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Gente che muore aspettando i tamponi, assessori che minimizzano: il disastro Basilicata nella lotta al virus

Immagine di copertina
Ospedale Madonna delle Grazie Credits: Ansa

“Il paziente uno in Basilicata? Se ne sta tranquillamente a casa a mangiarsi il suo piatto di pastasciutta con la mamma. Sdrammatizziamo”. Diceva così, il 3 marzo, ai giornalisti l’assessore alla Sanità della Regione Basilicata, Rocco Luigi Leone.

Neanche un mese dopo, i lucani che non mangeranno mai più pastasciutta sono 11. E sono morti che pesano, perché in quello che sta accadendo in Basilicata si fatica a trovare un senso. La regione, infatti, per sua fortuna sembra essere abbastanza lontana dai numeri riscontrati in altri territori:  256 casi di positività in tutto, 2427 tamponi analizzati, di cui 2179 risultati negativi. I pazienti ricoverati negli ospedali lucani (ospedale San Carlo e ospedale Madonna delle Grazie) sono 57, di cui 19 in terapia Intensiva. Posti in terapia intensiva che sono 64, con la possibilità di diventare 90 nel caso in cui il virus si diffonda.

Alla luce di questi dati, l’assessore Leone, che ai microfoni sembra sempre una specie di senatore Razzi in salsa lucana, aveva ulteriormente rassicurato i cittadini: “Per la terapia intensiva siamo addirittura più abbondanti del sistema sanitario nazionale, non serviranno, state tranquilli!”. “Noi i focolai li isoliamo bene. Quindi facciamo più tamponi di quanti ne servirebbero!”. “Ai diecimila test ordinati, che avevo annunciato nei giorni scorsi, ne abbiamo aggiunti altri diecimila!”. “Questa è solo un’influenza!”. “Sono numeri che non ci devono spaventare perché siamo attrezzati per sconfiggere questa epidemia!”.

 

In effetti, aveva ragione: non erano i numeri a dover spaventare i lucani, ma la gestione di quei numeri da parte della sanità lucana. Una sanità con una vita devastata dal virus della politica, ora alle prese con un virus di altro tipo. Quasi un ceppo a parte, verrebbe da dire, quello lucano. Così a parte che nonostante i numeri contenuti, come dicevamo, la gente sta morendo mentre aspetta un tampone.

L’ultimo caso, quello che riguarda la morte del giornalista Antonio Nicastro, grida vendetta. Potentino, il sessantasettenne Nicastro era un personaggio molto amato nella sua città. Si era ammalato il 5 marzo. Aveva la febbre e una tosse persistente che non passava. Il 13 marzo era stato al Pronto soccorso del San Carlo, ma lo avevano rimandato a casa, prescrivendo un antibiotico. Per due settimane aveva implorato un tampone, supportato dalla moglie e dal figlio Valerio. “Stiamo impazzendo” aveva scritto Valerio su fb.

“Ore 12. Anche oggi la sanità lucana dei sta prendendo gioco di me”, aveva postato lo stesso Antonio sui social. A quel punto erano andati a fargli il tampone, la cui risposta è arrivata 48 ore dopo, mentre le condizioni di Antonio si aggravavano sempre più. Il 22 marzo, era stato dunque ricoverato. A leggere il referto del San Carlo, colpiscono aggettivi e avverbi scelti con cura: “E’ arrivato al San Carlo in condizioni gravi ma non critiche”. “Gli indici di infiammazione elevati inducevano a eseguire TEMPESTIVAMENTE (entro meno di 1 ora) HRCT polmonare”. “Si iniziava PRONTAMENTE la terapia”. A venti giorni dai primi sintomi e a 9 dalla visita al pronto soccorso, una tempestività commovente. E in effetti le sue condizioni erano così poco critiche, che già il giorno dopo il povero Antonio era intubato, in rianimazione.

E la sua morte, avvenuta 10 giorni dopo, viene spiegata così: “L’esito infausto nonostante la messa in atto di tutte le linee di approccio terapeutico è purtroppo paradigmatico del processo di tumultuosa inarrestabile e in molti casi imprevedibile e solo parzialmente conosciuta evoluzione del quadro clinico. Sentite condoglianze”. Quindi la linea di approccio terapeutico, in Basilicata, prevede che nel pieno di una pandemia un paziente con febbre, tosse, malessere generale da settimane debba implorare un tampone su Facebook e giunga in ospedale quando ormai ha un piede nella fossa. Ma come, Leone non diceva che era un’influenza e che si finiva a mangiare tutti pastasciutta? 

Interessante anche il documento diffuso dall’Asp regionale: “Quand’anche non ricorressero tutti i criteri previsti per la candidabilità all’esecuzione del tampone, il giorno 20 IN TERMINI PRUDENZIALI l’Asp ha disposto l’effettuazione del tampone”. In pratica gli hanno fatto un favore, a fargli ‘sto tampone. Se non glielo avessero fatto in effetti avrebbe potuto provvedere il figlio a intubarlo con la pompa del giardino, magari. Il 30 marzo, due giorni prima della morte di Antonio, il presidente della regione Basilicata Bardi aveva dichiarato: “Se ci sono stati così tanti casi denunciati di malasanità ho dato disposizione di un’immediata immagine interna. (…) Il commissario per l’emergenza Covid c’è già e sono io”.

In pratica, Bardi dovrebbe indagare su se stesso. E sarebbe un’interessante presa di coscienza, bisogna ammetterlo. Un altro uomo di soli 58 anni era morto pochi giorni fa sempre al San Carlo dopo che per 10 giorni aveva chiesto il tampone, con la febbre a 39 e “le dita viola”, come raccontato dalla moglie. 

Nel frattempo l’assessore del piccolo comune di Irsina, Anna Maria Amenta, su Fb scrive “A una settimana dall’ordinanza regionale che ci ha dichiarati zona rossa, siamo in attesa del risultato dei tamponi fatti ieri pomeriggio, un po’ pochi per una comunità dichiarata zona rossa. Se siamo zona rossa che si aumenti il numero dei tamponi”. Quindi chi sta male non viene curato se non quando le sue condizioni sono disperate e lo si lascia a casa, in compenso si chiude un intero comune senza neppure sapere quante siano le persone contagiate in quel comune. Il piano d’emergenza di Bardi, applicato che so, in Veneto, avrebbe mietuto più vittime della seconda guerra mondiale. 

Ma il meglio deve ancora venire. L’assessore alla sanità Leone, intervistato da Giusi Cavallo di Basilicata24 ha dichiarato: “I medici di famiglia hanno ceduto le armi. Non ha funzionato il sistema di monitoraggio del territorio da parte dei medici di medicina generale. Dicono che mancano i dispositivi di protezione personale, ma noi li abbiamo distribuiti, li abbiamo mandati nelle sedi opportune dove loro devono avere la compiacenza di andare a ritirarli”. E poi altre dichiarazioni quali: “I medici di medicina generale non leggono le brochure, tornate  fare i medici, tornate a occuparvi della salute dei cittadini!”. L’ordine dei medici di Potenza, tramite il presidente Rocco Paternò, ha risposto: “Sono dichiarazioni beffarde e irrispettose per la categoria. C’è stata scarsa o nulla dotazione delle protezioni per i medici, la classe medica non merita questo. Ci sono contagi tra medici di base e ospedalieri”. 

Insomma, la colpa per l’assessore alla sanità Leone è dei medici che sono un po’ codardi, un po’ svogliati, troppo poco desiderosi di andarsene a farsi contagiare porta a porta.  “Dobbiamo aspettare che mio padre muoia per capire chi deve prendersi la responsabilità di dirci cosa abbia?”, aveva scritto Valerio, il figlio di Antonio, il 20 marzo. 

E alla luce dei rimpalli di responsabilità a cui si sta assistendo, forse era stata una previsione perfino ottimistica. Quasi quanto quel “Coronavairus? E’ solo un’influenza stagionale”, pronunciato dall’assessore Leone nell’aula comunale il 27 febbraio. 

E ora una bella spaghettata per tutti.

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