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Esclusivo TPI – Lo Stato sapeva dell’attentato contro Borsellino, ma aspettò 14 giorni per informarlo

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Due documenti inediti rivelano che Governo, Servizi segreti e Ros sapevano da metà giugno '92 dell'imminente strage di via D'Amelio. Ma il magistrato fu informato solo due settimane dopo. Borsellino poteva essere salvato?

Paolo Borsellino poteva essere salvato? Lo Stato italiano sapeva dal 15 giugno 1992 che il progetto di Cosa Nostra per uccidere il magistrato era in fase avanzata e che l’esplosivo era già pronto. Ma Borsellino fu informato solo quattordici giorni dopo, il 28 giugno. Due settimane durante le quali le misure di sicurezza furono piene di falle. È quanto emerge mettendo in fila una serie di documenti inediti di cui noi di TPI siamo entrati in possesso e che saranno pubblicati in esclusiva sul prossimo numero del nostro settimanale cartaceo, in edicola da venerdì 22 luglio.

A trent’anni esatti dalla strage di via Mariano D’Amelio, capire se era possibile evitare l’uccisione di Borsellino e della sua scorta è dirimente, insieme alla questione cruciale della scomparsa dell’agenda rossa del magistrato, anche perché equivale a individuare quando esattamente si verificò l’accelerazione del progetto omicida terroristico-mafioso, e di conseguenza a determinarne il preciso movente. Un punto sul quale procure, avvocati e il mondo dell’antimafia tutto sono divisi.

«Prima o poi mi ammazzeranno qua», confidò Borsellino a pochi intimi. Con l’espressione «qua» il magistrato si riferiva a via D’Amelio a Palermo, indirizzo di casa di sua madre e luogo dove poi effettivamente verrà fatta esplodere l’autobomba. Perché proprio quel luogo? In quella strada non era stata prevista – né lo sarà fino a quel 19 luglio 1992 – nessuna operazione di messa in sicurezza, come riferirà poi Antonio Vullo, unico agente della scorta sopravvissuto, davanti alla Commissione parlamentare antimafia siciliana guidata da Claudio Fava. Borsellino dunque sapeva che la sua ora era vicina, ma non poteva sapere con precisione quando sarebbe scattata.

Ma andiamo con ordine e riavvolgiamo il nastro. Il 15 giugno 1992 il colonnello del Ros dei carabinieri Umberto Sinico si reca nel carcere di Fossombrone, in provincia di Pesaro, insieme al maresciallo Antonio Lombardo e al capitano Giovanni Baudo. I tre devono incontrare un confidente di Lombardo, Girolamo D’Anna, esponente mafioso di Terrasini, territorio appartenente al mandamento di San Lorenzo, zona di Palermo sotto l’influenza della famiglia di Tommaso Natale.

Sinico riferisce di questo antefatto in vari processi: non ricorda il giorno esatto dell’incontro con il detenuto, ma la data verrà accertata in seguito nel corso delle indagini. D’Anna rivela al solo Lombardo, il quale poi lo riferirà ai colleghi, che l’attentato per Borsellino è già in stato avanzato di progettazione e che l’esplosivo è già arrivato.

Sinico, sempre in sede processuale ma anche durante un’intervista rilasciata nel 2012, racconta che subito dopo la visita a Fossombrone – non è chiaro se il giorno stesso o quello seguente – i tre carabinieri vanno a informare Borsellino, il quale risponde: «Lo so, lo so, io devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia».

È strana questa reazione quasi fatalista del magistrato. Sappiamo infatti che Borsellino ha sempre tenuto molto alla sua sicurezza personale e quella della sua famiglia e della scorta: lo si evince anche da un’audizione al Csm del 1991 – ma resa nota solo nel 2019 – in cui il magistrato parla in toni drammatici proprio di questo tema: «… Non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera», dice.

Il 18 giugno, tre giorni dopo il colloquio con D’Anna (uno dei tanti incontri che il Ros in quel periodo svolgeva con i detenuti per carpire informazioni da speciali confidenti), il Ros prepara un appunto informale nel quale si dà conto, in poche scarne righe, di quanto riferito dal mafioso, ma senza alcun riferimento all’esplosivo.

Il 20 giugno viene redatto sempre dal Ros un ulteriore appunto contenente le medesime informazioni, accompagnate da una comunicazione in cui si riferisce chi ne è a conoscenza, e cioè: la presidenza del Consiglio tramite il Cesis (oggi noto come Copasir), il Sismi, il Sisde, la Dia e l’Alto Commissariato contro la mafia, organo (oggi non più esistente) che operava su delega del Viminale.

Entrambi i documenti, finora sconosciuti, sono stati trovati da TPI presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma. Tra le carte recuperate – rilegate in un’unica pratica contenuta nel fascicolo del Sisde riguardante l’omicidio Borsellino – c’è anche un rapporto del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri indirizzato al direttore del Cesis, datato 20 giugno 1992, nel quale vengono indicati altri possibili bersagli di Cosa Nostra: lo stesso colonnello Sinico, il maresciallo Carmelo Canale (molto vicino a Borsellino, anni dopo sarà accusato di collusione con la mafia salvo poi essere assolto), l’allora ministro della Difesa Salvo Andò e l’allora ministro del Mezzogiorno Calogero Mannino (successivamente imputato in un processo stralcio della Trattativa Stato-mafia, poi assolto).

Riguardo a Borsellino, la nota riferisce che il magistrato «correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese». Informazioni molto generiche.

Anche il generale del Ros Antonio Subranni redige di proprio pugno un appunto, il 19 giugno, in cui scrive che per «i dipendenti Canale e Sinico» le contromisure necessarie sono state già prese e che per quanto riguarda gli altri soggetti minacciati dovrebbero pensarci gli organismi competenti: ossia la Procura (autorità giudiziaria) e il Controllo per la sicurezza pubblica.

Nell’appunto Subranni indica anche che Borsellino sarebbe stato d’accordo con una delle disposizioni prese a protezione del maresciallo Canale. E che l’autorità giudiziaria era stata informalmente messa al corrente, dove per autorità giudiziaria si intende la Procura di Palermo.

Mai prima d’ora erano state messe in fila tutte queste evidenze in modo cronologico. Ma a questo punto emerge una contraddizione che è impossibile ignorare.

Il 28 giugno 1992 Borsellino e la moglie Agnese Piraino sono all’aeroporto di Fiumicino di ritorno da un viaggio a Bari e per caso incontrano la dottoressa Liliana Ferraro, all’epoca membro della direzione generale degli Affari penali del ministero della Giustizia, e il ministro Andò. La Ferraro riferisce al magistrato dell’attività di avvicinamento promossa dagli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno verso Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, per cercare di fermare le stragi. La risposta di Borsellino è concisa: «Va bene, ho capito, ci penso io».

È invece il ministro Andò a mettere al corrente il magistrato dell’informativa che li riguarda entrambi. La moglie di Borsellino ha riferito in più occasioni quanto accaduto, parole che è bene fissare: «Ricordo che eravamo nella sala Vip dell’aeroporto di Fiumicino. Ricordo ancora che l’aereo per Palermo partì con un’ora di ritardo proprio per la presenza di mio marito e gli accertamenti per la sua sicurezza che si resero necessari. In ogni caso, mio marito non mi fece partecipare all’incontro con la dottoressa Ferraro. Anche successivamente, non mi riferì nulla, salvo quanto detto dal ministro Andò, che, per quello che mi venne riferito da mio marito, disse che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per ucciderlo, e che ciò sarebbe avvenuto a mezzo di esplosivo. Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: “Come mai non sa niente?”. In pratica, la nota che riguardava la sicurezza di mio marito era arrivata sul tavolo del procuratore Giammanco (all’epoca procuratore capo a Palermo, ndr), ma Paolo non lo sapeva».

Appare dunque evidente come – al contrario di quanto affermato dal colonnello Sinico – quel 28 giugno Borsellino fosse ancora totalmente a digiuno dell’informazione che lo riguardava e di cui invece erano a conoscenza diversi organi dello Stato.

Abbiamo chiesto all’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino, se è mai stata fatta una riflessione in questo senso. Ecco la sua risposta: «La contraddizione tra la reazione forte di Borsellino quel 28 giugno e la cronologia degli eventi relativi a quella informativa, nonché agli appunti precedenti che state mostrando, in effetti è evidente e non avevo mai riflettuto in questo senso. Teniamo anche conto del fatto che, per come la vediamo noi, il colonnello Sinico ha inserito l’ex Sisde Bruno Contrada sul luogo della strage, dando quindi la stura di un depistaggio contro lo stesso Contrada, depistaggio che però si è dimostrato inefficace visto che poi l’ex Sisde è riuscito a dimostrare che in via D’Amelio lui non c’era (Contrada ha riferito di essere arrivato sul luogo dell’attentato solo alle 22.30 del 19 luglio, mentre un’inchiesta aperta dal magistrato Nino Di Matteo nel 1995 lo colloca sul luogo immediatamente dopo la strage, avvenuta alle 16.58: a riferirlo, tramite un altro collega, fu proprio Sinico, ndr).

«Tuttavia – continua l’avvocato Trizzino – bisogna fare mente locale alla chiara competenza e gerarchia che in questi casi si mette in moto. Il maresciallo Lombardo non avrebbe mai potuto agire di sua sponte: rispondeva a Subranni. Se Subranni ha acquisito le informazioni da Lombardo, da lui apprese in carcere, e ha poi dato il via alla produzione di atti, come si può pensare che volessero mandare al massacro Borsellino?».

La contraddizione, però, resta inspiegabile per diversi motivi. Possibile che Borsellino, che temeva per la sua vita e per quella dei suoi familiari, nonché per la vita della sua scorta, avesse risposto in maniera così blanda il 15 giugno, per poi reagire con sorpresa e con forza 14 giorni dopo come se non ne sapesse nulla? Questo al netto delle gerarchie e delle procedure di competenza.

Interpellato da TPI, l’avvocato Basilio Milio, difensore degli ufficiali del Ros, sostiene che Borsellino reagì così soprattutto nei confronti del procuratore Giammanco e che non era tenuto a riferire a sua volta al ministro Andò ciò di cui era a conoscenza a livello informale.

All’avvocato Trizzino abbiamo anche chiesto una riflessione su un’altra testimonianza della moglie di Borsellino, ripetuta in diverse sedi processuali: «Il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto», racconterà Agnese Piraino. «Mi disse testualmente: “Ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu (affiliato a Cosa Nostra, ndr)”. Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che a ucciderlo non sarebbe stata la mafia, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere».

Trizzino ci ha risposto così: «Facendo un’esegesi attenta di queste parole e mettendole a raffronto con gli innumerevoli elementi a disposizione, come quanto pronunciato da Borsellino al Csm il 14 luglio 1992 (relativamente al dossier mafia-appalti, ndr), siamo arrivati alla conclusione che le parole su Subranni di Borsellino devono per forza di cose interpretarsi come un’illazione fatta contro Subranni per depistare Borsellino: un Subranni infangato insomma. La signora Piraino non era a conoscenza di atti processuali, era digiuna di queste materie e riteniamo che in tutti questi anni si siano manipolate le sue parole per portarle in un’unica direzione».

Resta il fatto che dal 15 giugno al 28 giugno trascorrono quattordici giorni, durante i quali molti nello Stato sono informati dell’imminente attentato, tranne il diretto interessato. Il giudice Borsellino ha le ore contate e lui non ne è a conoscenza.

Nota 1: Va ricordato che il maresciallo Lombardo è morto nel 1995 in circostanze mai chiarite davvero, sebbene le indagini ufficiali parlino da sempre di suicidio. I familiari stanno da tempo cercando risposte e aiuto dall’autorità giudiziaria in questo senso. Alcuni giorni prima di morire il maresciallo avrebbe chiamato la signora Piraino dicendole che sarebbe stato in grado di portarle la verità sulla strage.

Nota 2. Nel secondo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia, Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti. Subranni è stato indagato per favoreggiamento anche per l’omicidio di Peppino Impastato: nel 2018 il Gip ha archiviato per prescrizione, ma ha stabilito che «sulle indagini si è verificato un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative». Nella stessa inchiesta sono state archiviate anche le posizioni dei tre sottufficiali che rispondevano di concorso in falso: lo stesso Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono, che la notte del delitto, il 9 maggio 1978, perquisirono la casa di Impastato a Cinisi.

L’intervista integrale all’avvocato Trizzino sarà riportata sul prossimo numero del settimanale cartaceo di TPI, in edicola da venerdì 22 luglio.

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