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I buchi nelle indagini sulla strage di Capaci: quelle tracce mai seguite

Immagine di copertina
credit: ELIGIO PAONI/CONTRASTO

Le foto scomparse nel nulla, l’abitazione mai perlustrata, la borsa marrone e l’ordine di distruggere le auto: ecco come alcuni indizi sulla strage di Capaci sono caduti nel vuoto. Il racconto di Antonio Vassallo, tra i primi ad arrivare sul luogo dell’attentato, sul nuovo numero del settimanale The Post Internazionale - TPI, in edicola da venerdì 20 maggio

Come si può ricordare qualcosa che non s’è compreso? È improprio fare memoria se non c’è verità. Perché il volto serafico di Giovanni Falcone non sia soltanto un ornamento da rigenerazione urbana e le sue frasi autentiche non siano soltanto da esergo a bei post sui social, è fondamentale che quanto sia ancora ottenibile da coinvolti nella strage di Capaci sia finalmente ottenuto. Che siano perciò individuate quelle “menti raffinatissime” e rivelate quelle ragioni per cui due grandi avversari di Cosa nostra come lui e Paolo Borsellino siano caduti con intervalli così ristretti e con modalità così spietate; che siano individuate e rivelate quelle menzogne, quelle infedeltà istituzionali e quelle negligenze investigative, alcune delle quali elencate a seguire insieme allo stralcio di un verbale inquietante per la precisione e per la clamorosa indifferenza riservategli nel tempo, nonostante potesse intercettare una borsa del dottor Falcone appartenutagli fino all’istante precedente lo scoppio, quando la terra si è sollevata davanti anche ai suoi occhi il 23 maggio del 1992.

Tra i primi a sopraggiungere sul luogo dello scempio è stato un giovane fotografo, Antonio Vassallo. «Abitavo, e abito, a Capaci, tra quel tratto dell’autostrada A29 e la collina da dove Giovanni Brusca ha premuto il pulsante per la detonazione. Quel sabato pomeriggio mi trovavo casualmente in terrazza con al collo la macchina fotografica: una Ricoh, modello KR-10X, con uno zoom piuttosto grande e nero. Avevo appena finito di prepararla per un servizio che avrei dovuto fare la sera quando, alle ore 17:57, ho udito un boato indescrivibile. Davanti a me si è originata una nuvola nera. È stato spaventoso. Ho recuperato lo scooter e mi sono precipitato in quella direzione, a non più di 300 metri da me», rammenta Vassallo che all’epoca dei fatti aveva 25 anni. «Quel che mi si è presentato davanti è stato qualcosa che, fino a quel momento, avevo visto solo al cinema. Un tratto di autostrada non c’era più, è volato per aria e caduto nel raggio di 150 metri. Alberi di ulivo si sono strappati dal terreno per rovesciarsi con le radici per aria. Ho abbandonato il mezzo per avvicinarmi al cratere, verosimilmente profondo tra i 3 e i 4 metri. La mia attenzione è stata però subito catturata da un’automobile, una Fiat Croma bianca sull’orlo del vuoto. Mi sono avvicinato scorgendo un uomo al posto guida, aveva il volto insanguinato. Non avevo ancora compreso che si trattasse di Giovanni Falcone. Avvicinandomi ulteriormente mi sono accorto che avesse gli occhi aperti. I nostri sguardi si sono incrociati per brevi istanti. Mi chiedo tutt’oggi cosa avrà pensato, probabilmente che fossi qualcuno giunto sul posto per finirlo. Non sapevo cosa fare quando dalla portiera posteriore di un’altra auto, una Croma azzurra, con un calcione, un ragazzo dai capelli ricci è riuscito a liberarsi e uscire. Barcollando e gridando qualcosa, questo mi ha raggiunto e, mentre con una mano strofinava un occhio, con l’altra mi agitava l’M12, una mitragliatrice in dotazione agli agenti di scorta. Così sono scappato via». Il testimone racconta l’esperienza che lo legherà per sempre ad Angelo Corbo, la cui testimonianza è stata già riportata da TPI, sopravvissuto insieme ai colleghi Gaspare Cervello, Paolo Capuzza e Giuseppe Costanza, quest’ultimo a bordo dell’auto condotta da Giovanni Falcone su cui viaggiava anche la moglie Francesca Morvillo, prima e unica donna magistrato uccisa dalla mafia. Non ce la faranno neppure gli altri agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo: la loro auto è stata sbalzata fuori dalla corsia di marcia nella quale viaggiava il corteo e scaraventata in un terreno contiguo all’autostrada, a ben 62 metri di distanza dal cratere. «L’abitacolo si era ridotto a 10 centimetri…» osserva Vassallo a TPI, che riprende il racconto. «Sul posto sono tornato pochi minuti dopo, quando sono giunti i primi soccorsi. Disponendo della licenza di pubblica sicurezza per l’attività fotografica, allora rilasciata dalla Questura, sentivo fortissimo il dovere di documentare l’accaduto. Ma proprio mentre stavo producendo degli scatti, due uomini qualificati come poliziotti ma in abiti civili mi hanno chiesto di consegnare il rullino fotografico. Mentre tentavo di mostrare loro la mia licenza, hanno insistito praticandomi della leggera violenza a un braccio. Ho creduto che le fotografie sarebbero state utili agli investigatori ai fini delle indagini, così le ho consegnate», è il ricordo vivido del fotografo.

La casa di Battaglia

«Sapevo quali personaggi del mio paese fossero in odore di mafia. Dopo la detonazione di quei 500 chili di esplosivo, in meno di un’ora, guardandomi intorno, ho intuito chi tra i miei compaesani avesse offerto manovalanza o logistica; ma soprattutto, ho trovato una chiave di lettura a una serie di anomali movimenti nel casolare di fianco a casa mia, registrati nei giorni precedenti». Vassallo si riferisce all’abitazione del vicino Giovanni Battaglia, scelta dagli uomini di Cosa nostra come base per le numerose riunioni operative per l’elaborazione dei particolari del piano criminoso.

Nel corso dell’iter giudiziario, più imputati hanno addebitato a Battaglia una serie di attività come il montaggio della tenda per evitare che altri notassero quel che stava accadendo sulla veranda della villetta. A Battaglia è toccato anche il compito di bruciare degli oggetti adoperati e di custodire, assieme ad Antonino Troia, il congegno di

trasmissione. S’è accertato, inoltre, che si fosse occupato di sotterrare e occultare i contenitori d’esplosivo, quindi del successivo dissotterramento perché fossero introdotti nel cunicolo sottostante al tratto autostradale ascrivibile già nella notte tra l’8 ed il 9 maggio. «Poiché il telecomando non è mai stato trovato, avrebbero dovuto cercare in quel casolare e nell’appezzamento di terra, accanto casa mia. Questa mancanza è stata una grave negligenza investigativa», denuncia il fotografo Antonio Vassallo, che aggiunge un particolare sconvolgente: «Qualche anno più tardi, sui movimenti sospetti osservati intorno al casolare di Giovanni Battaglia, in famiglia abbiamo appreso con sorpresa del pericolo sfiorato. Un articolo del Giornale di Sicilia, infatti, aveva titolato “Una coppia alla finestra rischiò di scoprirci”: si trattava dei miei genitori. Il particolare era stato reso ai magistrati di Caltanissetta da Giovan Battista Ferrante, divenuto intanto collaborante». I membri del commando, durante gli appostamenti dalla collinetta che sovrasta l’autostrada, nei pressi di dove è stato poi azionato il telecomando, si sono accorti di quegli occhi indiscreti perciò hanno preferito trasferirsi in un’altra villetta poco distante, di proprietà di una persona estranea ai fatti, dove hanno brindato dopo la strage.

Il rullino scomparso

«Sette mesi dopo quel 23 maggio, ascoltato da Ilda Boccassini che da Milano era stata trasferita a Caltanissetta perché potesse seguire il corso delle indagini, ho riportato di essere l’autore delle istantanee agli atti. Lei ha allargato le braccia: in quell’ufficio non c’era notizia di nessuna di queste. Delle mie fotografie non c’era più traccia. Il giorno dopo sono stato convocato in Questura da Arnaldo La Barbera, dal quale ho appreso che il rullino era stato dimenticato nella tasca di una divisa, sebbene quegli agenti si fossero presentati in borghese. S’è infine scusato, raccomandandosi che lo avrebbe trasmesso l’indomani. Alla procura di Caltanissetta, però, non è mai arrivato. Probabilmente non esiste più». Dove sono finite le fotografie di Antonio Vassallo che certamente avrebbero potuto costituire un elemento probatorio, atte a raccogliere le prove dei primissimi minuti dall’accadimento? Vassallo denuncia a TPI un’altra grave negligenza investigativa circa un avvenimento più recente: «Una decina di anni fa, poiché i carabinieri di Capaci dovevano cambiare sede, questi cercavano un luogo dove depositare mobilie. L’amministrazione comunale ha perciò messo a disposizione, temporaneamente, un bene sequestrato e confiscato, una sorta di garage interrato e mai perlustrato». Vassallo si riferisce ad un’ex proprietà di Giuseppe Sensale, già condannato per associazione mafiosa. Tra i suoi crimini, anche l’omicidio e la distruzione del cadavere dell’imprenditore Vincenzo D’Agostino, scomparso a Palermo il 3 dicembre del 1991. L’esecuzione, secondo l’accusa, è avvenuta in un magazzino di Capaci gestito proprio da Sensale. «All’interno del garage», riprende il fotografo, «le autorità hanno trovato due auto, entrambe senza targa, una Fiat Ritmo e una Lancia Thema, con molta probabilità utilizzate per le prove dell’attentato su quel tratto autostradale. Tuttavia, il comandante della stazione dei carabinieri di Capaci, ricevuto un clamoroso ordine da Palermo, ne ha dovuto disporre la demolizione». Perché disfarsene senza fare approfonditi accertamenti scientifici? La circostanza avrebbe dovuto porre molti interrogativi, assumendo che Sensale fosse in rapporti con i maggiori esponenti di Cosa nostra coinvolti alla strage di Capaci. Infatti, per l’omicidio di D’Agostino altri provvedimenti di custodia cautelare sono stati notificati, nel 1998, a Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Antonino Troia e Giovanni Battaglia, già in carcere per i fatti annessi al massacro del Direttore generale degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia, dottor Falcone.

La borsa di pelle

«Camminava sempre con una borsa, una ventiquattrore di pelle. Ce l’aveva anche quel 23 maggio. Ricordo perfettamente che, sceso dall’aereo, l’ha consegnata all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza», ha detto ai lettori di TPI nel 2019 Angelo Corbo, la cui canna del mitra s’è riflessa per qualche istante sulla lente della macchina fotografica di Antonio Vassallo al momento dell’attentato. Dov’è finita questa borsa? Cosa c’era all’interno? Perché non se ne parla mai? Per fortuna, oltre alle informazioni cancellate, ci sono anche quelle più semplicemente trascurate ma fruibili. Un recente volume, ad esempio, tra gli oscuri scenari presentati e mai stranamente approfonditi, ha pubblicato un particolare riguardante proprio quella borsa.

In Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le cose non dette e quelle non fatte (2017, Castelvecchi), di Carlo Sarzana di Sant’Ippolito, c’è notizia di una relazione di servizio del 23 maggio 1992, inerente l’intervento effettuato sull’autostrada A29 nei pressi dello svincolo Capaci. Chi la redige, il vice sovrintendente della polizia di Stato Santo Catani, vi ha riportato: «Si porta a conoscenza che inoltre è stata consegnata nelle mani del dottor La Barbera, dirigente la prima sezione della squadra mobile, una borsa da viaggio in cuoio di colore marrone, ricevuta in consegna sul luogo dell’attentato dal personale di scorta rimasto ferito, la quale appartiene al dottor Falcone, che non è stata mai aperta dal personale redigente». Un documento estremamente importante, per cui ne avrebbe dovuto rispondere La Barbera, già «intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa», come hanno scritto i giudici nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater.

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