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Velocità, flessibilità, comunità: come i millennials stanno trasformando il concetto di casa

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Da decenni, per gli italiani la casa è il bene rifugio per eccellenza, tanto che la percentuale di cittadini che detengono la proprietà della casa in cui vivono è maggiore che negli altri paesi dell’Unione Europea. Ma questa tendenza sembra destinata a mutare direzione, insieme a un mercato che sta cambiando e che asseconda l’emergere di nuove esigenze e di nuovi target con caratteristiche, valori e aspettative specifiche rispetto all’abitare. Di queste nuove tendenze, che intersecano la maggiore mobilità dei millennial, l’evoluzione del concetto di lavoro, ma anche l’idea che abbiamo di cosa definisce una comunità, abbiamo parlato con Marco Tilesi, CEO e Co-Founder di CENTURY 21 Italia, la branch italiana del colosso americano del real estate.

Oggi fa il suo ingresso nel mondo delle compravendite una nuova generazione, quella dei millennial. Quali sono le nuove istanze che questo ingresso porta con sé?

Innanzitutto, maggiore necessità di velocità e flessibilità. Questa generazione è più abituata a muoversi, a non essere radicata nel luogo in cui vive in un certo momento, perché può lavorare anche altrove, e quindi perde significato il concetto di una casa che si tramanda di generazione in generazione, in cui coesistono generazioni diverse. Quindi abbiamo una maggior velocità, un minore radicamento nel territorio del luogo di nascita e un maggiore radicamento dello spazio abitativo intorno a un luogo di lavoro variabile, perché questa generazione è molto più mobile delle precedenti.

Alcuni studi parlano di “generazione subscription”, una generazione che non ha una coscienza del denaro e un’abitudine al suo uso come oggetto materiale. Le nuove generazioni vivono di carte di credito e tendono a fruire di tutti i servizi tramite sottoscrizione. Vivono da subito l’esperienza del finanziamento e sono abituati a ottenere velocemente ciò di cui hanno bisogno tramite pagamenti rateizzati. Per cui non c’è propensione al risparmio, e non solo per un discorso di mancanza di risorse. L’accumulo del denaro per l’acquisto di un immobile non fa parte della cultura di queste generazioni. E questo ha portato a due conseguenze: la prima è che queste persone probabilmente compreranno sempre meno casa, anche in virtù della loro maggiore mobilità – e in questo senso c’è un allineamento con altri mercati, poiché, in Italia, chi vive in una casa ne è anche il proprietario in percentuale molto più alta che nel resto d’Europa, fenomeno legato al fatto che gli italiani hanno vissuto a lungo il mattone come il bene rifugio per eccellenza e hanno avuto come ambizione principale proprio quella di comprare una casa, aspettativa che questa generazione però sente con meno forza. C’è una minore propensione al risparmio, una crescente mobilità e una maggiore necessità di avere subito tutto ciò di cui abbiamo bisogno, per cui la casa la si prende in affitto. Un’ulteriore conseguenza è che gli spazi diventano più specializzati, ruotando nella loro finalizzazione attorno alle nuove esigenze di questi nuovi consumatori. In passato la casa era la stessa per tutti, ora no. Per esempio, in passato, il cittadino che si trasferiva in una grande città per frequentare l’università cercava un posto letto e viveva in una casa con altri studenti che probabilmente non conosceva, in una casa che non era stata pensata e costruita per loro. Oggi, invece, probabilmente la stessa persona andrebbe a vivere in uno studentato. Lo studentato è un’esigenza abitativa nuova, capace di fornire servizi specifici. Oggi vengono fornite sul mercato soluzioni abitative in cui centinaia di studenti vivono insieme in un complesso costruito appositamente per fornire a quella particolare tipologia di clienti spazi comuni, logistica, intrattenimento, servizi dedicati come una biblioteca interna, spazi per studiare, per passare il tempo libero. Diventano strutture costruite con una finalizzazione molto specifica, e questo è solo un esempio, ma con la crescita questa esigenza sembra tenda a essere portata avanti: il laureato che ha scoperto la bellezza della comunità dello studentato, quando diventa, per esempio, un digital nomad, probabilmente cerca una soluzione similare, come il co-living. Questi segmenti abitativi specifici per fasce di età o per tipologie professionali andranno aumentando sempre di più, a partire da questa logica condivisa dalle nuove generazioni. Il mercato e il consumatore si stanno adattando reciprocamente.

Dal punto di vista degli spazi, cosa cercano i millennial? Come sta diventando la casa del futuro? 

La casa del futuro non esiste, ma esistono le case del futuro, che a seconda dell’utilizzatore cambiano aspetto. Per esempio, abbiamo soluzioni per i cosiddetti active liver, anziani ancora attivi che non sentono propria una proposta come quella di una casa di riposo: parliamo quindi di soluzioni abitative in cui gli anziani, invece di vivere in un condominio sostanzialmente isolati, cercano una comunità dove stare bene tra di loro. Quindi, strutture costruite attorno a questa esigenza abitativa, con spazi comuni e servizi pensati per loro: spazi di condivisione, assistenza sanitaria, pulizie, disponibilità di supporto e assistenza in caso di necessità. Queste nuove case si portano dietro un concetto di comunità. Non più case abitate da soggetti eterogenei accomunati soltanto dalla necessità di trovarsi in un certo luogo, ma edifici costruiti intorno al concetto di comunità prevalente in quel contesto. Questa probabilmente è la risposta che accomuna tutte le tipologie di casa, che siano per studenti, coppie giovani, famiglie con figli cresciuti: tutte tipologie di casa differenti l’una dall’altra, ma accomunate dalla ricerca di comunità, per cui, se gli spazi della casa si andranno probabilmente a ridurre, gli spazi comuni favoriranno la creazione di opportunità di interscambio. Questo è ciò che immaginiamo.

Abbiamo parlato per esempio di co-living. Quali sono le nuove esperienze abitative al vaglio oggi e a quali il nuovo target guarda con più interesse? 

Il co-living è la soluzione più nuova da questo punto di vista. Parliamo di case, al massimo bilocali, in locazione, con spazi – come la cucina – condivisi e un forte senso di comunità organizzato da terzi, da professionisti. Ad oggi, il target a cui si guarda con più interesse è quello dei soggetti che hanno sviluppato per primi queste nuove tendenze dell’abitare: sostanzialmente digital nomad, caratterizzati da elevata mobilità. In larga parte sono gli stessi che hanno vissuto l’esperienza positiva degli studentati, che si portano dietro come modello di vita. Sia chiaro che parliamo di una tendenza, che non mi aspetto sarà prevalente nei prossimi 20 anni ma che senz’altro è tra le più rilevanti a livello di innovazione dell’abitare.

In che modo questa transizione anagrafica impatta sul vostro lavoro? Come sta cambiando la figura dell’agente immobiliare?

Sicuramente, per quanti vogliono ancora comprare casa, comunque tanti, cambia relativamente. Il sogno di acquistare casa non è finito, ma si tratta di trovare soluzioni per permettere alle nuove generazioni di realizzare ciò che è stato possibile per quelle precedenti. Cosa che però sta anche diventando più difficile, perché le agevolazioni vanno via via riducendosi. L’aspetto consulenziale quindi comincia a diventare preminente. Bisogna avere la capacità di selezionare un certo tipo di prodotti e indirizzarli ai clienti più adatti. È inutile suggerire soluzioni destinate a sparire. Facevo l’esempio della casa affittata a studenti: laddove cominciano a essere costruiti studentati di grandi dimensioni, acquistare con questo fine diventerà una scelta sempre meno saggia. Sono dinamiche che, cambiando, richiedono anche un cambio di approccio da parte di chi si occupa di mediazione. La mediazione diventa sempre più consulenza specifica per il target. È quindi necessaria una maggiore specializzazione.

Ci racconta il ruolo della tecnologia, sia nelle case che nel vostro lavoro?

Nel nostro lavoro ha sicuramente un ruolo fortissimo, in questo momento. Il match tra le esigenze dei clienti e dei venditori avviene attraverso la tecnologia. La previsione dei valori degli immobili viene fatta a sua volta tramite strumenti di Intelligenza Artificiale, e allo stesso modo la gestione del portafoglio clienti è in larga parte demandata alla tecnologia, perché ormai è tanto grande che senza il supporto tecnologico sarebbe impossibile comunicare con tutti. E sul piano della commercializzazione degli immobili pure si lavora con tecnologie sempre più avanzate: oggi parliamo di virtual tour, di rendering degli immobili – magari per aiutare i clienti a immaginarli una volta ristrutturati. E anche a livello di agenzie immobiliari la tecnologia è preminente, perché queste diventano sempre più grandi e offrono sempre maggiori servizi – come attivazione delle utenze, trasloco, regolarizzazione di parti non sanate, comunicazione di nuove normative ai clienti.

Dal lato dell’abitare, anche lì le tecnologie diventeranno sempre più importanti. I co-living hanno, per esempio, un supporto web3 a corredo delle loro community, che sono gestite da operatori terzi. In questo caso il supporto tecnologico si concretizza in applicazioni che determinano la gestione e l’uso degli spazi comuni, che devono poter essere prenotati da una piattaforma unica, messi in rete, per avere informazioni in tempo reale sul loro utilizzo e per favorire l’efficienza energetica. Queste piattaforme di gestione diventano l’elemento intorno al quale ruota la community. Si pensi anche ai meccanismi di rewarding per cui, per esempio, un utilizzatore virtuoso riceve un rating positivo dagli altri, diventando un elemento importante della propria community. Questi meccanismi determinano la costruzione di una community virtuosa proprio grazie alla tecnologia.

Un’ultima curiosità: sta tornando di moda il portiere? Quali sono i servizi che vengono riscoperti?

C’è stata una fase in cui il portiere, soprattutto per ricevere i pacchi a casa, era diventato fondamentale. Oggi sono disponibili altre modalità di consegna e questa è una funzione meno assolta, ma il portiere rimane come figura di coordinamento: è il management del building ad affermarsi come nuova necessità, applicata anche tramite il portiere di nuova generazione. Possiamo chiamare manager del building il portiere del futuro. Parlo di portatori di nuovi servizi focalizzati sulla destinazione tipica del building in questione. Per esempio, nel building dedicato agli active liver il portiere deve sapere con che tipo di clientela ha a che fare e quale tipo di problema può trovarsi a gestire, coordinando tutti i servizi che vi ruotano intorno. In questo caso, servizi come quello del fisioterapista. Lo stesso vale per studentati, co-living eccetera. È una figura più avanzata, non tanto un portiere quanto un coordinatore delle attività collaterali che questi edifici mettono a disposizione.

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