De Benedetti a TPI: “Serve una legge per la stampa, chi ha altri interessi non dovrebbe poter fare l’editore”
"Il comportamento imperialista degli Stati Uniti negli ultimi 50 anni ha innescato il dibattito sul nostro modello politico. Che oggi è in crisi e per questo va adattato al Progresso degli eventi. La Nato? Non dovrebbe includere gli Usa… Il riarmo? Un errore. Washington trae solo benefici dal conflitto ma carica tutto il peso sull’Ue". A TPI parla l'imprenditore ed editore
ll 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina, è iniziato un nuovo secolo. Cosa succede ora?
«La prima conseguenza è la de-globalizzazione. Abbiamo vissuto gli ultimi 25-30 anni in qualche modo “ubriacati” dalla globalizzazione, di cui hanno beneficiato i Paesi consumatori, ma soprattutto quelli esportatori. Abbiamo visto il boom della Cina, della Corea del Sud, del Vietnam come conseguenza del fatto che le imprese dell’Occidente inseguivano solamente una strategia di breve termine, cioè i costi. Si delocalizzava in Vietnam non avendo in mente alcuna idea strategica, se non quella di quanto si potesse risparmiare sui componenti della catena del valore. Ecco, noi siamo entrati in una fase di de-globalizzazione perché la prima pulsione a cui assistiamo è nazionalistica».
Quanto male farà?
«In Europa mascheriamo questa pulsione dietro l’unità comunitaria del Vecchio continente ma in realtà ogni nazione bada principalmente ai propri problemi, anche in relazione alle conseguenze della guerra in Ucraina. Però è certamente una svolta clamorosa, si apre proprio una nuova epoca».
La de-globalizzazione porterà anche alla fine dell’egemonia Usa sul mondo?
«Sul piano geopolitico è chiaro che esiste un dibattito tra chi non riconosce la democrazia come adatta a governare i tempi che viviamo e chi invece crede nella democrazia. Nel ricercare le cause e le colpe di questa condizione, il comportamento imperialista degli Stati Uniti negli ultimi 50 anni ha avuto un suo ruolo, con guerre sconsiderate come l’Iraq, o di impulso, come l’Afghanistan, che hanno determinato un rifiuto sicuro verso un’unica potenza che ti diceva cosa potevi e cosa non potevi fare. Il che ha innescato a sua volta il dibattito sulla democrazia come l’abbiamo conosciuta e amata. Per cui oggi l’alleanza Cina-Russia riguarda due Paesi che, al di là della guerra in Ucraina, non condividono il futuro della democrazia».
A questo, quindi, si riduce la guerra in Ucraina: una sfida globale tra chi è a favore della democrazia e chi invece preferisce i regimi autoritari?
«Si tratta dell’evento, in termini geo-politici, più rilevante di quello che stiamo vivendo e vivremo. Le offro un esempio plastico della caduta della leadership americana nei confronti del resto del mondo: quando Biden è stato eletto presidente, Mohammed bin Salman non gli ha telefonato, e questo è stato considerato dalla Casa Bianca un incredibile sgarbo. Successivamente, Biden ha chiamato il sovrano dell’Arabia Saudita, che è il più grande sgarbo che si può fare a bin Salman. E il messaggio tra le righe era: “Ci parliamo tra chi comanda”. Sembra quasi un episodio tra zitelle dispettose, ma ci sono delle conseguenze. Quando Biden ha chiamato bin Salman, lui non ha più preso il telefono. Ma soprattutto, ha accettato di vendere il petrolio alla Cina in renminbi: per la prima volta da quando esiste, il petrolio non viene trattato in dollari. Il popolo forse non lo capisce neppure, ma è una cosa storica».
Questa guerra ha già trasformato l’economia globale in un’economia di guerra…
«Stiamo già vivendo due fenomeni. Il primo è la spirale vorticosa dei prezzi dei fertilizzanti nel mondo: negli ultimi due mesi sono aumentati del 50-60 per cento. Questo perché l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia costituiscono forse il 70 per cento della produzione di fertilizzante nel mondo. Ci sono Paesi, come il Brasile, che non sono in grado di fertilizzare i propri campi e che potrebbero a breve termine andare incontro a una carestia. Il secondo tema è quello del grano, di cui l’Ucraina è un grande produttore a livello mondiale. La semina avviene tra marzo e aprile, e quest’anno non si potrà seminare, sia perché i campi sono percorsi dai carri armati, sia perché gli uomini sono impegnati in guerra. In Egitto, il più grande Paese importatore di grano al mondo, sono molto preoccupati perché non sapranno cosa dare da mangiare a decine di milioni di egiziani. E insieme all’Egitto anche altri Paesi si trovano in questa situazione».
C’è mai stato nella storia recente un periodo così drammaticamente di svolta?
«Io credo di no. Ho vissuto la seconda guerra mondiale, che per me è un ricordo indelebile nella memoria, nel mio modo di pensare, nelle mie aspirazioni, nelle mie priorità. È evidente che, anche dal punto di vista emotivo, fa effetto rivedere i bombardamenti, che ho subito nel novembre del 1942 da parte dei cacciabombardieri inglesi a Torino, e vedere la gente sfollata. Quella è stata l’esperienza più importante che ho vissuto e che ha coinvolto non solo me, direi quasi l’intera umanità. Ma noi in questo momento stiamo assistendo alla decadenza e alla ritirata degli Stati Uniti. Che è un fatto drammaticamente epocale».
Ed è per questo che nel conflitto in Ucraina che ridisegnerà gli equilibri mondiali gli Usa, forse più di tutti gli altri Paesi coinvolti, hanno moltissimo da perdere?
«In questa specifica occasione dell’Ucraina, noi vediamo gli Usa fare una guerra che non li tocca per nulla, ed è una guerra quasi fatta per procura. Chiaramente l’America sta traendo solo dei benefici da questa guerra. Pensa di indebolire Putin – cosa molto discutibile – carica tutto il peso migratorio (e i costi relativi) sull’Europa, vende a noi il gas liquido con un enorme guadagno – un grande affare a cui noi non possiamo rinunciare per ovvi motivi, ma che noi certamente andiamo a pagare caro. E poi, soprattutto, c’è un fatto rivoluzionario: gli Stati Uniti hanno perso il Medio Oriente. La contropartita che la Cina dà all’Arabia Saudita per il petrolio che compra in renmimbi è la garanzia di tenere un occhio sull’Iran».
Quindi?
«La conseguenza principale è che i vuoti si riempiono: basti pensare a come Pechino ha conquistato la parte orientale dell’Africa: senza arroganza. I cinesi hanno per loro natura un approccio che non è imperialista. Deriva dalla priorità del commercio. E poi la Cina ha sempre sostenuto – e devo dire mantenuto – l’impegno a non invadere Paesi con la loro storia e la loro indipendenza».
Il realismo che prevale sull’idealismo occidentale…
«Noi siamo figli del colonialismo, come Europa non ci salviamo. Prendiamo il caso dell’approccio all’Africa. L’America si è tenuta fuori, ma l’Europa ha avuto un approccio di stampo colonialista, mentre la Cina ha avuto un approccio utilitaristico e commerciale, dando anche molto. Faccio un esempio: la Cina ha il controllo di alcuni giacimenti in Mozambico, ha realizzato una ferrovia di 2mila chilometri nel Paese, che unisce la costa alla Capitale. Questa ferrovia è stata realizzata in tempi record dai detenuti nelle carceri cinesi. A costo zero, con velocità, e soprattutto riconoscenza da parte del Mozambico».
Questo vuol dire anche che il nostro modello politico, la liberal-democrazia, va riconsiderata?
«Questo è quello che sostengono nei loro scritti, nei loro discorsi e proclami sia Xi, che forse è il più grande leader al mondo, sia Putin. Io constato che una delle conseguenze macro-politiche della guerra è che si schierano da una parte i Paesi che considerano la democrazia un sistema di governo obsoleto, e dall’altra quelli che pensano che l’unico modo di gestire grandi masse e rapporti geopolitici siano gli autoritarismi. Questi hanno anche una loro giustificazione che chiamerei quasi tecnica: la velocità. Il mondo ha preso velocità in tutto, favorita dall’informatica, dal web, dall’elettronica, insomma dal 2.0. E questa velocità di eventi mette in crisi la democrazia, perché essa richiede dei tempi: le proposte devono essere portate e discusse in Parlamento, trasformate in legge e poi applicate».
Dunque democrazia e progresso tecnologico non vanno a braccetto?
«Bè il processo stesso dei funzionamenti di una democrazia è inevitabilmente e saggiamente lungo, che era l’ideale in società a velocità ridotta, come quelle in cui abbiamo vissuto nell’Ottocento e nel Novecento, o a velocità limitatissima, come all’epoca della Rivoluzione Francese. Adesso sia la popolazione sia la competizione tra Stati richiede una velocità tra un’idea e la sua realizzazione che certamente trova la democrazia più lenta. Sia chiaro, con questo non intendo dire che sostengo l’autocrazia al posto della democrazia, però è un dato di fatto. Noi Occidente abbiamo fatto dei passi colossali, impensabili, verso la modernizzazione delle nostre società, verso la diminuzione – e quasi l’annullamento – dello sforzo fisico dei lavoratori, nella qualità della vita in termini molto materiali. Siamo stati bravissimi. Ma a ciò è corrisposto sul piano politico una oppressione del mondo».
Dovremo rivedere il modo in cui applichiamo la democrazia?
«La scienza non può essere fermata. La velocità di trasformazione della scienza in tecnologia, e della tecnologia in riduzione del tempo, è una conquista dell’umanità, non un handicap. Il problema è che bisogna – e credo che questo non sia ancora stato fatto e non ho idea di quando e come potrà essere fatto – adattare i nostri sistemi politici ai progressi che la scienza ha portato nella nostra vita».
Quindi si può dire che la democrazia così com’è, constatato tutto quello cui siamo di fronte, non basta più?
«Sì, ha dei seri problemi».
A lei pare normale che sulla guerra in Ucraina il dibattito italiano venga iper-semplificato e che chiunque abbia qualcosa da obiettare venga immediatamente tacciato come filo-putiniano?
«È la destra a farlo. Noi siamo il Paese che ha avuto la massima quantità e qualità di artigiani diventati artisti. Raffaello, Michelangelo, Leonardo, erano artigiani sublimi. Noi siamo quella cosa lì. Poi c’era chi gli commissionava di fare quelle opere e chi le guardava. Non voglio ridurre questo a una sintesi dell’Italia, ma questa è la nostra origine e il nostro Dna. Siamo stati internazionalisti l’ultima volta con i romani. Abbiamo conquistato il mondo che allora si conosceva. Confrontando la cartina del mondo all’epoca conosciuto e quella dell’Impero romano, si nota che quello era il più grande impero relativamente riconosciuto che sia mai esistito. E poi ci siamo persi nel nostro caratteristico individualismo, nella nostra soggezione al dominio straniero. Siamo stati succubi, abbiamo accettato la supremazia politica e sociale del regno austro-ungarico – per saltare a tempi molto più recenti – non avendo altro da imparare da loro se non la disciplina. Ma siccome noi la disciplina la rifiutiamo, non l’abbiamo neanche imparata. Siamo un Paese fondamentalmente provinciale».
E oggi?
«Oggi abbiamo un presidente del Consiglio che è l’esempio di quello che l’Italia non è: una persona straordinaria, che ha fatto un percorso professionale straordinario, e che è stato esposto anche a decisioni straordinarie nella gestione di ciò che gli è stato affidato. E, infatti, a questo Parlamento non è passato neanche per la testa di mandarlo al Quirinale. E questo è, se lei vuole, un dettaglio ma è la dimostrazione che noi rifiutiamo le eccellenze, perché queste ci dimostrano la nostra ignoranza. Il nostro è un Paese che non vuole essere fiero di sé, lo è in modo molto provinciale».
Ritiene che la guerra in Ucraina sia stata un pretesto per riarmare l’intero continente europeo?
«Secondo me così come è stato programmato, cioè che le nazioni singolarmente si riarmino, è molto discutibile. Personalmente sono contrario. Mentre sarei molto favorevole a una semplificazione e unificazione delle nostre forze di Difesa e – perché no – anche di controllo del nostro territorio, attraverso quello che chiamiamo esercito europeo. Questo significa prima di tutto unificazione delle tecnologie. Abbiamo quattro tipi di carri armati in Europa, potremmo investire molto meno se investissimo in maniera razionale. Un’unica forza europea vuol dire minori costi, ma non abbiamo sistemi d’arma compatibili, non è solo una mancanza di volontà politica».
Questo è il simbolo del fallimento dell’Europa?
«L’Europa si può guardare da molti punti di vista. Il progetto finanziario dell’Europa ha funzionato, come anche il progetto di europeizzazione delle nazioni, in termini di movimento di persone e di merci. Quando ero giovane comprare una macchina tedesca era una novità, invece io stesso ho comprato ultimamente un’auto coreana. Abbiamo per fortuna perso delle caratteristiche provinciali, nazionaliste, e abbiamo acquisito una certa mentalità per cui dei discorsi che oggi si fanno in chiave europea sarebbe stato impossibile immaginarli 50 anni fa. Quindi su questo l’Europa è avanzata fortemente. Il punto chiave è sempre il potere: abbiamo creato dei nuovi poteri, ma non sostitutivi di quelli che esistevano. La presidente della Commissione europea e il presidente del Consiglio europeo sono delle autorità, ma non è che i presidenti del Consiglio dei singoli Paesi abbiano mollato un centimetro dei loro poteri. Per cui è una sovrapposizione. Se fossimo in America si direbbe che abbiamo steso un layer europeo sopra l’Europa, ma sotto ci sono le nazioni».
Nato sì o Nato no?
«La Nato è stata istituita durante la guerra fredda e aveva una ragione validissima di nascere. Oggi penso che l’alleanza atlantica dovrebbe essere sostituita dall’esercito europeo. La Nato non dovrebbe includere gli Stati Uniti, perché questo è un retaggio della Seconda Guerra Mondiale e della guerra fredda. Per quale motivo gli Stati Uniti devono comandare sulle decisioni dell’unica arma comune che abbiamo con molti Paesi europei, cioè la Nato? Mi sembra che faccia parte del passato».
Le Big tech oggi hanno accumulato troppo potere?
«Certamente sono state lasciate crescere al punto che non potevano più essere controllate, è un dato di fatto. Ci sono degli aspetti per cui è un bene. Amazon ha creato probabilmente più posti di lavoro nel mondo di quanti ne abbia distrutti. Ha ridotto il prezzo al consumatore di quasi tutto».
Non ha anche ucciso le piccole imprese?
«Il problema è vedere se le piccole imprese che sono morte erano un patrimonio dell’umanità o se invece erano un costo per l’umanità. C’è anche molto silenzio sul fatto che Amazon dà molto lavoro alle piccole imprese. Poi lei mi potrà dire che il padrone è sempre padrone del cliente, e il padrone del cliente è Amazon, e non la piccola impresa. Però li ha fatti lavorare».
Io, nelle Big Tech, ci vedo quasi unicamente un problema di monopolio.
«In questo ha ragione, ma tenga presente che erano cose in qualche modo mutuabili. Alibaba era esattamente l’Amazon cinese. L’Europa, per esempio, che è stata forte negli anni Settanta e Ottanta per la grande distribuzione, avrebbe avuto la possibilità di creare, come hanno fatto i cinesi, l’Alibaba. Non l’abbiamo fatto, punto».
Oggi lavoriamo troppo secondo lei?
«Vedo i giovani privilegiare il tempo libero piuttosto che il tempo occupato».
Fanno bene?
«Secondo me sì. Dico una banalità: la vita è una sola, viverla totalmente immersi in un’unica ossessione, cioè il lavoro, è limitativo. Potremmo avere imparato altre cose se avessimo avuto più tempo, interesse, voglia, forse anche un po’ più di benessere. Perché il tempo libero è una cosa per la quale bisogna anche stare economicamente bene».
Lei si è mai pentito di aver lavorato troppo?
«Ognuno ha vissuto la vita che le circostanze, le caratteristiche e la famiglia lo hanno portato ad avere. Io non ho nessun rimpianto. Ovviamente ho rimpianti di singole cose, ma si riferiscono sempre molto a fatti di lavoro, tanta è la mia ossessione del lavoro».
Un esempio che le ha lasciato l’amaro in bocca?
«Sicuramente le decisioni di Roberto Colaninno di comprare Telecom anziché sviluppare Omnitel».
Cosa pensa della vendita de L’Espresso?
«Il mio pensiero lo conoscete tutti. Non c’è bisogno che io lo esprima. È chiaro che è associato a un grande dispiacere, legato alla storia del nostro Paese del dopoguerra. L’Espresso ha raccontato l’Italia repubblicana, quindi è un grande patrimonio del Paese. L’ha raccontato con colori vivaci, talvolta anche un po’ urticanti, però se uno guardasse l’archivio dell’Espresso ci troverebbe la storia degli ultimi 70 anni».
Ritiene che oggi il rapporto tra media e potere sia malato?
«Sul fatto che oggi non esistano, o esistano rari esempi di stampa libera, mi pare evidente, non lo metterei neanche in discussione. Forse il gruppo editoriale più indipendente è quello tedesco di Axel Springer. Vedo che in Francia si sta creando una concentrazione intorno a Bolloré. Credo che la nascita di iniziative come la sua – lei è stato un antesignano in questo – e come Domani, siano delle mosche bianche, diciamoci la verità».
Bene, e grazie, ma quindi?
«Quindi diamoci dentro, facciamo tutto il possibile per far sì che volino».
Chiaro, ma da editore con grande esperienza non ritiene che oggi nella società che viviamo esista un serio problema di rapporto tra media e affari?
«Per me c’è, bisognerebbe che non fosse consentito di fare l’editore a chi ha dei prevalenti interessi economici in altri settori. È tutto lì».
In passato, quando era editore del gruppo Espresso, lei aveva anche altri interessi al di fuori dell’informazione.
«Io sono stato un editore con prevalenti interessi in altri campi, non c’è dubbio. La mia è stata una scelta individuale: quella di rispettare il giornale. Infatti questo viene riconosciuto da quelli che hanno lavorato in quel giornale. Ma sulla carta la collusione c’era».
Lei sente qualche responsabilità personale per quanto accaduto all’Espresso?
«Assolutamente no».
Rizzo, Rampini e molti altri sono stati allontanati da Gedi dall’oggi al domani
«Rampini non avrebbe mai lasciato Repubblica, se fossi stato io il presidente. Non ci avrebbe neanche pensato…».
E Rizzo?
«Non lo so, non lo conosco».
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