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Delia, la barista di Ventimiglia che apre il suo locale ai migranti: “Voglio che qui si sentano a casa”

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Delia, la barista di Ventimiglia che apre il suo locale ai migranti: “Voglio che qui si sentano a casa”

A Ventimiglia c’è un bar che sembra essere stato partorito dalla mente di un autore fantasy. Sarà per quel nome spudoratamente tolkeniano, “Hobbit”. Sarà perché ormai non siamo più abituati a storie come quella di Delia Buonomo, la sua proprietaria, in bilico perenne tra fiaba e realtà.

Tutto è cominciato quattro anni fa, nell’estate torrida del 2016, quando Delia vede seduti sul marciapiede fuori dal suo bar alcune mamme migranti insieme ai propri bimbi in lacrime.

“Piangevano per la stanchezza e perché chissà da quanto tempo non cambiavano il pannolino, ma nessuna delle donne osava entrare dentro, non potendo consumare. Così sono io andata da loro e gli ho detto che potevano usufruire dei bagni, sedersi all’ombra e riposare. Ricordo ancora il loro sorriso, persino un po’ confuso, spaesato. Probabilmente era la prima volta che qualcuno gli diceva una cosa del genere.”

Ancora Delia non lo sa, ma quel sorriso è l’inizio di una storia collettiva di umanità, solidarietà e accoglienza che ha pochi precedenti. Un neo bianco all’interno di una delle epoche più violente e inumane della storia recente, di cui in questi anni Ventimiglia è stato uno dei simboli più dolorosi. Già perché, 9 chilometri più a ovest del bar Hobbit, all’altezza dei Balzi rossi, c’è il confine francese, che a partire dall’estate 2015 è diventato una frontiera invalicabile per decine di migliaia di migranti. Siriani, afghani, senegalesi, nigeriani, eritrei, profughi di guerra o richiedenti asilo, non faceva alcuna differenza. Migliaia di persone in viaggio dal Medio-oriente o dall’Africa verso il centro e il nord Europa che, di colpo, sono stati respinti dal secondo più importante Stato europeo, fondatore della Comunità europea, nel cuore della civilissima Europa, come se gli accordi di Schengen fossero all’improvviso diventati carta straccia. In pochi riescono a passare rischiando la vita via monte o nascosti nei bagni dei treni. Tutti gli altri o finiscono per morire in qualche scarpata di notte, nei boschi, o vengono torturati e picchiati durante i respingimenti. Nel 2016, nel momento di massima pressione, passavano di qui fino a 1.000 migranti al giorno.

Delia capisce che non può più stare a guardare. Quel primo episodio innesca un passaparola rapidissimo tra gli stranieri in attesa, sospesi in un limbo dello spazio e del tempo che per alcuni di loro dura anni. Molti hanno sentito parlare di quella donna gentile che offre pasti caldi a chi non se lo può permettere. Delia, d’altra parte, sa riconoscere in un attimo lo sguardo di chi ha fame, di chi è solo, lontano dalle sue radici e dal luogo in cui è cresciuto. Anche lei, in un’altra vita, è stata una emigrante.

“Negli anni ’60 – racconta – quando l’Australia ha aperto le porte all’immigrazione a caccia di braccianti e nuova forza lavoro, i miei genitori hanno deciso di trasferirsi lì, a Melbourne. Siamo arrivati nel ’64 con un lungo viaggio in nave, a bordo della Galilei, e siamo ritornati in Italia nove anni più tardi, dopo che i miei avevano messo da parte un po’ di risparmi, che avevano reinvestito in un negozio a Ventimiglia, a cui poi ne sono seguiti altri. Ricordo benissimo il senso di spaesamento che ho provato quando siamo tornati in Italia. Eravamo partiti che avevo appena 3 anni e tutto quello che sapevo del mondo, la lingua, la scuola, gli amici, l’avevo conosciuto in Australia. Capivo l’italiano, ma non sapevo scriverlo. Ero abituata a mangiare in modo completamente diverso, la televisione non era la stessa. Perciò so cosa significa ritrovarsi in un luogo che non conosci, completamente strappati dalla propria terra, sradicata dal luogo in cui hai tutta la tua vita.”

Molti di loro, oltre alla propria terra, hanno lasciato dietro di sé anche la famiglia e si sono ritrovati respinti a una frontiera, trattati come ospiti non graditi, quotidianamente preda di insulti razzisti e della fame, per via di un’ordinanza comunale che impediva ai residenti di dare da mangiare ai migranti.

“A causa di quell’ordinanza inumana – ricorda Delia – ci siamo organizzati con alcune associazioni fornendo di nascosto interi sacchi di cibo e generi di prima necessità a un loro rappresentante, che a sua volta li distribuiva ai suoi compagni. Ma nel mio bar non ho mai negato da mangiare a nessuno che ne avesse bisogno e non lo farò mai.”

Negli ultimi quattro anni Delia ha visto passare dalle porte del suo bar migliaia di uomini, donne, bambini, rifugiati, vite violentate da botte, abusi, prigionie, respingimenti, spesso costretti a rimanere anni bloccati al confine senza accesso ad acqua potabile, cibo, servizi, un letto dove dormire. Ci sono ragazzi che qui hanno consumato il proprio ultimo pasto prima di prepararsi a scavalcare una cinta spinata e proseguire il proprio viaggio verso l’Europa. Delia ne ha ospitati così tanti in questi anni che tutti qui la conoscono come “Mamma Africa”. Ma non si è limitata a dare da bere e mangiare. Permette di ricaricare i cellulari, offre la possibilità di farsi una doccia, fornisce scarpe, vestiti, aiuta a decifrare documenti o a trovare un alloggio, ha attrezzato il bagno con spazzolini nuovi e dentifricio, un fasciatoio e pacchi di assorbenti, che costano molto e nessuna si può permettere. Ha persino ricavato in un angolo uno spazio da gioco solo per i bambini.

Quello di Delia non è un bar: è un angolo di resistenza in cui tutta la bellezza e l’umanità del mondo si sono date appuntamento. “Volevo che queste persone avessero uno spazio in cui sentirsi a casa, dopo l’inferno che hanno dovuto passare e prima di quello che ancora li attende – spiega – Chi ripete che vogliono venire qui a rubarci il lavoro letteralmente non sa di cosa parla. Nessuno di loro vuole rimanere. Sa, in questi quattro anni, in quanti hanno chiesto la residenza a Ventimiglia? Sette. Sette persone in quattro anni. Di cosa stiamo parlando? Spesso ci capita di lamentarci in coda al supermercato. Alcune di queste persone sono da 7 anni in attesa di una risposta, senza un tetto, senza un affetto, e l’unico pensiero che li fa andare avanti è quello della famiglia che hanno lasciato a casa. Sono arrivati qui con lo scopo di aiutare moglie e figli e si ritrovano respinti a una frontiera senza la possibilità di andare avanti, né di tornare indietro.”

Eppure il bar Hobbit da anni lotta per sopravvivere alla chiusura, tra costi d’affitto, spese, bollette e il boicottaggio continuo da parte dei residenti, che più di una volta hanno preso di mira la stessa Delia per aver osato aiutare gli ultimi tra gli ultimi. “Ma io non mollo” ha sempre detto lei. Non ha mollato neanche nel 2018, quando una straordinaria gara di solidarietà ha permesso a lei di raccogliere 20mila euro e al bar Hobbit di continuare a vivere.

Oggi la situazione è molto cambiata rispetto a qualche anno fa.

“Da un anno e mezzo a questa parte, in seguito agli accordi con la Libia e alla chiusura dei porti, l’afflusso si è molto ridotto – osserva Delia – In più da quando, un mese e mezzo fa, sono cominciati gli scioperi in Francia, le maglie della frontiera si sono molto allentate. Ufficialmente è sempre chiusa, ma è più facile oltrepassarla e sono terminati i respingimenti violenti. Ma, al di là dei numeri, le condizioni di queste persone sono sempre drammatiche, private della dignità di esseri umani. Questo bar sarà sempre casa loro, le porte sono sempre aperte.”

Si chiama bar Hobbit e no, non è un romanzo fantasy. Esiste davvero. È un luogo di frontiera, in cui le barriere non sono fisiche o reali, né tracciate su una carta geografica, ma separano soltanto l’umanità dalla barbarie.

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