A Bologna il Pd si è piegato per anni alle multinazionali. Ora cambia idea per non perdere le elezioni
Sotto le Due Torri partiranno a giorni le Consegne Etiche, con rider pagati degnamente. Ma in contemporanea arriva in città Uber mentre Airbnb continua a monopolizzare il mercato immobiliare. Almeno per ora, quindi, quella al capitalismo di piattaforma appare una sfida imperfetta e ricca di contraddizioni. E portata avanti più che altro per fini elettorali
C’è stato un momento, agli inizi di questo anno surreale, in cui la parola “cambiamento” veniva pronunciata quasi da tutti con venerazione, come si trattasse di una preghiera, un padreterno. Sembrava che la pandemia stesse agendo da acceleratore di evoluzioni troppo a lungo rimandate, che le nostre società, e le nostre economie, avessero raggiunto l’orlo della loro esistenza e che l’unica alternativa possibile fosse un salto collettivo di paradigma. Un mondo nuovo.
Ma, subito dopo quel grande spavento, in tanti hanno iniziato a ritenere che qualcuno potesse saltare per tutti, oppure che ognuno potesse farlo per conto di un altro. Conclusa la fase uno è arrivata, come era normale, la risacca. Il risultato è che ad oggi poco o niente è davvero cambiato e che ciò che tenta ineditamente di imporsi rischia di essere un buco nell’acqua perché non è sufficiente cambiare solo piccoli pezzi dell’ingranaggio, occorre una visione totale come nel calcio di Cruyff.
Bologna, un esempio su tutti, in queste settimane è al centro di un movimento tellurico caratterizzato da spinte uguali e contrarie che non permettono con assoluta certezza di capire in quale direzione stia andando la città che, tra l’altro, tra meno di un anno – e non è un caso – dovrà eleggere un nuovo consiglio comunale.
Consegne Etiche vs Uber
Da una parte, da ottobre, partiranno le cosiddette Consegne Etiche, una vera rivoluzione, “la prima piattaforma cooperativa di consegne e domicilio realizzata da fattorini pagati in modo degno”. Dall’altra Uber si sta preparando ad uno sbarco in grande stile: dopo aver fallito a Milano (dove si era messo di traverso il Tribunale, stabilendo che non si possa affidare il trasporto di persone ad autisti privi di licenza) l’azienda californiana punta dritto verso il capoluogo emiliano, che a breve potrebbe quindi diventare la prima città italiana ad usufruire del servizio.
Da una parte, dunque, un progetto di chiaro indirizzo politico (le consegne nascono su spinta della Fondazione per l’Innovazione Urbana del Comune) che tenterà di scardinare il monopolio delle grandi compagnie tecnologiche. Dall’altra, l’ennesimo tentativo delle stesse compagnie di accaparrarsi nuovi spazi di mercato, sacrificando ancora una volta diritti e lavoratori sull’altare del plusvalore.
Il problema è che, mentre la risposta alle Consegne Etiche appare abbastanza timida (per ora hanno aderito solo tre mercati rionali e due supermercati ma la rete commerciale è ancora tutta da costruire), i commenti alla notizia del probabile accordo tra Uber e Cosepuri (una coop che raccoglie 180 auto blu con conducenti autorizzati, grazie ai quali poter aggirare la sentenza di Milano) sono un tripudio di “evviva”, “era ora”, “finalmente”. Ostacolo non di poco conto, visto che, al tempo dell’economia della condivisione, il mercato è un grande social network e qualsiasi social network può definirsi tale solo ad una condizione: che sia in grado di mobilitare un numero incredibilmente alto di utenti. Sul quale, almeno per il momento, le neonate Consegne Etiche bolognesi ancora non possono contare.
Il caso Pizzabo.it
Ma questa è una storia che parte da lontano e, per comprenderne appieno contraddizioni e potenzialità, bisogna tornare per un attimo al 2009, quando proprio sotto le Due Torri uno studente di informatica inventa un dispositivo che permette ai locali di cibo da asporto di ricevere ordini in maniera veloce e automatica, bypassando le classiche telefonate. Si può dire che il food delivery italiano nasca qui e nasca così, su pizzabo.it, la protopiattaforma lanciata da un giovanissimo Christian Sarcuni che intuisce prima di chiunque altro che le abitudini alimentari stanno cambiando e che le persone preferiranno sempre più ordinare il cibo su Internet e consumarlo direttamente sul divano.
“Tornando a casa una sera – spiegò a Riccardo Luna in un’intervista del 2015 – vidi la cassetta della posta intasata di volantini: erano tutte offerte per la consegna di pizze a domicilio. Mi dissi: ci deve essere un modo migliore per farlo”. E così Sarcuni crea un portale dal quale possono essere facilmente consultati i menù di tutti i locali convenzionati: gli utenti passeranno semplicemente dalla carta al computer mentre gli esercenti riceveranno l’ordine in tempo reale senza dover rispondere ad ogni singola chiamata e soprattutto potranno indicare ai clienti precisi tempi di consegna.
È la svolta, anche se oggi qualcuno potrebbe pensare che si sia trattato di una trovata davvero banale. Di sicuro in quegli anni lo pensano in Regione Emilia-Romagna, dove la startup viene esclusa da un bando perché considerata “poco innovativa”. Eppure, nel 2010 Pizzabo gestisce 60mila ordini, che nel 2014 diventano quasi due milioni. E cioè diventa quella che in gergo viene definita un’azienda scalabile: cresce in modo esponenziale senza che all’aumento del volume d’affari corrisponda un impiego proporzionale di nuove risorse.
In altre parole? Macina soldi senza doverne spendere, è un’avanguardia dell’estrattivismo digitale con il quale faremo pesantemente i conti nel decennio successivo. È l’alba della quarta rivoluzione industriale che estrae valore dal capitale sociale (mettendo semplicemente in contatto domanda e offerta) ma fondamentalmente non ha costi di gestione, non ha sedi e appena una manciata di lavoratori alle proprie dipendenze.
È a questo punto, siamo agli inizi del 2015, che entra in scena la tedesca Rocket Internet che assorbe il cento per cento di Pizzabo per una cifra che, secondo fonti ufficiose, si aggira intorno ai 55 milioni di euro. Ma Sarcuni e il suo socio continueranno a gestire l’azienda assieme ai dipendenti storici. “Sei felice?”, gli domanda qualcuno all’epoca. “Sì, ma una cosa mi dispiace: che la nostra startup non sia più italiana”.
Ciò che Sarcuni ancora non sa è che quello che gli viene offerto su un piatto d’argento è solo l’antipasto e che, di lì a poco, dovrà ingoiare un boccone molto più amaro. Tempi di consegna: un anno. Nel 2016 l’azienda con sede a Berlino vende infatti Pizzabo alla londinese Just Eat per 125 milioni: l’ultima cena per Sarcuni e Co. è servita. Scriverà il fondatore: “Ci avevano fatto promesse ben diverse, non nascondo di essere profondamente amareggiato per quanto accaduto […]. L’azienda è stata rivenduta di soppiatto a Just Eat”. E cioè alla concorrenza. Meglio, al più diretto concorrente. Meglio ancora, alla più grande multinazionale del food delivery.
La Carta dei diritti de rider
E così, a distanza di dieci anni, di quel modello virtuoso e rivoluzionario restano solo le macerie: il mercato delle consegne a domicilio è diventato monopolio esclusivo della Silicon Valley, la cui economia si regge su condizioni di lavoro definite ottocentesche (si lavora a cottimo, saltuariamente e senza contratto). Perciò, sempre a Bologna, nel 2018, nasce il primo sindacato autonomo dei rider, che in pochi mesi riesce a strappare una “Carta dei diritti” all’amministrazione comunale, per la prima volta nel nostro Paese.
La carta si rivelerà essere un semplice documento d’intenti incapace di incidere realmente sul capitalismo di piattaforma – too big to fail – ma la pandemia ha rimescolato le carte in tavola e ancora una volta a Bologna – che in qualche modo dieci anni fa ha aperto la diga – si studia il modo di rinnovare il sistema delle consegne a domicilio e realizzare un modello che unisca innovazione ed eticità.
Nelle settimane del lockdown, mentre Just Eat, Uber Eats e Glovo aumentavano sensibilmente il loro fatturato, a Bologna decine di piccoli negozianti non riuscivano a rispondere alle richieste dei loro clienti, non potendo contare sullo stesso esercito di fattorini. In contemporanea quei fattorini venivano sottoposti dai colossi della ristorazione su due ruote a turni massacranti senza tutele, prima di tutto sanitarie.
Da qui l’idea di provare a mettere in contatto l’economia cittadina con i rider e mettere così fuori gioco le grandi multinazionali del cibo da asporto. I tempi sembrano finalmente maturi, la spinta pandemica al cambiamento e la tensione sociale verso nuove forme di condivisione pare possano essere sfruttati come leva dalla politica per imporre un salto di paradigma. Ma sarà così semplice come a parole appare?
Le incognite del progetto Consegne Etiche
Bisognerà intanto vedere se il progetto si rivelerà sostenibile anche da un punto di vista economico, oltre che morale e ambientale. Questo aspetto sarà intimamente legato alla capacità di coinvolgere i cittadini in una riforma culturale collettiva e non di nicchia: il rischio più concreto, allo stato attuale, è che un gran pezzo di città continui come sempre a rivolgersi a Just Eat e che alle Consegne Etiche non rimangano che le briciole, pagate però, da pochi, a peso d’oro.
Il secondo grande nodo da sciogliere riguarda la concezione stessa di Bologna: il luogo che ospita la più antica università d’Europa ambisce a diventare la città dei lavoretti? In caso contrario, appare obiettivamente sproporzionata la battaglia a tutela dei ciclofattorini – in larga parte universitari alla prima esperienza lavorativa -, laddove il salariato low cost e l’assenza di diritti e di contratti sono diventati endemici a qualsiasi settore, da quello educativo a quello dei servizi, coinvolgendo – come mai in passato – lavoratori istruiti che a differenza dei rider hanno ormai decenni di precariato alle spalle.
In terzo luogo, questa rivoluzione rischia di essere solo di facciata, se Bologna, più di altre città italiane, continuerà ad essere concepita, vissuta e utilizzata come un grande supermercato. Ad esempio, come verranno conciliate le Consegne Etiche con l’arrivo in città di Uber? E il mercato immobiliare continuerà a rimanere in ostaggio di Airbnb, con cantine affittate a cento euro a notte da imprenditori improvvisati che in questi anni sono sopravvissuti grazie ad una multinazionale americana?
Verso le elezioni comunali
Ecco perché l’avvio delle Consegne Etiche segna senza dubbio l’inizio della campagna elettorale per Bologna 2021. È un buon inizio, ma assolutamente non basta perché le contraddizioni da risolvere sotto le Due Torri sono enormi e sono tante. A cominciare dal fatto che perfino a Bologna le companies hanno potuto apparecchiare e banchettare allegramente per dieci anni. Perfino a Bologna, che aveva in sé tutti gli anticorpi per rimanere immune all’occupazione massiccia dei padroni del silicio, come Pizzabo aveva plasticamente dimostrato – prima di essere abbandonata a se stessa nel mare aperto del post-capitalismo, anche da una politica debole, miope e rinunciataria.
Guarda caso, gli anni in cui la città ha cambiato pelle in questo modo corrispondono perfettamente a quelli dell’amministrazione in scadenza. Considerata la tempistica, il cambio di passo che appena si intravede con il lancio delle Consegne Etiche non può essere casuale. E allora descrivere metaforicamente il progetto come una sfida tra Davide e Golia non appare realistico. Diciamo invece che Golia sta decidendo di tornare sui suoi passi per evitare che tra meno di dodici mesi, ancora una volta, il Davide – rappresentato in città dalla destra – possa far vacillare il vecchio e glorioso modello emiliano che per due lustri si è adeguato, come tutti, al “ciò che è mio è tuo”. Senza considerare che, invece, ciò che è di Just Eat finora è stato solo di Just Eat.
Leggi anche: 1. Airbnb, il caso Bologna: trovare casa è impossibile, così l’app ha ucciso il mercato degli affitti agli studenti / 2. TikTok, nella guerra di Trump alla Cina a vincere sarà la “dittatura digitale” della Silicon Valley