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“Portiamo gli ecografi dove mancano in Lombardia”: la lotta dell’associazione Hope contro il Coronavirus

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Elena Fazzini, Presidente di Hope Onlus

Nata per caso, l'associazione benefica ha messo in campo l'esperienza maturata in Medio Oriente e il suo metodo di lavoro più simile a quello di un'azienda. L'intervista alla presidente Elena Fazzini.

Undici ecografi del valore di 25mila euro da destinare agli ospedali della Lombardia: la nuova raccolta fondi di Hope Onlus è un ulteriore tassello che l’associazione no profit, fondata nel 2006 da Elena Fazzini, mette a segno contro il Coronavirus: “Si tratta di una strumentazione strategica perché permette un veloce screening del paziente, di modo che il medico possa trovargli un posto nel reparto più adatto nel più breve tempo possibile e allo stesso tempo monitorarne lo svilupparsi della malattia. Gli ecografi portatili vengono molto usati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dai medici che lavorano negli ospedali in zone di guerra durante i bombardamenti perché sono poco più grandi di un laptop e in quelle prime linee arrivano di continuo pazienti da curare: esattamente come sta accadendo in queste ore nel Nord Italia a causa della pandemia”, racconta la presidente.

Nata con lo scopo di aiutare bambini e comunità in difficoltà in Italia e in Medio Oriente, attraverso interventi di aiuto umanitario e di sviluppo sostenibile a tutela della salute e dell’educazione, la Hope Onlus può contare su un metodo di lavoro ormai collaudato nel tempo che la rende più simile a a un’azienda che a una organizzazione benefica: “Ho lavorato per anni nel Gruppo Generali, in progetti che riguardavano bambini, donne e microimprese, dopo un’esperienza alle Nazioni Unite tra Libano, Ruanda e India. Nei Paesi più poveri le donne sono quelle che lavorano per mandare i bambini a scuola e garantire loro le cure, ma servono strumenti economici che diano loro autonomia. Nel Gruppo Generali ho avuto modo di capire quali siano gli strumenti finanziari e assicurativi alternativi per garantire a loro e a tante piccole imprese la sussistenza. I finanziatori dell’associazione sono tutti privati, non lavoriamo con denaro pubblico: chi ci finanzia analizza il tipo di progetto valutandone la qualità e ci aiuta a renderlo operativo”.

Non solo Medio Oriente, con il passare del tempo, infatti, Hope ha iniziato a ricevere richieste di aiuto anche dall’Italia: “Da tre anni e mezzo, nelle zone colpite dal terremoto, abbiamo contribuito insieme ad altre realtà del terzo settore alla ricostruzione delle scuole. Ci siamo fatti promotori di un programma con cui la nostra esperienza nei campi profughi, negli orfanotrofi e nelle scuole del Medio Oriente è stata messa a disposizione di chi è stato colpito dal sisma, è un modello replicabile riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione. Il progetto è stato fatto in collaborazione con l’Università Vita e Salute, con l’Ospedale San Raffaele e con l’Università Cattolica di Milano. I partner privati sono la Bosch e la Randstad. L’obiettivo è continuare con la ricostruzione delle scuole e la fornitura di strumentazioni informatiche in ogni classe: abbiamo già regalato 44 poli informatici”.

A metà febbraio, quando iniziano ad arrivare i primi casi di Coronavirus al San Gerardo di Monza, Elena Fazzini viene contattata da Luca D’Andrea, anestesista e rianimatore: serve un ventilatore polmonare. “Sono stata messa in contatto con Paolo Taccone del Sacco di Milano, che insieme all’ingegneria logistica gestisce le strutture di accoglienza dei pazienti. Dal 25 febbraio è la prima persona che sento quando mi sveglio e l’ultima prima di andare a dormire. Gestiamo una filiera controllata da noi al cento per cento: l’ospedale ci fa una richiesta scritta con i macchinari che servono, noi li cerchiamo in giro per il mondo, soprattutto in Germania, Inghilterra, Giappone e India. Trovate le apparecchiature, ci facciamo mandare la scheda tecnica dai produttori, la sottoponiamo alle ingegnerie cliniche. Se ci danno l’ok e ci dicono che il prezzo è congruo (perché le risorse non si devono sprecare, anche in momenti di epidemia non si può comprare a soprapprezzi) procediamo alla ricerca di finanziatori e all’acquisto. Fino ad oggi abbiamo raccolto circa 880mila euro e siamo riusciti a metter su 23 terapie intensive”.

Un lavoro infaticabile, quello svolto dalla Hope Onlus, associazione no profit nata per caso, ormai 14 anni fa, in seguito a un errore diagnostico: “Mi sono ammalata gravemente e i medici mi avevano dato davvero poche speranze di vita. Speranza che ho invece ritrovato grazie al referto di un ecografo quadridimensionale: la prima diagnosi era sbagliata. Dopo l’intervento chirurgico che mi ha salvato la vita, ho deciso che dovevo fare in modo che quel tipo di ecografo salvasse anche altre persone, volevo regalarne uno dove non ci fosse. È così che ho scoperto un ospedale italiano a Nazareth, un luogo molto speciale in cui tutti, sia pazienti che medici, sono arabi, ebrei, musulmani, cristiani, drusi. Arrivata sul posto, mi resi conto che quello che serviva non era solo uno strumento diagnostico, ma un intero reparto di neonatologia e una terapia intensiva: i bambini che nascevano con problemi gravi in alcuni casi morivano perché la struttura attrezzata più vicina era ad Haifa”.

Hope riesce in appena un anno a trovare un milione e duecentomila euro per realizzare il reparto nell’ospedale di Nazareth e a promuovere un gemellaggio con il San Gerardo di Monza per la formazione del personale medico, accettando di fare persino un passo indietro rinunciando alla visibilità. “Il maggior finanziatore dell’opera fu Fondazione Milan – ricorda Elena Fazzini – che pagò quasi i due terzi del progetto. Accettammo di lasciare solo la loro targa all’ingresso del reparto, di fronte alla loro richiesta ci chiedemmo: ‘è più importante mettere la targa o arrivare all’obiettivo?’, la decisione fu la più ovvia, e rispecchiava lo spirito della nostra associazione”.

Nell’ospedale italiano di Nazareth nel tempo è stata creata anche la dialisi e l’associazione di Fazzini ha contribuito a realizzare un programma di tipo oncologico: “Poi ci siamo spostati al confine con il Libano e abbiamo salvato l’orfanotrofio di Sephoris, che accoglieva più di 200 bambini di tutte le religioni e di tutte le etnie. Abbiamo lavorato nei campi profughi e in altre zone difficili, soprattutto con programmi di educazione alla salute di cui sono beneficiari i bambini e che nascono sempre da richieste di aiuto”.

Grazie al grande lavoro di Hope, quando ci lasceremo alle spalle l’epidemia, gli ospedali che oggi combattono il nemico invisibile si ritroveranno nuovi macchinari e più posti in terapia intensiva: “Abbiamo chiesto alle strutture a cui abbiamo donato le apparecchiature elettromedicali di metterle a disposizione di un programma umanitario sul Medio Oriente, in particolare nelle zone della Siria, del Libano e della Giordania. Quegli strumenti non dovranno fermarsi, dovranno continuare a salvare vite dove ci sarà bisogno di loro”. E a regalare speranza…

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