Altro che malattia rara, 4 milioni di donne in Italia soffrono di vulvodinia
«Come una pinza che ti tira fortissimo il clitoride, questa è la sensazione. Passi le notti a espellere un goccio di urina intrisa di sangue con le viscere in fiamme. Un male che ti fa piegare a terra, per cui anche un jeans o uno slip stretti possono diventare una tortura». Così descrive la vulvodinia Giorgia Soleri. Durante l’intervista nella camera di albergo di Milano è seduta su un termoforo, un cuscino anatomico riscaldato che si porta sempre in valigia. Il dolore non la molla mai, ma neanche lo sguardo fiero e battagliero. «Non ricordo nemmeno quante cose ho perso per colpa del mio dolore – racconta a TPI l’attivista e autrice del libro Signorina Nessuno – Mi hanno vista decine di specialisti, sono stata ricoverata in decine di ospedali. Tutto questo è durato otto lunghi anni. Fino al 2 settembre 2020, ricordo anche il giorno perché è stata davvero una liberazione e l’inizio della terapia. Lì questo dolore finalmente ha preso un nome e si è materializzato». Ed è arrivata la diagnosi: «vulvodinia, contrattura pelvica e neuropatia del pudendo, anche detto dolore pelvico cronico».
Giorgia è una delle 4 milioni di donne che soffrono di questa patologia In Italia. Un dolore vulvare persistente, cronico, invalidante. Come spiega Giorgio Galizia, urologo specializzato in chirurgia generale e perfezionato in neurologia: «È una malattia delle terminazioni nervose, non una malattia sessuale. Il vestibolo vaginale, ovvero l’ingresso della vagina, è ricchissimo di terminazioni nervose. In queste donne però si è persa la capacità di distinguere tra tocco e dolore. C’è una sorta di anarchia delle terminazioni e il cervello risponde attivando le aree del dolore. Esclusi elementi che suggeriscano altre problematiche, si deve arrivare a quella diagnosi. Il problema è che non succede». Anche un articolo pubblicato su Nature parla di un’incidenza che va dal 10 al 16 per cento della popolazione di sesso femminile, in particolare tra i 20 e i 40 anni. Non certo una malattia rara, quindi. Eppure, come sottolinea indignata Silvia Carabelli, responsabile del Comitato Vulvodinia «i medici che non sono aggiornati su questa patologia ti dicono che è tutto nella tua testa, che basta rilassarsi, che è psicosomatico. Fino a farti sentire sbagliata. Oltre che lasciarti senza una diagnosi». Diagnosi che sarebbe anche semplice, per scoprire la vulvodinia, infatti, basta eseguire uno swab test, o test del cotton-fioc. Si tocca la vulva con la punta di un cotton-fioc: lo stimolo, normalmente non doloroso, viene percepito come un bruciore, una puntura, una lama. Spesso si accompagna a una contrattura della muscolatura del pavimento pelvico. È un effetto domino: la contrattura rende la penetrazione e il contatto dolorosi, porta alla formazione di lacerazioni della mucosa vaginale e facilita il passaggio di batteri che provocano la cistite. «Dai primi sintomi – continua Silvia – nel 2006, ho girato consultori, studi privati, ambulatori. Ho sempre ricevuto diagnosi di vaginite, ovvero un’infiammazione generica. Mi davano antibiotici anche se dai tamponi non risultava la presenza di batteri. Se una ragazza ha molte vaginiti postcoitali all’anno e non c’è presenza di batteri o funghi, dovrebbe essere un campanello d’allarme sufficiente, no? Invece i medici mi dicevano che ero sana…».
Anche secondo Giorgia Soleri «c’è un retaggio culturale maschilista, patriarcale. Alcuni medici arrivano a dirti cose assurde: che hai una relazione disfunzionale con il partner o che con il parto il dolore passerà. Perché se un uomo soffre di impotenza ha immediatamente a disposizione otto pillole diverse per curarsi e se una donna ha una malattia cronica alla vulva viene attaccata e non viene neanche dato un nome alla sua condizione?». Dal 3 maggio queste donne saranno meno invisibili. È stata infatti presentata alla Camera la proposta di legge che punta a far riconoscere la vulvodinia dal sistema sanitario nazionale. «In Italia – ci dice Giuditta Pini, deputata del Partito democratico e portavoce della proposta di legge – i problemi che riguardano le donne sono molto difficili da far passare come patologie primarie con la stessa dignità di tutte le altre. Se a essere coinvolti fossero gli organi genitali maschili e non quelli femminili, questa discussione non ci sarebbe neanche».
Il testo di legge si compone di 15 articoli e chiede allo Stato la costituzione di una commissione nazionale che emani delle linee guida specifiche per la terapia, insieme all’apertura di centri multidisciplinari in tutte le regioni e l’istituzione di un fondo nazionale specifico. È stato scritto dal “Comitato vulvodinia e neuropatia del pudendo” ed è stato depositato il mese scorso sia alla Camera che al Senato. La sua storia, però, inizia circa cinque anni fa. «Nel 2017 abbiamo tentato una riforma che ha creato una commissione – sottolinea Pini – Ogni anno questa commissione doveva aggiornare una lista con le nuove patologie, ma la proposta è ferma al Ministero delle Finanze dal 2017. Nel frattempo ci sono stati i governi Gentiloni, Conte I, Conte II e Draghi: nessuno ha mai finanziato questo progetto. Il ritardo è dovuto a due fattori. Il primo è culturale. Il secondo è tecnico. In questo Paese noi abbiamo i Lea, i Livelli essenziali di assistenza, che sono lo strumento che per legge aggiorna le patologie e tutti i parametri che servono poi eventualmente per chiedere disabilità, i ticket e la mutualità dei farmaci. Quando si tratta di trovare i soldi per il 110, si trovano 26 miliardi; quando si tratta di trovare i soldi per aggiornare i livelli sanitari di assistenza, non si sa come e non si sa perché non ci sono mai i soldi. I tempi sono infelici ed è molto difficile che venga approvata nell’immediato. Ma è assolutamente possibile e cercheremo, anche grazie alla visibilità che stiamo avendo in questo momento, di presentarla nella prossima legge di bilancio».
Mentre fino a qualche mese fa era comune che le persone rispondessero «Vulva..che?», adesso l’opinione pubblica si sta piano piano avvicinando al tema. E questo grazie a un lavoro collettivo dei Comitati, dei medici più sensibili alla questione e alla battaglia di donne e di uomini che stanno portando dalle piazze alle aule del Parlamento un’informazione corretta sulla vulvodinia. «Se c’è una cosa che ho imparato – commenta Giorgia Soleri – è che la solitudine si combatte con la condivisione.
E che spezzare il silenzio raccontando le nostre storie per rendere coro ciò che era solo una voce è lo strumento più potente e rivoluzionario che abbiamo. Così, un anno e mezzo fa ho deciso di mettere la mia, di storia, al servizio di chiunque ne avesse bisogno, me compresa. E nonostante ci sia ancora un grande tabù e venga percepito diversamente dire “mi fa male la vulva” rispetto a un mal di testa o a una gamba rotta, ho scoperto braccia pronte ad accogliermi e voci pronte a raccontarsi». La salute di stampo patriarcale ha i minuti contati.