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“Ero finita in un luogo di disperazione, ora ho ricominciato a vivere”: Isatu dall’ex penicillina torna a casa | VIDEO

 

In una via stretta adiacente alla Cassia, dove Roma finisce quasi, Isatu ha ricominciato a vivere. Aveva smesso due anni fa, quando quella stessa casa in cui oggi rinasce le era stata tolta. Era stato l’inizio del tracollo, quando la disperazione era arrivata lenta, si era aggrappata alla ossa e l’aveva portata porta giù.

Giù, in fondo, fino alla Tiburtina. Da un capo all’altro della città, dove la fine prendeva i connotati dell’ex fabbrica Penicillina, lo stabile occupato dagli ultimi e dalla disperazione.

A novembre Isatu aveva preso coraggio e alla conferenza stampa degli abitanti dello stabile aveva fatto del megafono la cassa di risonanza dei suoi problemi e di quelli che con lei condividevano quella sorte e davanti ai giornalisti – i veri stranieri – aveva raccontato l’atrocità di quel posto.

Oggi Isatu ha dieci anni in meno. Dieci anni in meno di tristezza negli occhi e un sorriso bianco che è tornato sul suo volto con la prepotenza di chi vuole riprendersi tutto quello che gli spetta. TPI l’aveva intervistata allora e oggi la incontra di nuovo, a sette mesi dallo sgombero dell’ex fabbrica di via Tiburtina 1040.

Bisogna scendere delle scalette ripide prima di arrivare a casa di Isatu. Ad accogliere chi arriva, dei vasi disposti in maniera precisa che si alternano a materassi accatastati alle pareti di pietra.

“Questo è un avocado, arriva dalla Sierra Leone”, dice Isatu mentre sorride, accarezza le foglie grandi e ripensa alla sua terra. Sorride ancora e si scioglie in un abbraccio forte, potente, che racchiude tutta la storia di riscatto che ha da raccontare.

Prima di entrare in casa, si scusa piano per il disordine, abbassa gli occhi e spinge la porta. Dentro la luce è fioca, i divani color crema sistemati al centro del salottino sono l’unico spazio libero. Intorno c’è tutta la vita di Isatu, fatta di scatoloni ricolmi di tutto: vestiti, soprammobili minuscoli, specchi e quadri appesi alle pareti fitte dei ricordi impressi nelle foto.

“Guarda come ero bella qui, quando Isatu era giovane”, dice mentre si rispecchia negli occhi di venti anni prima. “Questo è il mio bambino a sei mesi, questo il mio ex marito e questa sono io mentre torno in Sierra Leone”, dice lenta, mentre incespica piano sulle consonanti più forti di una lingua che non è la sua, ma che ha imparato ad apprezzare.


Isatu affonda nella pelle morbida del divano e le parole scivolano fuori in un fiume in piena che abbraccia il dramma e la rinascita insieme.

“Quando mi hanno tolto la casa, avrei potuto affittare una camera, ma ho seguito i consigli sbagliati e sono finita lì”. “Lì” è l’ex Penicillina, il mostro di cemento e amianto in fondo alla Tiburtina, che per anni è stato luogo di rifugio e disperazione, ma anche di condivisione, disciplina e resistenza, persino armonia nel dramma generale di un destino che sorride poco.

“Avevo un po’ di soldi con me, avrei dovuto andarmene da là, invece sono rimasta”. Ha toccato il fondo e l’ha scavato, all’ex Penicillina, dove la sua vita si mischiava a quella di tanti altri dimenticati.

Isatu faceva parte di quella schiera di inquilini del mostro della Tiburtina che prima di arrivare lì aveva una vita degna di essere chiamata tale. Isatu aveva un lavoro, aveva una famiglia a supportarla, aveva una casa sua. Abitava in Italia dal 1993, quando era arrivata con un volo diretto dalla Sierra Leone insieme allo zio, che a Roma lavorava all’ambasciata di Spagna. “Siamo arrivati in 17, mio zio ci ha portati qui. Noi, il mare, non l’abbiamo mai conosciuto come lo conosce chi arriva oggi”, dice mentre si sente benedetta per questo.

Isatu non era una disperata prima di conoscere la disperazione dell’ex Penicillina. L’ex Penicillina è stata la sua discesa agli Inferi. Lì conoscerà la miseria umana, lì conoscerà la solitudine e l’abbandono. Lì conoscerà le botte di un compagno dipendente dalla cocaina, amore e croce di un’esistenza in cui ci si aggrappa a vicenda per restare a galla. Ma l’ex Penicillina è un buco nero che mangia la vita e l’unica strada possibile è quella che porta giù, sempre più giù.

Isatu ha vissuto da aprile fino a dicembre in quel quadrato di rifiuti e degrado. È qui che ha incrociato lo sguardo di Patrizia. I loro occhi si assomigliano, scuri e luminosi insieme, oggi. Patrizia Sterpetti arrivava all’ex fabbrica con cadenza regolare. Antropologa culturale e presidente della Wilpf (Women’s international league for peace and freedom), Patrizia andava all’ex Penicillina a salvare i disperati, anche se non lo sapeva.

E così è stato con Isatu: “L’ho capito subito che era una donna forte”. L’ha seguita, l’ha presa per mano e l’ha accompagnata fuori da là. Le gambe, però, erano quelle di Isatu, che ha fatto tutta la strada per la risalita dagli Inferi con le sue sole forze.

Accanto a Patrizia, Isatu annuisce e sorride. Sorride sempre. Anche quando racconta l’infelicità di quei mesi, sorride. “La vita fa su e giù”, dice con una delicatezza che spezza dentro.

“Quando la banca mi ha chiamato, ero felicissima”. La casa che le era stata tolta, tornava sua. Almeno fino alla prossima asta, quando Isatu spera di riscattarla in qualche modo.

“Quando io e il mio ex marito l’abbiamo acquistata, abbiamo speso tanto per rimetterla a posto. Abbiamo fatto un mutuo, pagavo 650 euro al mese. Poi non ce l’ho fatta più”. Tornare oggi in quella casa significa ricominciare. “Sono finita all’ex Penicillina perché in testa avevo tanta confusione”, ripete come a giustificarsi per un errore che non riesce a perdonarsi. Solo adesso che è tornata a casa, Isatu sta ritrovando la serenità. Rimette ordine nella sua casa e nella sua testa e riparte.

“Vorrei un magazzino dove spostare tutte queste cose che non mi servono più. Devo fare spazio”, dice guardandosi intorno e poggiando lo sguardo sui pezzi della vecchia vita che si fondono con quelli della nuova. Lo spazio lo deve fare anche e soprattutto dentro di sé, seppellire i mesi di sofferenza trascorsi all’ex Penicillina sotto i ricordi felici della sua nuova vita.

Seduta su quel divano Isatu rilegge il suo curriculum insieme a Patrizia. “Ho fatto la badante, ho lavorato come cameriera e come domestica in Italia, ma in Sierra Leone ho avuto ruoli di responsabilità nell’amministrazione. Ora mi va bene qualsiasi lavoro, sono pronta a fare qualsiasi cosa”, continua rivolgendosi a Patrizia, che la aiuta nella ricerca del lavoro: “Io per lei ho pensato a un lavoro di receptionist, ci sa fare con il contatto con il pubblico, dovremmo sfruttare questa sua capacità, anche perché per i lavori che ha fatto in passato ha un piglio sicuro e la mentalità imprenditoriale”, insiste con la voce dolce di chi fa della cura dell’altro la propria missione.

abitante ex penicillina storia
Isatu e Patrizia

“Se dovessi esprimere un desiderio, mi piacerebbe avere un negozio tutto mio. Ma servono tanti soldi per aprirlo e adesso tutto quello che posso fare è metterli da parte per riscattare la casa”, spiega fiduciosa Isatu.

La storia di Isatu è una storia di salvezza e riscatto, quasi un unicum nell’universo buio dell’ex Penicillina. La maggior parte di chi ha abitato in quel posto ora vive agli angoli delle strade che costeggiano lo scheletro di cemento dell’ex fabbrica romana. Per un periodo credevano di essersi salvati dal destino crudele di chi ha messo piede nello stabile occupato. Quasi tutti hanno passato l’inverno al caldo, accolti nei centri di accoglienza della sala operativa sociale e quelli dell’emergenza freddo. Ma ora che il freddo è finito, che l’emergenza – quella – non c’è più, la loro casa si riduce a un mucchio di cartoni impilati sul marciapiede di giorno e stesi di notte.

Isatu è stata baciata dalla vita. Dopo anni di inferno, ha conosciuto finalmente il sapore del riscatto. L’ex Penicillina ormai è un incubo lontano. La casa, la sua, che aveva segnato la sua fine, ora ha i tratti morbidi della rinascita.

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