che è stata messa in quarantena un’intera squadra dei Vigili del Fuoco perché uno di loro, la cui moglie è infermiera in una struttura veneta, è risultato positivo al Coronavirus. Se la moglie malata fosse stata bresciana e non veneta, il marito non sarebbe stato sottoposto ad alcun tampone e noi avremmo in giro un’intera squadra di soccorritori potenzialmente contagiosi.

C’è un altro aspetto, oltre ai numeri, che inciderà sulla nostra memoria collettiva, ed è il lato umano. Ho parlato con Laura, che lavora per un’impresa di pulizie in una struttura ospedaliera. “Gli infermieri sono in qualche modo preparati a reagire alle emergenze ma noi no. Questa pandemia ha sconvolto le nostre vite, non avrei mai creduto di dover affrontare una tragedia simile. Un giorno il Direttore ospedaliero è entrato, ha riunito tutti, chirurghi, infermieri e personale vario, ci ha detto: questa è un’emergenza, munitevi di straccio e spray disinfettante, disinfettate ogni cosa e fatelo di continuo. All’inizio è stato impressionante: c’erano barelle in ogni corridoio e morti ovunque, si liberava un posto e subito bisognava far spazio per il prossimo. La sera rientravo a casa sola e distrutta. Piangevo. E’ terribile vedere certe cose, non lo so descrivere, vedi la morte in faccia. Passare tante ore chiusi in una corsia, senza potersi fermare, con la mascherina che preme creando solchi sul viso e non ti lascia respirare, gli occhiali che si appannano ad ogni respiro e il camice che fa sudare…quando entriamo lì dentro siamo tutti uguali, indossiamo gli stessi camici e le stesse maschere. Poi qualcuno ha pensato di scrivere i nomi sui camici per riconoscerci tra noi”.

“Quando incroci gli sguardi dei malati cerchi di fare un sorriso ma la maschera lo nasconde, ti sforzi di dire una parola gentile perché è tutto ciò che puoi fare. Pensi che potrebbero essere i tuoi genitori, vorresti dirgli ‘resisti, ce la farai’ ma quando torni può darsi che non ci saranno più, tra chi è uscito con le proprie gambe e chi non ce l’ha fatta. In tutto questo dolore ho scoperto l’unione e la solidarietà; noi che lavoriamo dentro agli ospedali anche se non siamo infermieri siamo il prolungamento l’uno dell’altro, non esistono distinzioni, barriere, colori, forse perché sappiamo che potrebbe capitare a noi”.

Scrivere da Brescia non è facile. Per settimane la mia soglia di concentrazione è stata bassa, costringendomi a chiudere le finestre per non sentire il rumore costante delle ambulanze che hanno visto ammalarsi e morire forse la migliore delle generazioni, quella che con sacrificio ci ha traghettato verso quel poco di benessere che abbiamo. In questo universo di dolore che è oggi la Lombardia, passata da essere fulcro produttivo a luogo di morte per circostanze sfortunate e imprevedibili, appena si placherà la frenesia bisognerà fare i conti anche con gli errori dovuti a scelte prese con superficialità. In Lombardia inizialmente sono stati fatti tamponi solo a chi già stava in ospedale con sintomi parecchio evidenti. Operatori sanitari di ospedali e RSA si stanno mettendo in regola con i test ma non esistono dati ufficiali in quanto la Regione non li ha mai diffusi.

I medici di base denunciano da settimane di avere numerosi pazienti malati con sintomi riconducibili al virus, che si limitano a stare a casa in quarantena e che spesso vengono trasferiti in ospedale quando è ormai troppo tardi, mentre i soli “schedati” sono quelli che compaiono nelle liste dell’ATS, che poi sono gli unici che hanno il divieto assoluto di uscire. Si va quindi per approssimazione, per casi sospetti. Oggi possiamo asserire che il limitato sistema di tracciamento dei contatti di casi positivi e la mancanza di tamponi hanno imbrogliato l’ingranaggio di un sistema che non ha saputo adattarsi all’emergenza alla stessa velocità della diffusione dell’epidemia. È come se migliaia di persone fossero rimaste fuori dai radar delle autorità, e credo che tutto sia nato da lì, lo dimostrano regioni come il Veneto che attraverso test e mappatura dei contatti sono riusciti a contenere il virus.

A persone potenzialmente infettive è stato concesso di circolare, affidandosi escusivamente al loro senso civico e alla loro responsabilità nello stare diligentemente chiusi in casa. Non ho voce in capitolo e non desidero dare il via a sterili polemiche, ma gli ospedali e le RSA lombarde hanno accolto una marea di malati Covid, quando forse sarebbe stato meglio il modello Emergency che prevede, passata l’immediata eclatanza, di allestire aree distaccate per non compromettere operatori e degenti con altre patologie. Il tempo ci dirà come sono andate le cose. Del resto in un Paese normale, tra un’escalation e l’altra di notizie inquietanti, Fontana e il suo entourage avrebbero quantomeno sospeso la perenne tornée organizzata per raccattare voti e consensi e fare un sommesso mea culpa.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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