Mentre Carola Rackete diventa un caso mediatico dimentichiamo le vere ragioni dei flussi migratori
Il caso giudiziario sulla capitana della Sea Watch Carola Rackete è solo una mossa per distrarci dalle vere ragioni dei flussi migratori
Mentre Carola Rackete diventa un caso mediatico dimentichiamo le vere ragioni dei flussi migratori
Destabilizzazione. Questa probabilmente è la parola che sta alla base dei flussi migratori che negli ultimi anni hanno interessato sempre di più gli Stati europei. Perché se è vero che ogni essere umano ha il diritto di migrare alla ricerca di condizioni di vita migliori è altrettanto vero che spesso è costretto a farlo. A tal proposito sorge spontanea la domanda: costretto da chi o da che cosa?
A questo punto della storia entrano in scena gli interessi dei Paesi Europei e non solo. Il continente africano e buona parte degli Stati del Medio Oriente possiedono una grande quantità di ricchezze naturali che vengono sfruttate dai paesi occidentali spesso con la complicità di dittatori e governi locali.
Basti pensare al caso Opl 245 che ha visto sul banco degli imputati Eni e Shell, le due più importanti multinazionali del settore petrolifero, dell’energia e della petrolchimica. Le due società sono state accusate di corruzione internazionale in Nigeria.
Nel 2011 Eni e Shell hanno pagato 1,3 miliardi di dollari per acquistare il più grande giacimento petrolifero presente in Africa situato al largo della Nigeria. Tuttavia, pare che solo una parte di questi soldi sia andata nelle casse dello stato nigeriano.
Questo caso è solo l’ennesimo esempio di come le risorse naturali dei paesi africani siano spesso sfruttate per arricchire le élite locali, con la connivenza più o meno esplicita di imprese occidentali.
Tutto ciò, ovviamente, a scapito dei cittadini e della crescita della nazione. Basti pensare che la somma investita per l’acquisizione di questo giacimento petrolifero avrebbe potuto coprire per l’anno 2015 l’80 per cento della spesa sanitaria nigeriana.
Altro caso che permette di comprendere come i Paesi europei controllino e determinino la vita degli Stati africani e dei rispettivi cittadini, è quello che vede come protagonista la Francia di Macron.
Parigi ancora oggi controlla il 50 per cento delle riserve monetarie di 14 Paesi africani grazie al franco Cfa. Questa moneta è per la Francia uno strumento essenziale per controllare le ex colonie. Nessuno di questi stati, infatti, ha pieno potere sulle proprie politiche economiche e monetarie.
Da qui la volontà da parte della Comunità economica e monetaria dell’Africa occidentale (Ecowas) di adottare, a partire dal 2020, una nuova moneta comune, l’Eco. Tuttavia, la strada verso la nuova valuta non appare così semplice, soprattutto in termini di stabilità economica.
Nonostante la fase di decolonizzazione, avvenuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’influenza economica e politica delle potenze occidentali sul continente africano è ancora molto forte.
Prima avveniva attraverso il bipolarismo Usa-Urss, oggi invece con la presenza delle grandi multinazionali occidentali che spesso – grazie ai fatturati superiori ai Pil degli stati in cui operano – godono di un grande potere di negoziazione per l’accesso alle materie prime.
L’influenza economia e politica delle potenze occidentali sul continente africano, dunque, sembra non cessare. D’altronde la posta in gioco era ed è troppo alta; quale Stato rinuncia al petrolio, ai minerali preziosi, ai diamanti e allo sfruttamento di immensi territori per uso agricolo?
Non c’è dunque da sorprendersi se le grandi multinazionali e le compagnie straniere, con la complicità dei governi e delle autorità locali, hanno il controllo di buona parte delle terre africane.
Poco importa delle conseguenze di queste politiche. Spesso i fatti africani vengono spiegati come semplici accadimenti, apparentemente sconnessi. In realtà questi avvenimenti sono perfettamente inseriti all’interno di un panorama storico, economico e geo-politico dove è possibile identificare le cause e le responsabilità dei singoli attori.
I conflitti e l’instabilità del continente nero sono anche frutto di una politica africana che, troppo spesso, ha ceduto agli interessi esterni e alle ambizioni personali. L’Africa è diventata, nuovamente, il campo di gioco per l’affermazione delle grandi e medie potenze.
A tutto ciò si somma la crescente destabilizzazione di molte aree geografiche (a cui le armi europee stanno contribuendo) come, ad esempio, la Libia.
Attualmente nel paese ci sono due governi e molti combattenti dell’Isis si stanno spostando dalla Siria verso il paese africano. In questo contesto, non bisogna dimenticare che il sottosuolo libico è ricco di giacimenti di petrolio e di gas. Per i due governi è dunque fondamentale avere il controllo di queste risorse al fine di stringere accordi commerciali con le grandi potenze mondiali, tra cui l’italiana Eni.
Ma chi è con chi in questo intricato quadro politico? Il governo di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale è quello guidato da al Sarraj, tuttavia pare che quello di Tobruk (guidato da Haftar) goda del sostegno di Russia, Qatar, Egitto, Turchia, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.
In tale contesto i migranti vengono usati come strumento di pressione sull’Europa, e sull’Italia da parte della Libia. Ha cominciato il generale Haftar che ha bombardato i centri di detenzione nell’area di Tajoura, ammazzando 53 persone (di cui sei bambini). Ha continuato Sarraj sparando ad altezza uomo ai migranti che provavano a scappare e minacciando di liberare ottomila persone che potrebbero sbarcare in Italia. Ha concluso ancora Haftar, dicendosi d’accordo con il rivale e di fatto minacciando l’Europa e l’Italia.
Le guerre civili come in Siria e in Yemen e l’eterno conflitto tra sciiti e sunniti stanno contribuendo alla destabilizzazione dell’intera area, a scapito di grandi interessi economici. Ed è probabilmente per questo motivo che l’Europa ha tra i principali acquirenti di armi i Paesi del Medio Oriente.
Questa compra-vendita rientra sotto il termine ombrello di “sicurezza”, “difesa”. Tuttavia, buona parte di questi armamenti viene utilizzata per reprimere diritti umani fondamentali e per sostenere gruppi terroristici. Secondo un rapporto di Amnesty International, infatti, gli Emirati Arabi Uniti hanno armato e stanno armando, con armi fornite dagli Stati Uniti, milizie dello Yemen accusate di crimini di guerra.
Le politiche occidentali hanno quindi destabilizzato buona parte dei paesi africani e mediorientali con notevoli conseguenze anche sulle aree limitrofe. Basti pensare che già da diversi anni gli Stati europei stanno tentando di placare quella che è possibile definire “emorragia migratoria”, attraverso diverse soluzioni come, ad esempio, imporre sanzioni alle società europee pubbliche e private che sfruttano le risorse naturali dell’Africa, importare in Europa i prodotti africani, monitorare e ridurre il commercio di armi nei paesi del continente nero e mediorientali colpiti dalla guerra.
Sono solo alcune delle soluzioni politiche varate dall’Unione europea, ma fino a che punto saranno realizzabili? Per quanto ancora l’Europa riuscirà a mantenere salda l’immagine di Unione generosa e filantropica? Ma soprattutto, fino a che punto le soluzioni adottate finora saranno praticabili nel futuro? Gli interessi economici dei singoli stati e l’influenza delle potenti multinazionali sui governi dei paesi africani sono molto forti, tant’è che per anni sono stati nascosti, ignorati e sottovalutati sanguinosi conflitti pur di preservare gli interessi occidentali.
Inutile dire che la logica dicotomica “noi” versus “loro” ha semplificato una realtà estremamente complessa. Siamo stati troppo impegnati ad accusarci reciprocamente, a proteggere i nostri interessi, a studiare i costi e i benefici delle politiche migratorie per essere in grado di rispondere in maniera unitaria a questa crisi migratoria, come Europa in primis, e poi come singoli Paesi.
Basti pensare all’episodio che ha coinvolto Carola Rackete. Tra venerdì 28 e sabato 29 giugno, Carola, comandante della nave Sea Watch3 (Ong tedesca) ha deciso di forzare il blocco navale e di entrare in acque italiane per portare in salvo i 47 migranti che da due settimane e mezzo si trovavano a bordo. E se l’accoglienza di queste 47 persone ha scatenato un vero e proprio caso mediatico e politico, dobbiamo essere consapevoli che i “veri” numeri non sono questi.
Si prenda come esempio l’Etiopia che, con 110milioni di abitanti, è il secondo paese più popoloso dell’Africa e conta 4 milioni di sfollati di cui 3milioni sono sfollati interni, a causa dei conflitti etnici, mentre un milione proviene da paesi limitrofi come Somalia, Sudan ed Eritrea.
Nel frattempo, come se non si volesse comprendere la vera natura dell’emergenza migratoria, la Capitana è indagata per la violazione del decreto Sicurezza bis e del codice della navigazione e per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un filone dell’inchiesta per il quale la Rackete tornerà oggi ad Agrigento per l’interrogatorio.
L’Africa conta all’incirca 1,2miliardi di abitanti e la maggior parte di essi non ha intenzione di abbandonare il continente. Tuttavia, come garantire futuro e ricchezza ad un paese in cui le persone sono spesso costrette a migrare?
Molti suggeriscono di “aiutarli a casa loro”, ma come li stiamo aiutando? Aiutare lo sviluppo africano non vuole dire togliere risorse e stimolare conflitti armati. Quando parliamo di risorse non si intende solo del sottosuolo, ma anche cervelli e professionalità. Robert Skidelsky, storico ed economista britannico, ha constatato che metà dei medici dello stato africano del Malawi oggi lavora negli ospedali londinesi.
È dunque sottraendo risorse umane che saremmo in grado di aiutare questi paesi? E se alla base di queste migrazioni ci fosse la volontà da parte dell’occidente di indebolire appositamente il continente africano al fine di sfruttarlo per i propri interessi? D’altronde è risaputo che l’immigrazione impoverisce il paese di partenza.
Per troppo tempo giochi e strategie politiche ci hanno fatto credere di non avere nulla a che fare con queste persone, illudendoci che i popoli di questi Stati siano “qualcosa d’altro” rispetto a noi.