Condannati alla distanza: famiglie “interrotte” tra carcere e Covid
La pandemia ha portato allo stop dei colloqui in presenza,sostituiti per mesi dalle videochiamate. Ora che gli incontri sono ripresi, non va cancellato quanto di buono è stato fatto negli ultimi mesi. Sul nuovo numero di The Post Internazionale - TPI, in edicola da venerdì 13 maggio, le testimonianze dei familiari di due detenuti
«Uno dei primi video-colloqui che ho avuto con mio padre è stato di sera, e quella è stata la prima volta che ho potuto augurargli la buonanotte. Per quanto possa sembrare una banalità, dire “buonanotte papà” è stato qualcosa di particolare per me». Eva Ruà ha trent’anni, e suo padre ha trascorso in carcere gli ultimi 28. Per lei, che vive in Calabria, andare a trovare di frequente il padre, detenuto a Parma, era impossibile. Per questo, le videochiamate con WhatsApp introdotte per sostituire i colloqui in presenza in epoca Covid sono state «qualcosa di rivoluzionario».
«In tutta la mia vita», racconta Eva a TPI, «il colloquio ha sempre significato partire, muovermi fisicamente. Inoltre è sempre stato qualcosa di formale, perché si tratta comunque di un istituto penitenziario. A causa della pandemia – ma anche grazie ad essa, mi viene da dire – c’è stata la possibilità di interagire in modo molto più familiare». Il padre di Eva, in carcere dal 1994, è sottoposto a ergastolo ostativo, ovvero senza la possibilità di sconti di pena. Un destino – quello di non vedere mai il padre fuori dal carcere – difficile da accettare per una figlia. «Io e mio papà siamo abituati allo stare lontani, perché dopo 28 anni ti abitui anche quasi a non avere il contatto fisico», prosegue la ragazza. «Certo, niente può sostituire un abbraccio, ma con questi colloqui “virtuali”, è come se lui potesse far parte un po’ della mia vita, della mia casa. Ho potuto far vedere a papà la mia stanza, il nostro cane, che non aveva mai visto, e altre scene di vita quotidiana in casa. Inoltre ha potuto vedere sua madre, mia nonna, che ormai è molto malata e che aveva visto l’ultima volta 10 anni fa».
L’arrivo della pandemia di Covid in Italia, a marzo 2020, ha provocato scontri, violenze, incendi, devastazioni ed evasioni di massa in diverse carceri italiane. Tra il 7 e il 10 marzo sono morti 13 detenuti, mentre decine di detenuti e agenti sono stati feriti. All’indomani di questa tragedia, il governo si è mosso per consentire lo svolgimento di colloqui a distanza con mezzi tecnologici, come racconta a TPI Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che dal 1991 lavora alla promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.
«La gestione dei colloqui per i detenuti non è stata uniforme sull’intero territorio nazionale, perché le indicazioni venivano recepite in maniera diversa dai singoli istituti», precisa Marietti. «All’inizio c’è stata una chiusura netta e improvvisa, che sostanzialmente ha portato anche a quel momento drammatico iniziale, ci sono state rivolte in 49 carceri, i morti e tutto ciò che sappiamo». Per i detenuti e per le loro famiglie è stata una separazione improvvisa e netta. In alcuni casi da un giorno all’altro è stato di colpo difficile avere notizie gli uni degli altri. «Ad Antigone eravamo subissati di telefonate, mail e messaggi social di persone che ci chiedevano aiuto per avere informazioni. Si rincorrevano anche voci di notizie false o amplificate sulla presenza del virus in alcune strutture. Questo è stato il momento più drammatico».
In seguito, il governo si è organizzato per consentire i colloqui a distanza. «Già a marzo 2020 sono stati acquistati 16mila smartphone, che sono stati distribuiti nelle carceri», dice Marietti. «Sono iniziate le videochiamate con WhatsApp, con i numeri già autorizzati per le telefonate, e la situazione si è un po’ calmata da questo punto di vista. Poi ci sono state varie fasi e moltissime circolari, che hanno riguardato anche i colloqui, in base all’andamento del contagio». A giugno 2021, con un’apposita nota, il Dap ha dettato le linee guida per il graduale ripristino dei colloqui in presenza, grazie a strumenti come vaccinazioni e green pass.
A scegliere di riprendere gli incontri in presenza non appena possibile è stata Carla (nome di fantasia), moglie di un detenuto che a ottobre 2021 è stato trasferito dal carcere di Torino a quello di Augusta, in Sicilia. «Prima del Covid andavo una volta al mese a Torino per il colloquio, facevo le 3 o 4 ore prestabilite, e tornavo a casa», racconta la donna, che vive a Catania con le due figlie. «Da marzo fino ad agosto 2020 non abbiamo avuto nessun colloquio in presenza, si facevano semplicemente delle videochiamate di 20 minuti a settimana. Per attivare questo sistema a Torino c’è voluto un po’ di tempo, perché dovevano attrezzarsi. All’inizio le facevamo via Skype, ma non funzionava bene. Poi con WhatsApp ci siamo riusciti. Le videochiamate però erano più brevi del colloquio, che durava 50 minuti». Il marito di Carla, che ha un figlio disabile avuto da una precedente relazione, è stato trasferito nel carcere di Augusta a ottobre 2020. «Mio marito non ha visto il figlio per due anni e mezzo, ha avuto di nuovo l’occasione di poterlo vedere proprio grazie alle videochiamate. Da quando è qui in Sicilia, invece, la situazione per noi si è normalizzata. Ora andiamo a trovarlo perché è solo a mezz’ora di strada. Facciamo i colloqui in presenza, con mascherina e vetro divisorio». Carla racconta che il magistrato aveva già dato da tempo il via libera al trasferimento del marito, proprio per la presenza di un figlio disabile. «Siamo rimasti bloccati perché il Dap non lo eseguiva. Dopo due anni e mezzo di istanze finalmente lo hanno trasferito qui. Non siamo i soli ad avere questo problema, ci sono tanti altri casi».
«Nel carcere di Parma sono stati molto pronti e disponibili ad attivare il servizio di videochiamate», racconta Eva. «Le videochiamate durano come i colloqui, all’incirca 60 minuti, e si aggiungono alle telefonate classiche di 10 minuti, che ci sono sempre state e continuano ad esserci. Per noi che non possiamo andare a trovare mio padre tutte le settimane, questo ci consente di avere un rapporto più “quotidiano”. Per chi, come me, è stato privato del tempo insieme, è importantissimo».
Se prima della pandemia nel 40 per cento degli istituti penitenziari più della metà dei detenuti svolgevano colloqui in presenza, secondo il XVIII Rapporto dell’Associazione Antigone, pubblicato lo scorso 28 aprile, il dato è sceso al 22 per cento nel 2021. In media, nel 67 per cento degli istituti visitati da Antigone nel corso dell’anno, più della metà dei presenti faceva videochiamate con i familiari, con una durata media che nella maggior parte dei casi era superiore ai 30 minuti. Solo il 39 per cento degli istituti organizzava colloqui sia il sabato che la domenica, mentre il 13 per cento non ne teneva né il sabato né la domenica. Nel 29 per cento degli istituti visitati, inoltre, non si svolgevano mai colloqui il pomeriggio. In questi casi, per incontrare un proprio familiare, chi lavorava doveva rinunciare al lavoro o alla scuola.
«Ovviamente per noi il colloquio in presenza è sempre da preferire, perché è una vicinanza che non si può sostituire. Ma l’alternativa del colloquio a distanza è un’ottima cosa, basti pensare agli stranieri che hanno le famiglie lontane», dice la coordinatrice nazionale di Antigone. «Noi speriamo che questa pratica rimanga e che mai si elimini quel poco di buono che la pandemia ha portato in carcere, che sicuramente è l’uso delle nuove tecnologie per una serie di attività, inclusa la didattica. Al tempo stesso ci auguriamo che ciò non diventi un modo per sostituire l’attività in presenza, cosa che può sembrare più facile ed economica. Semmai tutto ciò si deve andare ad aggiungere. Chiediamo inoltre che il detenuto possa scegliere se imputare la videochiamata a colloquio o a telefonata. Per il momento esistono solo circolari amministrative e i minuti della videochiamata vengono sottratti a quelli del colloquio in presenza. Ma chi ha la famiglia che va a trovarlo regolarmente dovrebbe poter scegliere di videochiamare i parenti, anziché telefonargli».