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Home » Cronaca

“La politica dia regole certe sugli appalti, o in Italia non sbloccheremo mai le opere pubbliche”

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Intervista a Michele Corradino, presidente di sezione del Consiglio di Stato ed ex commissario dell'Anac, autore del libro "L'Italia immobile"

Un mercato degli appalti vivo, con gare che vengono bandite e aggiudicate. Ma che, in molti casi, non si trasformano in opere pubbliche. Perché qualcosa si inceppa, perché la legislazione e la burocrazia si mettono di traverso. Nel suo ultimo libro “L’Italia immobile“, edito da Chiarelettere, Michele Corradino, presidente di sezione del Consiglio di Stato ed ex commissario dell’Anac, analizza tutte le falle nel sistema italiano degli appalti, individuando i nodi più complessi e fornendo possibili soluzioni per cambiare l’approccio della politica sul tema. TPI lo ha intervistato per capire perché in Italia la realizzazione delle opere pubbliche sconti sempre un’eccessiva lentezza e sia vittima dei bizantinismi del sistema.

Partiamo dal titolo del suo libro, “L’Italia immobile”. Perché il nostro Paese può essere definito così?

Il libro nasce da una riflessione maturata durante il mio periodo trascorso in Anac. Per anni ho cercato di capire per quali ragioni si fermassero gli appalti nel nostro Paese. Studiando la materia, mi sono reso conto che si tratta delle stesse ragioni per le quali la burocrazia italiana non riesce ad accompagnare il Paese in un reale processo di sviluppo.

Dov’è che il meccanismo degli appalti si inceppa?

C’è una forte responsabilità della politica, che ha portato in questi anni a una legislazione farraginosa, troppo mutevole. Il vecchio codice degli appalti era stato cambiato 223 volte in nove anni. Nel 2016 è stato fatto un nuovo codice: e anche stavolta, abbiamo assistito a più di 140 modifiche in quattro anni. Questo continuo cambiamento confonde operatori, pubbliche amministrazioni e imprese, che non riescono a programmare le loro attività.

C’è poi un problema ancora più profondo: in Italia oscilliamo costantemente tra due grandi poli, quello della semplificazione e quello della prevenzione della corruzione. In alcuni momenti il sistema viene inasprito, in altri c’è una semplificazione estrema. In mezzo troviamo una legislazione che interviene sempre sulle procedure delle gare di appalto, trascurando le altre fasi: programmazione, progettazione ed esecuzione. Risultato: gli appalti in Italia in teoria corrono, nel senso che vengono effettivamente assegnati. Se poi però andiamo per le strade, i cantieri non li vediamo.

In questo scenario che funzione ha avuto l’Anac e come è riuscita, se ci è riuscita, a modificare le procedure esistenti in materia di appalti?

L’Anac purtroppo non ha avuto tutti gli strumenti per poter agire direttamente sul mercato. Nel mio libro l’ho definita “la tigre di carta”. Può impugnare le gare di appalto se irregolari, ma è un potere che viene usato solo in alcuni casi eclatanti. Per il resto, l’unico vero potere dell’Anac è affermare che in una gara di appalto è stata commessa un’illegittimità. Ma tale affermazione non comporta l’obbligo da parte della pubblica amministrazione di fermarsi e tornare indietro.

A fronte di queste limitazioni, va comunque detto che all’Anac si sono sviluppate prassi importanti, come quella della vigilanza collaborativa, in cui l’autorità accompagna le pubbliche amministrazioni in un percorso di legalità. Questa è una storia di successo: l’Ocse, infatti, ne ha fatto una best practice mondiale.

Le responsabilità in materia di appalti, insomma, sembrano fare capo in particolare alla politica.

La politica deve sicuramente recuperare uno spazio importante. Serve una legislazione di qualità, che dica alle pubbliche amministrazioni e alle imprese cosa fare, e in maniera stabile. Siamo tradizionalmente abituati a pensare alle gare in termini di lavori pubblici. Ma gli appalti non sono solo cantieri, sono anche servizi, forniture. La criminalità se n’è accorta, il legislatore no. I dati ci dicono che la criminalità attacca soprattutto i settori della sanità e dei rifiuti, quelli in cui il ricorso agli appalti è più massiccio.

Il decreto Semplificazioni ha migliorato la situazione?

Si tratta di un decreto giusto in linea di principio. Specie in tempo di Covid, abbiamo bisogno di gare che siano più semplici. Tuttavia, vi troviamo scritto che in ogni materia si può andare in deroga ad ogni norma di legge. Qui c’è un evidente punto di crisi dell’intero sistema.

Il modello del Ponte di Genova viene spesso citato come esempio virtuoso di rapidità ed efficienza. Risponde però, evidentemente, a una logica emergenziale. Lo ritiene replicabile ad altre opere pubbliche o si basa su presupposti troppo diversi rispetto a quelli di una normativa “standard”?

Il Ponte di Genova è una storia di successo, da cui trarre sicuramente degli insegnamenti. Non dobbiamo però dimenticare che la gara è fatta di varie fasi: programmazione, progettazione, gara ed esecuzione. La programmazione a Genova era già fatta: tutto il Paese era d’accordo sul fatto che andasse ricostruito il ponte. Sulla progettazione, è stata praticamente regalata. Quanto all’esecuzione, si è lavorato giorno e notte. C’era un afflato particolare per la realizzazione di quest’opera. Il modello commissariale non è sbagliato in sé, ma può essere usato solo in riferimento ad alcune opere pubbliche, quando è necessario sbloccare determinate procedure, se c’è una particolare urgenza. Non se ne può fare certo un modello generalizzato.

Quello che al momento sappiamo è che gli appalti in Italia non sono affatto crollati. Questa idea diffusa di una crisi e di un blocco degli appalti a volte costituisce un alibi per abbassare il livello di garanzie. Chiediamoci semmai perché non riusciamo a passare dal’aggiudicazione delle gare alla fase dell’esecuzione. Solo ponendoci questa domanda possiamo trovare delle soluzioni più strutturali e di lungo periodo.

Leggi anche: Appalti pubblici, cosa prevede il Decreto Semplificazioni

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