AstraZeneca e trombosi: i rischi sono irrilevanti rispetto ai benefici
- Il vaccino AstraZeneca è un vaccino a vettore adenovirale
- Riduce in modo significativo il rischio di infezione sintomatica in tutti, giovani e anziani anche se probabilmente in misura inferiore rispetto a Pfizer e Moderna
- Protegge dal rischio di morte ed ospedalizzazione in modo straordinario, sia nei giovani che negli anziani, al pari di Pfizer e Moderna
- Protegge benissimo dal ceppo originario di SARS COV 2 e dalla variante inglese, oggi maggioritaria in Europa
- Non abbiamo ancora dati solidi su variante sudafricana e brasiliana
- Il vaccino AstraZeneca si associa probabilmente a casi molto rari di trombosi e piastrinopenia, soprattutto nelle donne giovani
- Nel contesto italiano, il rapporto rischio/beneficio del vaccino AstraZeneca è favorevole sempre, ma il vantaggio è tanto maggiore quanto maggiore è l’età del soggetto
AstraZeneca: tanti ne hanno parlato, ma spesso facendo solo grande confusione. Per questo ci vuole un po’ di chiarezza.
Cos’è il vaccino AstraZeneca
Il vaccino AstraZeneca contro Sars Cov-2 è un vaccino a vettore adenovirale (differentemente da Pfizer, Moderna e dal prossimo in arrivo Curevac che sono vaccini ad mRNA).
Ma che vuol dire vaccino a vettore adenovirale? Vuol dire che si basa sull’inoculo di un adenovirus non infettivo per l’uomo che contiene al suo interno l’informazione genetica per la sintesi della proteina Spike di Sars Cov-2. In pratica, quando questo adenovirus entra nelle nostre cellule, a partire dal genoma virale viene sintetizzata la proteina spike che viene poi riconosciuta dal sistema immunitario, il quale a quel punto è pronto per combattere contro il nemico vero, ovvero il virus.
Esattamente sullo stesso principio si basano il vaccino Johnson & Johnson, il vaccino russo Sputnik e il vaccino italiano Reithera. Quali sono le differenze? Astrazeneca prevede due somministrazioni dello stesso adenovirus a distanza di circa tre mesi, Johnson & Johnson prevede una sola dose, Sputnik si basa sulla somministrazione di due adenovirus diversi. Quanto a Reithera è ancora in una fase troppo iniziale di sperimentazione. Ne parlerò se e quando avremo dati solidi (per inciso: la Corte dei Conti, sul piano amministrativo-contabile ha bocciato il progetto di Invitalia e della casa farmaceutica di Castel Romano, impegnata nella produzione di questo vaccino made in Italy, ma questa è un’altra storia…).
Ad oggi tra i vaccini a vettore adenovirale sono stati approvati in Europa quello di Astrazeneca e quello di Johnson & Johnson. Non è ancora disponibile Sputnik e forse non lo avremo mai a disposizione (gli studi su questo vaccino hanno alcune criticità e ci sono alcune opacità nella messa a disposizione dei dati da parte degli sperimentatori, quindi non me la sento di esprimere giudizi definitivi).
Tra i due approvati, Johnson & Johnson è arrivato solo da qualche settimana, mentre AstraZeneca è stata già somministrato in milioni di dosi. Quindi ne sappiamo già molto. Vediamo che cosa ne sappiamo sia dai dati dei trial di fase III, ovvero dagli studi fatti prima dell’approvazione definitiva, che dai dati real life, cioè dai dati sulle persone vaccinate dopo l’approvazione.
I dati dei trial
Cominciamo col dire che i trial non sono stati condotti in modo perfetto. Perché lo dico? Perché nel trial erano stati per lo più arruolati pazienti under 65, il che è un po’ un assurdo considerando che il Sars Cov-2 uccide soprattutto gli anziani. Poi è stato fatto un secondo errore. Ad alcuni, la stragrande maggioranza, erano state somministrate due dosi come da protocollo, mentre ad una sparuta minoranza una dose e mezza. Inoltre, l’intervallo tra la prima e la seconda dose è stato molto variabile oscillando tra 3 e 23 settimane (nell’86 per cento dei casi, l’intervallo era stato 4-12 settimane). Non proprio il massimo.
Che cosa è venuto fuori dal trial? Che il vaccino alla dose standard riduceva di circa il 60 per cento il rischio di infezione sintomatica rispetto al placebo, ovvero, dati due gruppi della medesima numerosità di cui uno ha preso il vaccino e uno il placebo, ogni 140 infetti, 100 erano del gruppo placebo e 40 del gruppo vaccino. Risultato buono ma non eccezionale soprattutto se paragonato al 90-95 per cento di protezione offerto dai vaccini ad mRNA Pfizer e Moderna. AstraZeneca si affrettò a dichiarare che, considerando il gruppo vaccinato per errore con una dose e mezza anziché con due dosi, la protezione arrivava al 90 per cento. Ma su quel dato ci si può fare un affidamento molto relativo visto le dimensioni ridottissime del campione. Tanto è vero che l’EMA, cioè l’agenzia europea del farmaco, ha approvato il vaccino alla posologia standard, ovvero 2 dosi, non considerando come solidi i dati relativi alla posologia di una dose e mezza.
Ricapitolando: alla posologia prevista dal protocollo, cioè 2 dosi piene, il trial di fase III ha mostrato un’efficacia del vaccino AstraZeneca nel ridurre l’infezione sintomatica di circa il 60 per cento. Dato buono ma inferiore rispetto al 90-95 per cento di Pfizer e Moderna (fermo restando che le comparazioni indirette tra farmaci vanno fatte sempre con grande cautela, soprattutto se le popolazioni arruolate negli studi sono disomogenee).
In ogni caso va detto che il dato della protezione dall’infezione tout court – seppur importante – è secondario rispetto al dato sulla protezione dal rischio di morte e ospedalizzazione. Questo perché la malattia Covid-19 è fastidiosa sempre e non va banalizzata mai, ma fintanto che risulta gestibile a casa ci dà una preoccupazione relativa. Il problema si pone per lo più quando manda le persone in ospedale e in terapia intensiva spesso sottraendo posti a malati di altre malattie o, peggio ancora, quando manda le persone al cimitero. Ebbene, rispetto al rischio di morte o ospedalizzazione il vaccino AstraZeneca si è mostrato sin dal trial estremamente efficace, fornendo una protezione del 100 per cento, esattamente quanto i due più blasonati Pfizer e Moderna.
Quanto alla sicurezza, dal trial non erano emerse particolari criticità. Il vaccino era in generale ben tollerato e gli effetti avversi per lo più lievi e transitori (cefalea, febbre, nausea, dolore nel sito di iniezione, stanchezza). In particolare, non erano emerse criticità rispetto ai casi di trombosi poi balzati agli onori della cronaca. Quindi, in definitiva, i trial ci hanno indicato che quello di AstraZeneca è un vaccino complessivamente efficace e sicuro, almeno per la popolazione under 65. Da qui il via libera di EMA.
Il problema qual era all’inizio? Che a differenza di Pfizer e Moderna per AstraZeneca i dati dei trial sugli over 65 erano scarsi. Per questo inizialmente in Europa con AstraZeneca sono stati vaccinati soprattutto gli under 65. In Italia ad esempio l’AIFA (cioè l’Agenzia Italiana del Farmaco) non aveva dato l’ok per gli over 65. Io personalmente allora ho appoggiato quella decisione perché pur ritenendo verosimile un’efficacia analoga nella popolazione giovane ed anziana ho sempre pensato che bisogna rispettare il metodo scientifico e le cose, anche se appaiono ragionevoli, vanno dimostrate. Quindi, il fatto che all’inizio siano stati vaccinati per lo più giovani con AstraZeneca non è colpa del governo Conte o del governo Draghi. Nasce dalle regole AIFA che a loro volta hanno dovuto prendere atto dei dati del trial. Punto. Se vogliamo trovare un colpevole è chi ha disegnato e realizzato quello studio un po’ sgangherato.
I dati real life
Che cosa è successo poi? Il Regno Unito, forzando un po’ le regole del metodo scientifico, ha esteso sin da subito la vaccinazione agli anziani, pur in assenza di dati solidi. È stata una scelta azzardata e scientificamente scorretta, ma alla prova dei fatti vincente (il che non significa che sia giusto in generale comportarsi così: andare ad occhio nella scienza può dare risultati buoni oppure cattivi, dipende dal caso; seguire il metodo non fa sbagliare mai: qui semplicemente il caso è stato dalla parte degli inglesi!).
Comunque sta di fatto che dai dati real life ormai sappiamo che il vaccino AstraZeneca si è dimostrato estremamente efficace rispetto ai parametri più importanti, ovvero rischio di morte e ospedalizzazione, anche nella popolazione anziana. In particolare, in uno studio relativo alla popolazione scozzese e pubblicato su Lancet, su una popolazione di 1 milione e 331.993 persone di età media 65 anni (di cui circa il 49 per cento appartenente alla fascia 65-79 e il 16 per cento alla fascia over 80), rispetto al rischio di ospedalizzazione, le prestazioni di una singola dose di AstraZeneca sono stati mostruosamente buone e sovrapponibili a quelle di una singola dose di Pfizer: 88 per cento e 91 per cento di riduzione del rischio di ospedalizzazione per AstraZeneca e Pfizer, rispettivamente.
Quindi alla fine i dati real life – che sono quelli di gran lunga più importanti – ci hanno detto che il vaccino di AstraZeneca funziona splendidamente pure negli anziani. E stando a quanto dichiarato da AstraZeneca queste sarebbero le indicazioni provenienti pure dall’interim analysis (cioè dall’analisi fatta in corso d’opera) del trial che si sta conducendo negli Usa, dove, a differenza dei trial autorizzativi europei, sono stati arruolati anche numerosi anziani (ma su questo aspettiamo la pubblicazione dei risultati definitivi).
AstraZeneca e le varianti
Quindi fin qui tutto bene. Il vaccino è risultato straordinariamente efficace rispetto al rischio morte e ospedalizzazione in tutti, giovani e anziani. E questo è vero sia per il ceppo originario sia (seppure in misura leggermente minore) anche per la famosa variante inglese (tecnicamente variante B.1.1.7), come dimostrato da un altro recente studio pubblicato su Lancet. Non abbiamo invece dati solidi su variante brasiliana (variante P.1) e sudafricana (variante B 1.351). O meglio sappiamo che AstraZeneca offre purtroppo una protezione bassissima rispetto ai casi lievi di variante sudafricana (intorno al 10 per cento), ma non sappiamo nulla sulla protezione dai casi gravi.
Si tenga comunque conto che da dati preliminari queste due varianti riducono un po’ l’efficacia di tutti i vaccini, non solo di AstraZeneca, ma non al punto da renderli completamente inefficaci rispetto al rischio di morte e ospedalizzazione (su questo però – è bene specificarlo – sono stati già pubblicati dati solidi e molto buoni soprattutto su Pfizer, mancano invece dati pubblicati per AstraZeneca). Va poi detto che le varianti sudafricana e brasiliana non risultano ad oggi né più letali né più contagiose del ceppo originario. E restano assolutamente minoritarie in Europa. Quindi non sottovalutiamole assolutamente, ma per ora niente panico.
Insomma, riassumendo: sulla base dei dati real life, il vaccino AstraZeneca, pur lungi dall’essere perfetto, alla prova dei fatti si è dimostrato un ottimo vaccino e un’arma molto utile nella lotta al Covid.
Il rischio di trombosi: dove sta la verità
Poi però è venuto fuori un problema, di cui avrete sicuramente sentito tanto parlare: il problema delle trombosi. Cerchiamo di capire cosa c’è di vero e cosa no. In generale è certo che AstraZeneca non fa aumentare globalmente il rischio di trombosi come qualcuno inizialmente aveva suggerito. E di questo siamo sicuri.
Quello che è venuto fuori e che ha suscitato il panico è il legame possibile (direi pure probabile) tra il vaccino e casi molto rari (meno di uno su 200mila vaccinati) di trombosi in sede atipica, soprattutto in sede cerebrale, associati a piastrinopenia (che vuol dire riduzione del numero di piastrine nel sangue). E ciò si è verificato pressoché solo nella popolazione under 60 e soprattutto tra le donne. Si tenga conto, tra l’altro, che le donne under 60 sono la popolazione più a rischio di trombosi venosa cerebrale indipendentemente dal vaccino. Insomma: legame probabile sì, ma solo in casi rarissimi.
Cosa sia alla base di questo fenomeno ancora non è completamente chiaro, ma un gruppo di scienziati tedeschi ha trovato indizi che paiono solidi (raccolti in un lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine) a favore di un meccanismo immunologico tale per cui, in soggetti predisposti, il vaccino AstraZeneca indurrebbe la produzione di anticorpi contro un antigene piastrinico chiamato PF4, causando piastrinopenia da un lato, e trombosi dall’altro: in pratica, secondo questi ricercatori, questi anticorpi attiverebbero meccanismi immunologici che portano all’aggregazione piastrinica e quindi a trombosi.
È interessante notare che ci sono segnalazioni analoghe (ancora in numero bassissimo) per l’altro vaccino anti Sars Cov-2 a vettore adenovirale approvato in Europa, quello di Johnson & Johnson. E – cosa ancora più interessante – lo stesso meccanismo è implicato anche in una forma molto rara di piastrinopenia indotta da eparina (un famosissimo farmaco anticoagulante, di cui senz’altro torneremo a parlare), per cui esistono delle strategie terapeutiche (anche se con dati limitati). Si può pertanto ipotizzare che, se troveremo conferme a favore del ruolo degli anticorpi anti PF4 nei casi di trombosi + piastrinopenia associati a vaccini a vettore adenovirale (così come per quelle da eparina), potremo forse imparare presto a gestire anche questo rarissimo ma assai pericoloso effetto collaterale.
Rapporto rischio/benefici
Sulla base di segnalazioni di trombosi associate a piastrinopenia, molti Paesi hanno limitato l’uso del vaccino AstraZeneca negli under 55 e addirittura la Danimarca l’ha proibito in tutti. Ecco fermiamoci un attimo qui. Ha senso questo stop? Qui le opinioni tra gli esperti sono diverse. Io vi invito ad essere razionali e a seguirmi nel ragionamento.
Probabilmente AstraZeneca fa aumentare un po’ il rischio di trombosi in sede atipica, soprattutto in sede cerebrale nella popolazione under 55, ma almeno nella fascia di età 40-60 anni, stando ai dati relativi al nostro Paese, il beneficio appare comunque significativamente maggiore del rischio. Vi spiego perché.
Al 28 aprile 2021, nel nostro Paese, su circa 4 milioni e 20mila persone infettate da Covid 19, 1.312 persone under 50 sono decedute per questa malattia. Fate attenzione: 1.312 solo in Italia. Rappresentano circa l’1 per cento dei morti di Covid.
D’altro canto, al 27 aprile 2021, nel nostro Paese, sono stati segnalati 34 casi totali di trombosi (trombosi venosa cerebrale e trombosi in altra sede atipica, non tutti necessariamente fatali), 2/3 dei quali tra donne (età media 48 anni), su 4 milioni di vaccinati con Astra Zeneca. Ripeto: 34 casi di trombosi (non tutti fatali, anche se i dati AIFA non fanno chiarezza su quanti siano i morti per questi effetti avversi) su 4 milioni di vaccinati, la gran parte nella popolazione under 60, a fronte di 1.312 morti under 50 su circa 4 milioni di infetti registrati per Covid 19. Il rapporto costo-beneficio insomma, anche solo ad occhio, già da questi dati globali, almeno nel contesto italiano, pare favorevole.
Ma per fare un calcolo preciso è bene, ovviamente, non andare ad occhio, ma scorporare i dati per fasce d’età e confrontare con rigore scientifico il rischio di finire in ospedale, finire in terapia intensiva e di morire per Covid, rispetto al rischio di avere una trombosi per il vaccino.
Recentemente uno splendido studio dell’EMA si è posto proprio questo obiettivo. Gli scienziati dell’EMA per fare le cose fatte bene hanno considerato tre scenari: alta circolazione virale, media circolazione virale e bassa circolazione virale. Questo è quanto è venuto fuori dallo studio.
In un contesto di alta circolazione virale (incidenza 886 casi/100mila abitanti/mese) nella fascia d’età 40-49, si può stimare che il vaccino prevenga 122 ospedalizzazioni per Covid e produca 2.1 casi di trombosi con piastrinopenia; nella fascia d’età 50-59 previene 208 casi di ospedalizzazioni e produce 1.1 casi di trombosi.
In un contesto a media circolazione quale è quello attuale nel nostro Paese (incidenza circa 400 casi/100 mila abitanti/mese), nella fascia d’età 40-49 il vaccino previene 81 ospedalizzazione a fronte di 2.1 casi di trombosi, nella fascia 50-59 il rapporto ospedalizzazioni evitate/casi di trombosi è 114 a 1.1.
Rispetto al rischio di finire in terapia intensiva, in un contesto ad alta circolazione virale, nella fascia d’età 40-49, il rapporto casi di ricovero evitati /casi di trombosi è 15 a 2.1, nella fascia 50-59 il rapporto è 28 a 1.1. In un contesto a media circolazione, il rapporto nella fascia d’età 40-49 e 50-59 è rispettivamente 10 a 2.1 e 15 a 1.1.
Arriviamo infine a confrontare il rischio di morte per Covid rispetto al rischio di trombosi e concentriamoci sempre sulle fasce d’età 40-49 e 50-59. Ebbene, in un contesto ad alta circolazione, nella fascia d’età 40-49 il rapporto è 10 a 2.1, mentre nella fascia 50-59 è 14 a 1.1.
Vediamo in un contesto a media circolazione, come il nostro: nella fascia 40-49 anni, il rapporto è 7 a 2.1 (oltre il triplo del rischio di morte rispetto al rischio di trombosi), mentre nella fascia 50-59 la proporzione è 8 a 1.1 (rischio di morte circa 8 volte maggiore del rischio di trombosi). Nella fascia però 30-39 anni, il rischio di morte per Covid e il rischio di trombosi appaiono grosso modo sovrapponibili (mentre resta favorevole il rapporto rischio/beneficio rispetto all’ospedalizzazione in generale e al rischio di ricovero in terapia intensiva).
Se vediamo il rapporto rischio/beneficio nei contesti a bassa circolazione virale, come quello danese, il rapporto rischio beneficio nella fascia 40-49 e 50-59 resta favorevole rispetto al rischio di ospedalizzazione, ma non si apprezzano più vantaggi rispetto al rischio di ricovero in terapia intensiva e di morte.
Insomma: alla domanda se il rapporto rischio/beneficio del vaccino AstraZeneca è favorevole o no, la risposta giusta è: dipende. Dipende da cosa? Dall’età del soggetto e dal livello di circolazione virale. In particolare, in un contesto ad alta e media circolazione virale, il rapporto è favorevole sempre almeno nella fascia over 40. In un contesto a bassa circolazione virale (incidenza di 55 casi/100 mila abitanti/mese), è chiaramente favorevole solo nella popolazione anziana (over 60), mentre nella popolazione under 60 le cose cambiano: in particolare, i benefici e i rischi sembrano equivalersi nella fascia 40-60, mentre il rapporto rischio/beneficio appare chiaramente sfavorevole nella fascia d’età under 40. Pertanto, nei paesi a bassa circolazione virale come la Danimarca, è sicuramente insensato bloccare AstraZeneca in tutti, mentre, in quel contesto, può essere ragionevole evitare il vaccino nella popolazione con meno di 60 anni.
Con riferimento particolare al nostro Paese, alle attuali condizioni, se si appartiene alla fascia 40-49, il rischio di beccarsi il Covid in Italia e morire è oltre 3 volte maggiore del rischio di sviluppare una trombosi (che, si badi bene, non porta necessariamente a morte) dopo il vaccino. Questo rapporto diventa 8 a 1 a favore del vaccino nella fascia d’età 50-59. Il rapporto rischio/beneficio è invece meno buono nella fascia under 40, ma resta comunque favorevole (almeno rispetto al rischio ospedalizzazione e ricovero in terapia intensiva, mentre non c’è più un chiaro vantaggio rispetto al rischio di morte). Per cui, sulla base dello studio EMA, in Italia, ad oggi, stante l’attuale circolazione virale, non è assolutamente accettabile uno stop di AstraZeneca nella popolazione con più di 40 anni, mentre pur mantenendo un profilo di rischio ancora favorevole, il rapporto rischio/beneficio del vaccino tende progressivamente a calare nella fascia 30-39 e in misura ancora più marcata nella fascia 20-29 (per cui può essere ragionevole evitare il vaccino Astra Zeneca in presenza di alternative vaccinali valide).
Riassumendo: il rapporto rischio/beneficio del vaccino AstraZeneca è tanto maggiore quanto più sei anziano e quanto più, nel contesto in cui ti trovi, la circolazione virale è alta.
Ultimi sviluppi
Come probabilmente sapete, l’Unione Europea non ha rinnovato l’accordo con AstraZeneca, ma non per primarie ragioni scientifiche, ma perché AstraZeneca non ha certo brillato nei primi mesi di vaccinazione per rispetto degli obblighi contrattuali relativi alle tempistiche di forniture. Comunque non c’è da temere: ci sono fiale sufficienti per garantire il richiamo a tutti coloro che hanno ricevuto la prima dose.
E per quanto riguarda il rischio di trombosi, sulla base dei dati che abbiamo, chi non ha avuto effetti avversi gravi dopo la prima dose, a detta delle agenzie regolatorie, non ha motivo di preoccuparsi per la seconda dose. Questo ovviamente non va inteso come: il rischio del richiamo è zero, ma che, per quanto ne sappiamo finora, il rischio è minuscolo (ancora più basso, di quello, già molto piccolo, che si ha al momento della prima dose). Del resto, se ci pensiamo bene, in medicina e nella vita, il rischio zero semplicemente non esiste.
*** Questo articolo fa parte della rubrica di TPI “Parole chiare in medicina” tenuta dal medico neurologo dell’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) Leonardo Biscetti. Apparentemente sul Covid gli scienziati dicono tutto e il contrario di tutto. Vi faremo capire che la scienza non è un’opinione. Vi spiegheremo i dati e gli studi più recenti sulla pandemia. E non solo.