Date la cittadinanza a noi figli di immigrati o l’Italia resterà un Paese arretrato e ingiusto
Cari Onorevoli, Caro Presidente della Repubblica,
vi scrivo perché stiamo attraversando un momento molto delicato, ormai così prolungato da diventare insostenibile per chiunque. In questo clima di sofferenza fisica, psicologica e sentimentale, il nostro Paese si trova ad affrontare una di quelle situazioni emergenziali che spesso, ponendoci tutti sullo stesso piano di vittime, riesce ad illuderci di aver annullato quelle differenze che quotidianamente ci rendono così superficialmente diversi.
Ma voi, meglio di me, sapete che non è così. All’inizio questa è stata una storia estremamente ben raccontata: un anno fa tutti, senza esclusioni, abbiamo deciso di sacrificare la nostra vita privata per un bene superiore, rinchiudendoci in casa per limitare i contagi e soprattutto per tutelare i soggetti più deboli e fragili della società. Dopo un anno quel “andrà tutto bene” tanto affettuoso oggi non ci basta più.
Gentili Onorevoli, io spero che voi abbiate idea di cosa significhi per un giovane non andare più a scuola, buttando via momenti preziosi di consolidamento dei propri rapporti sociali e di conoscenza della propria identità. E soprattutto cosa significhi per famiglie numerose ritrovarsi chiusi in casa spesso in spazi molto piccoli, rendendo la convivenza insostenibile. Io credo che voi sappiate cosa voglia dire per un essere umano non realizzarsi attraverso il proprio lavoro, o ancor più drammaticamente, non averne più uno e non sapere più come mantenere la propria famiglia.
Gentili Onorevoli, Gentili Ministri, io spero che voi abbiate chiaro il dato spaventoso di aumento di violenze domestiche che questo anno ha generato. Potrei andare avanti elencando tantissime altre problematiche, ma non vi scrivo per questo. Non sono mai stata una donna amante delle polemiche sterili, non le ho mai capite e le trovo inconcludenti, però dopo un anno mi sento, onestamente, un po’ presa in giro. Per un anno ho ceduto all’antipatica retorica del “ci sono altre priorità”, ma al netto del bilancio effettuato, le problematiche sono esattamente le stesse, se non più accentuate.
Gentili Onorevoli, mai quanto in questo anno di emergenza nazionale io mi sono auspicata che i palazzi del potere guardassero al lungo termine, non al breve. E’ vero, spesso le emergenze necessitano di soluzioni contingenti, ma non deve essere necessariamente SOLO così. Bisognava e ora più che mai bisogna approfittare di questa crisi per mettere in discussione quelle basi ormai troppo precarie del nostro Paese, quelle cose che tutti noi siamo consci siano sbagliate, ma che per abitudine e per inerzia ci siamo arresi al fatto che siano così. Vi chiedo di aprire gli occhi su quanto il nostro Paese sia cambiato, e quanto questo cambiamento sia bello, perché cambiamento vuol dire diversità e la diversità significa bellezza, ricchezza, progresso. E il progresso non solo è tecnologico, il più delle volte è culturale e quindi umano.
Per cui, e arrivo al punto, cerchiamo di soffermarci sulle somiglianze e approviamo lo ius culturae, in un periodo storico dove ora più che mai la cultura e l’istruzione sono svalutate, paralizzati dalla paura del contagio e bramanti di questo vaccino che sembra non arrivare mai, noi ribadiamo quanto la cultura unisca e quanto sia sempre più criterio di identità di chi come me e un altro milione di ragazzi qui è cresciuto, qui è nato, e si sente figlio di questo meraviglioso Paese ma ancora non ne è riconosciuto come cittadino.
In un periodo storico dove le scuole non possono svolgere quella meravigliosa funzione di istituto di socializzazione, di aggregante sociale, non accentuiamo le differenze che la scuola tenta di arginare, e diamo la cittadinanza ai figli di persone straniere regolarmente soggiornanti in Italia, che qui studiano, che qui, volenti o nolenti, assimilano la cultura italiana, crescendo come cittadini perché non potrebbe essere altrimenti.
La legge che oggi disciplina la concessione della cittadinanza, la 91/1992, è una legge “scaduta”, che fa riferimento a dati e ad un contesto sociale italiano completamente diverso dai dati attuali: nel 1992 gli immigrati in Italia erano poco più di 600mila, oggi sono più di 5 milioni, e rappresentano più dell’8% del tessuto sociale italiano. Queste persone qui lavorano, pagano le tasse e mettono su famiglia, e questi figli hanno tutto il diritto di crescere con gli stessi diritti e doveri dei loro compagni di scuola.
Vi ricordo, cari Onorevoli, che questa legge prevede due metodi fondamentali di trasmissione e concessione della cittadinanza: o hai ereditato il sangue italiano, e quindi sei italiano per ius sanguinis, o soddisfi alcuni requisiti e diventi cittadino per naturalizzazione. Ma quali sono questi requisiti? 10 anni di residenza continuativa, per dimostrare l’intento di fermarsi stabilmente sul territorio, la fedina penale pulita, e soprattutto un reddito di circa 10mila euro annui (facciamo un forfait) costante per almeno 3 anni.
Voi capite, che quando parliamo di minori che nascono o crescono sul suolo italiano, questi requisiti risultano “ridicoli”, in particolar modo il requisito economico, che oltre ad essere ridicolo risulta profondamente ingiusto: legare lo status giuridico, oltre che il riconoscimento effettivo dell’identità di un ragazzo ad una questione puramente economica è terribilmente SBAGLIATO. E’ cattivo, è ingiusto. La povertà non è una colpa, e in questo contesto ancora più delicato di paralisi economica del nostro Paese a causa della pandemia sembra quasi un ulteriore pretesto di umiliazione.
Cari Onorevoli, la legge deve essere cambiata. Non solo per noi, diretti interessati, che viviamo una vita molto più limitata rispetto a quella dei nostri amici, compagni di scuola o colleghi di università, ma lo dobbiamo al nostro Paese, storicamente un paese inclusivo e non esclusivo, e per la definizione di “Paese democratico” che continuiamo ad attribuirci, in questo senso davvero arretrata rispetto al resto d’Europa.
Abbandoniamo le ideologie e abbandoniamo questa retorica scorretta e fasulla che spesso accompagna la narrazione della nostra battaglia, che per quanto ci si sforzi ad attribuirle un colore politico è assolutamente una battaglia universale. Cambiare i requisiti di accesso alla cittadinanza per i figli di stranieri attraverso il riconoscimento del proprio percorso scolastico, vuol dire non solo progredire civilmente, ma soprattutto riconoscere l’effettivo ruolo di eccellenza educativa che scuola e insegnanti hanno, perché, ricordiamoci, la scuola forma i cittadini del domani, TUTTI i cittadini del domani.
Oggi più che mai la nostra Repubblica deve trovare il coraggio di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Costituzione Italiana, art.3 comma 2).
Con l’auspicio che la nostra voce non resti inascoltata e che il nostro Paese si ponga, ancora una volta, dalla parte dei Diritti, Vi auguro un sano e proficuo lavoro. Con affetto e tantissima stima.
Una vostra concittadina non riconosciuta,
Insaf Dimassi