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Home » Cronaca

“Sono un maschio violento, ma voglio cambiare”: viaggio nei Centri per Uomini Maltrattanti

Immagine di copertina
Una riunione al Cam di Firenze

Ci sono uomini che non tollerano la soggettività altrui perché hanno un’identità fragile. Così finiscono per compiere abusi fisici o psicologici. Ma esistono degli sportelli psico-educativi che possono aiutarli a uscirne. Ecco come

«Ogni anno seguiamo circa ottanta persone. I nostri dati ci dicono che, terminato il percorso, nessuna di queste ha poi ricominciato a esercitare violenza o è stata denunciata per lo stesso reato». A parlare è Andrea Bernetti, psicoterapeuta e presidente del Centro Prima di Roma, la prima struttura attiva nel Lazio per il trattamento psicologico specifico degli uomini autori di violenza nelle relazioni affettive. Lo incontriamo nel suo studio, in via Astura, a due passi dalla stazione metro di Re di Roma. 

«Qui al centro gli uomini maltrattanti arrivano o su base volontaria, indirizzati spesso dalle stesse compagne, oppure dietro prescrizione rilasciata dal Tribunale o dagli assistenti sociali». 

Percorso
Secondo i dati Istat, nel 2023 il 93% delle persone uccise dal partner era una donna. Sempre nell’ultimo anno, sono state 51.713 le chiamate al numero anti-violenza 1522, in aumento del 142,9% rispetto alle 21mila registrate nel corso del 2019. 

A queste statistiche si aggiunge il numero allarmante di donne che hanno subito almeno una volta una violenza fisica o psicologica: stando a quanto rilevato da uno studio dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, sono oltre 12 milioni, pari a circa il 51%, di cui però soltanto un 5% ha alla fine denunciato l’accaduto, sia perché nella maggior parte dei casi l’atto violento non era penalmente perseguibile, sia per sentimenti di vergogna, paura, perdono e di sfiducia nel sistema giudiziario italiano. 

Per contrastare il fenomeno della violenza maschile, negli ultimi anni sono nati molti Centri di Ascolto Uomini Maltrattanti (Cam) o Centri per Uomini Autori di Violenza (Cuav) come quello gestito da Bernetti. 

Il primo fra tutti è stato il Cam di Firenze, fondato nel 2009 e costituitosi come associazione nel 2019. 

L’obiettivo, ci spiega la presidente Alessandra Pauncz – a capo anche di Relive, associazione che riunisce tutti i centri che attuano dei programmi per autori di abusi e maltrattamenti contro le donne – «è quello di aiutare gli uomini che hanno agito violenza a comprendere il peso e la gravità del loro comportamento, accrescere la loro capacità riflessiva e fornire gli strumenti per una gestione non violenta del conflitto, della rabbia, della frustrazione». 

Il percorso è strutturato attraverso un programma a cadenza settimanale e della durata di circa un anno: «Dopo una serie di colloqui individuali utili a capire la storia personale e il grado di consapevolezza del soggetto, l’uomo è inserito in un gruppo psico-educativo in cui si riflette sulla violenza, sugli effetti che questa ha sulla vittima e si offrono strumenti pratici attraverso esercizi e situazioni da commentare. Il momento più importante è forse quello del confronto fra gli stessi uomini, in cui, attraverso l’esperienza dell’altro, si acquisisce una maggiore consapevolezza di errori e responsabilità proprie». 

L’origine del male
Ma quali sono le cause della violenza? Secondo l’Impact report realizzato dal Cam di Firenze, circa il 45% degli utenti afferma di aver avuto un comportamento violento «perché si sentiva insicuro», il 27% perché voleva far fare alla donna «quello che avrebbe voluto che lei facesse» mentre altri motivano il gesto violento con la gelosia, la possessività, la mancata fiducia nella partner o la scoperta di un tradimento. 

Ciò che emerge, dunque, è una generale intolleranza nei confronti della soggettività, dei bisogni e delle scelte altrui, oltreché una estrema fragilità dell’identità maschile tradizionale, incapace di accettare un rifiuto o la fine di una relazione. 

«L’età media di chi intraprende questo tipo di percorso – spiega Bernetti – è 40-50 anni. Si tratta, quindi, soprattutto di uomini adulti, ma seguiamo anche ragazzi di 22-23 anni, che sono arrivati al centro con denunce di stalking e maltrattamento fisico o psicologico». 

Punti deboli
L’immissione nei percorsi di rieducazione maschile può avvenire, come sottolineato, su base volontaria, sotto consiglio della partner e, soprattutto, su richiesta dell’autorità giudiziaria o del questore. 

Con l’entrata in vigore del Codice Rosso nel 2019, infatti, la funzione dei Cuav è diventata centrale. La legge prevede la sospensione condizionale della pena, per reati quali maltrattamenti o atti persecutori, per gli uomini che partecipano a percorsi di recupero tenuti da enti che si occupano di assistenza psicologica e del recupero di soggetti condannati. 

Questo ha comportato diverse conseguenze: la più importante è l’aumento di persone che si rivolgono ai Cuav spinte non da una reale volontà di cambiamento e di messa in discussione dei propri comportamenti quanto dalla possibilità di sfruttare tale meccanismo. 

La seconda indagine sui Cuav realizzata nell’ambito del Progetto ViVa sottolinea proprio questo aspetto: il numero di accessi spontanei è calato in modo drastico (il 10% nel 2022, contro il 40% del 2017), mentre risulta in grande aumento la percentuale di uomini che fa ingresso in un Cuav su consiglio di un avvocato (32%, contro il 9% di sei anni fa), su invio dell’autorità giudiziaria (20,3% del 2022, mentre nel 2017 il dato si assestava all’11%) o del questore (13,3%, contro lo 0,2% del 2017). 

«L’entrata in vigore del Codice Rosso ha attivato un meccanismo perverso, per cui i Cuav sono visti come dei “documentifici”, luoghi in cui potersi fare “la carta” per la sospensione della pena. Questo è un enorme problema – commenta amareggiato Bernetti – perché veicola l’idea che siano spazi utili solo per chi è stato denunciato per violenza». 

L’altra importante conseguenza è la nascita di centri poco trasparenti che rilasciano documenti falsi in cambio di denaro. Ciò è particolarmente vero al Sud, dove la distribuzione di Cuav è assai più scarsa che al Nord: «Purtroppo, per alcuni anche questo è diventato un business. Regioni come la Calabria, la Sicilia o la Campania sono molto indietro. Se un uomo ha la sospensione della pena legata ad un percorso a Catanzaro, dove lo fa? Io sinceramente non lo so, il rischio che spuntino qua e là attività farlocche diventa a questo punto altissimo». 

Un’altra criticità connessa ai Cuav riguarda il cosiddetto contatto-partner, cioè la possibilità di interpellare la donna vittima di violenza. Nel tempo, ciò ha sollevato forti critiche da parte dei gruppi femministi, preoccupati che questa scelta non solo possa esporre la donna a nuovi pericoli, ma comporti una responsabilizzazione della stessa, oltreché una forma di intermediazione mascherata, che la Convenzione di Istanbul vieta. 

Dall’indagine Cuav emerge che il contatto partner riguarda il 66% dei Cuav, mentre il 34% dichiara di non effettuarlo. 

«Sono convinto – spiega Bernetti – che non sia necessario interpellare la compagna e che anzi possa rappresentare un problema. Quello che fanno gli uomini che si rivolgono a noi è un percorso per se stessi, per la propria salute, non per la donna o il benessere della coppia». 

Al contrario, Erica Bisella, psicologa del Cam di Ferrara, sostiene l’importanza della richiesta all’utente di contattare la partner o l’ex compagna: «Per noi è un indicatore di impegno. Crediamo che un uomo che voglia davvero cambiare sia anche disponibile a comunicare alla donna di aver intrapreso questo percorso. Naturalmente dipende dai singoli casi, perché il nostro compito è anche quello di tutelare la vittima». 

Solo una parte della soluzione
Oltre a percorsi di questo tipo, che intervengono su uomini autori di violenza nelle relazioni affettive, nel tempo sono nate anche associazioni che organizzano incontri di condivisione e di autocoscienza maschile.

«Ciò che facciamo durante le nostre riunioni – spiega Domenico Matarozzo, componente del direttivo di Maschile Plurale – è interrogarci su quanto in realtà siamo felici di vivere secondo il modello patriarcale e maschilista, che apprendiamo fin dalla infanzia, riproduciamo inconsciamente e che spesso è una vera e propria gabbia per le nostre relazioni sociali e intime». 

Incontri come quelli organizzati da Maschile Plurale, se hanno l’indubbio merito di sollevare il problema della violenza maschile, al tempo stesso sono svolti su base volontaria e, pertanto, intercettano soprattutto uomini già consapevoli del tema e sensibili verso le questioni di genere. 

«I percorsi di autocoscienza – osserva Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista – sono, come è chiaro, a partecipazione libera, mentre i Centri agiscono solo su chi ha già commesso violenza, perciò non credo possano costituire una soluzione, soprattutto se non si agisce più ampiamente su tutta la società. Senza un cambiamento nei media e nella scuola, il processo di cambiamento sarà lunghissimo e molte altre donne soffriranno e moriranno». 

Un parere, questo, in parte condiviso anche da Bisella: «I Centri sono parte della soluzione, ma di certo non possiamo portare avanti noi questa causa. La violenza maschile è un problema che deve essere risolto in rete. Bisogna agire in modo preventivo, attraverso la scuola e un’educazione libera da stereotipi e dal maschilismo».

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