Milano, Pronto soccorso affollato al Sacco: “Mio padre è morto dopo aver atteso 26 ore su una barella in corridoio”
Ci sono volute 26 ore prima che nell’Ospedale Sacco di Milano si liberasse un posto nel reparto Malattia infettive per ospitare un 87enne, Antonio Paladini, giunto al pronto soccorso il giorno prima e rimasto in attesa per tutto quel tempo su una barella in corridoio.
È entrato in reparto in fin di vita dopo essere arrivato nella struttura in ambulanza con un processo infiammatorio in corso: è morto poco dopo.
A darne notizia il figlio Luca Paladini, attivista Lgbt e fondatore dell’associazione dei Sentinelli. “Io vorrei tanto non buttarci i fatti miei dentro questa campagna elettorale ma da ieri faccio ancora più fatica – si legge sulla sua pagina Facebook – sono 25 ore che mio padre è un lettino di un PS in uno degli ospedali pubblici più conosciuti di Milano. Ottantasette anni, fragilissimo, con una quantità di patologie infinita, incapace di poter raccontare il suo stato per la demenza senile e lasciato in una corsia di un Pronto soccorso perché non ci sono posti”.
Gli è stato suggerito di “andare a casa”, ma dopo una serie di chiamate a vuoto è tornato il giorno dopo insistendo per vederlo. “Me lo sono ritrovato in mezzo a una fila di barelle che correva lungo tre corridoi, era irriconoscibile rispetto a quando l’avevo portato: praticamente un cadavere. A quel punto ho fermato una infermiera, poi un’altra, e me l’hanno spostato, dopo molte insistenze in altra area del Pronto soccorso, quella per le emergenze, dove era molto più monitorato. Io non so se in quelle 26 ore sia stato abbandonato a se stesso, so solo che alla sera me l’hanno spostato nel reparto infettivi e lì è morto. Ma in quel buco di 26 ore che cosa è successo? Parlatemi ancora di eccellenza della sanità lombarda e esco matto sul serio”.
Per Luca Paladini il Covid “non ha generato nessun tipo di azione per rinforzare i Pronto soccorso: “Il personale, pur facendosi in quattro, non basta a far fronte a tutte le urgenze. Le Case di comunità non sono mai veramente entrate in funzione, sono scatole vuote. I medici di base sono costretti a fare i burocrati con 1.800 pazienti a testa, possono solo dare ricette, passare carte. È tutto il modello sanitario di Regione Lombardia che non funziona”.