Nel 2020 più di 1000 morti nel Mediterraneo, ma le navi umanitarie continuano ad essere bloccate nei porti
Nel 2020 più di 1000 morti nel Mediterraneo, ma le navi umanitarie non possono operare
Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) nel 2020 oltre 1.000 migranti sono morti cercando di attraversare il Mar Mediterraneo: una media di tre persone al giorno. Tra loro c’è Joseph, il bimbo di sei mesi deceduto l’11 novembre scorso tra le mani dei soccorritori della nave Ong Open Arms, che lo hanno recuperato dalle acque del Mediterraneo dopo il naufragio del suo gommone, ma troppo tardi.
Nonostante migliaia di minori come Joseph continuino a partire insieme alle proprie famiglie dalle coste dell’Africa del nord attraverso il Mediterraneo centrale, le navi umanitarie in grado di effettuare operazioni di ricerca e soccorso hanno sempre più difficoltà a condurre missioni in mare: le imbarcazioni vengono fermate per ragioni amministrative, di manutenzione o perché contro le Ong che le gestiscono pendono cause penali.
Sempre meno navi attive nel Mediterraneo
Lo evidenzia un articolo pubblicato dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (Fra) in occasione della giornata internazionale delle migrazioni indetta dall’Iom. Il rapporto mostra che al momento delle 12 navi che hanno la capacità di operare nel Mediterraneo, 7 sono bloccate per procedimenti legali in corso e 2 ferme per altre ragioni, come la manutenzione obbligata o la “sospensione” dovuta alle misure anti Covid. Significa che solo 2 sono operative: si tratta della Aita Mari, la nave umanitaria della Ong basca Salvamento Maritimo Humanitario, e della spagnola Open Arms.
Il Mediterraneo è diventato sempre più pericoloso
Dopo il progressivo smantellamento del sistema di ricerca e soccorso in mare avviato nel 2015 e rafforzato con i decreti sicurezza varati dall’Italia nel 2018 il numero di morti nel Mar Mediterraneo si è ridotto – 4,962 nel 2016 contro i 1,835 del 2019 – ma il tasso di mortalità è aumentato: il Mediterraneo è diventato sempre più pericoloso.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Iom, infatti, il tasso di mortalità nel Mediterraneo Centrale calcolato in base al numero di persone che hanno cercato di raggiungere l’Europa (definito “attempted crossing”, che comprende il numero di arrivi sulle coste maltesi e italiane sommato al numero di persone intercettate o riportate indietro dalle autorità marittime libiche o tunisine in un anno) e coloro che sono morti provandoci è salito dal 2 per cento del 2015 al 5 per cento del 2019, pari a una persona ogni 21.
Una percentuale che aumenta se il tasso di mortalità si calcola in base al rapporto tra numero di decessi riportati e numero di arrivi sulle sole coste italiane, e sale al 7,82 per cento, e cioè un morto ogni 13 persone. Nonostante questo le Ong continuano a essere soggette a fermi amministrativi, una pratica utilizzata sempre di più dai Paesi europei, con l’Italia in prima linea, per fermare l’attività delle navi senza ricorrere a procedimenti penali contro l’equipaggio, come avvenuto nel 2018 con la capitana delle navi Sea Watch e Iuventa, Pia Klemp. La capitana tedesca ha interrotto la sua attività perché indagata dalle autorità italiane e sospettata di aver “collaborato” con i contrabbandieri libici per salvare i migranti a bordo della sua nave, con il rischio di scontare 20 anni in carcere.
Navi Ong bloccate per “irregolarità”
Ma adesso sono le irregolarità riscontrate dalle autorità portuali a fermare le attività di ricerca e soccorso. Secondo il rapporto di Fra, dal 2016 oltre 50 procedimenti sono stati avviati da Italia, Grecia, Malta, Paesi Bassi e Spagna. Negli ultimi sei mesi sono stati intentate nove nuove cause civili contro navi umanitarie, quasi tutte dall’Italia, di cui quattro considerate “sequestri amministrativi basati su irregolarità tecniche legate alla sicurezza marittima”.
Le ragioni più comuni dei fermi sono il numero di passeggeri o le misure di sicurezza a bordo di un’imbarcazione, come avvenuto a ottobre per la Sea Watch 4, sottoposta a fermo amministrativo e tutt’ora bloccata nel porto di Palermo sulla base di una lunga lista di irregolarità riscontrate che vanno da alcune luci non funzionanti ad altre di impossibile attuazione. Da parte delle Ong come Medici Senza Frontiere, che nel caso della Sea Watch 4 aveva il proprio personale medico impiegato insieme all’equipaggio, c’è il timore che questi procedimenti vengano utilizzati strumentalmente per fermare i soccorsi.
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